Anno 2020: crisi Covid e proletariato

Una crisi annunciata

La Pandemia globale di SARS-Covid2, il virus responsabile della malattia Covid-19, nel giro di pochi mesi ha profondamente modificato la vita sociale sull’intero pianeta. I fenomeni ai quali abbiamo assistito sono stati molteplici, tra questi possiamo elencare: la diffusione del contagio e delle morti, il lock-down, la necessità di modificare distanze sociali e adottare DPI, il svraccarico degli ospedali, gli scioperi spontanei per la sicurezza, le politiche statali del controllo sociale e della “sospensione dei diritti costituzionali” con abbondante ritorno alla retorica nazionalista per passare poi, nel tempo, ad una certa agitazione nel ceto medio che ha costituito la base per una ripresa della destra ultrareazionaria (sovranismo), mentre la progressiva riapertura delle attività che dovrebbe avvenire nel rispetto dei criteri di sicurezza, aprirà a sua volta a nuovi scenari di sfruttamento, precarietà, licenziamenti, non che ad un prevedibile e generale aumento dei prezzi, almeno di alcune merci. Sullo sfondo sta il divenire di una pesantissima crisi economica. Le migliaia di miliardi di euro stanziati per l’intervento che, almeno in Europa, in un primo tempo, erano stati annunciati, ma che, ora, passando dalle parole ai fati si vanno via via riducendo, per esempio a fine maggio ancora non sono state pagate le cassa integrazioni di marzo, bonus cento euro per il personale sanitario, bonus affitto… ma già la marea del debito nel quale sguazza l’economia contemporanea cresce e, a pagare, saranno chiamati i soliti noti: una nuova stagione di “riforme” e sacrifici sembra alle porte. Prevediamo nel prossimo futuro un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice globale, auspichiamo per i prossimi anni che questa possa essere una condizione sufficiente al fine di far riprendere primi fermenti di lotta di classe, per altri versi, mai così sotto tono come negli ultimi vent’anni.

style="position: absolute; top: 0cm; left: 0cm" La classe lavoratrice, come sempre, paga. D’altra parte pagare, ossia cedere la grande maggioranza del valore da essa realizzato per arricchire il padrone di turno, è proprio il ruolo sociale che il sistema capitalista le attribuisce. La classe lavoratrice è quella che ha già pagato un costo altissimo in termini di vittime, abbiamo visto le fosse comuni di Hart Island per le migliaia di morti dei quartieri più poveri di New York, e le abbiamo viste in un po’ tutte le zone più povere di numerosi paesi del Sud America, Medio Oriente etc. Anche in Italia la classe lavoratrice ha pagato un costo molto alto con oltre quarantamila contagi, un quinto del totale nazionale al 15 maggio, contratti nei luoghi di lavoro (1), in prima linea gli infermieri e il personale socio-sanitario. Ma gli sfruttati del mondo, dopo aver pagato in termini di vittime, iniziano a pagare anche nei termini economici del venir meno di prospettive di miglioramento, ammesso che, in tempo di crisi, ci potessero essere.

Sintetizzando: dapprima i lavoratori del mondo sono stai esposti al contagio e si sono ammalati perché “la produzione non poteva fermarsi!”. Poi, nella fase 2 delle riaperture, al pericolo del contagio si somma il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, l’estensione degli orari, la deroga alle condizioni contrattuali, per arrivare agli inevitabili licenziamenti. Il tutto in un contesto lavorativo estremamente frammentato sul territorio. Dopo di che arriverà impietosa la stagione dei nuovi tagli e sacrifici: i miliardi che gli Stati stanno “iniettando” in banche e imprese dovranno essere ripagati. Mentre l’onda lunga della crisi economica scatenata dalla pandemia avrà già mostrato, prevedibilmente entro la fine dell’anno, tutta la sua entità.Tutto è in movimento e i prossimi mesi potrebbero dirci molto sulla reale entità dell’impatto che il Covid-19 ha avuto sulla società capitalista.

Cassandre

Ci scuserà il lettore se, sul rapporto tra pandemia da un lato e i fattori che l’hanno favorita dall’altro, vengono qui riproposti alcuni aspetti già affrontati nel precedente articolo, è necessario tuttavia passarli nuovamente, ma rapidamente, in rassegna.

È almeno dai tempi della SARS, 2003, che l’OMS fece redigere ai differenti stati i “Piani per la pandemia influenzale” (2). Eppure il sistema globale è stato preso alla sprovvista: fino a che le rianimazioni degli ospedali non si sono riempite al collasso, in occidente, gli interventi sono stati prossimi allo zero. In Cina è stato diverso, là erano già vent’anni che giravano con le mascherine, più abituati, più pronti. L’assenza, le lacune, i ritardi degli interventi hanno caratterizzato quasi tutti gli altri paesi più industrializzati. Come se lo Stato successivo, sistematicamente, non avesse colto le lezioni dello Stato precedente in merito alle procedure di contrasto alla diffusione dei contagi. Perché? Il capitalismo è un sistema di mercato. Non è nella sua natura interrompere la macchina del profitto per prevenire un disastro possibile. Il rischio che sia antieconomico farlo è troppo alto. La legge del mercato impone che dove un competitor venga meno un altro, immediatamente, prenda il suo posto. Interrompere la produzione, produzioni sulla cui utilità si potrebbero poi aprire altri ragionamenti, non è un opzione contemplata, a meno che, e dopo un certo tempo, il disastro sia già avvenuto, allora non si potrà fare altro che gestire l’emergenza. Perché è nell’emergenza che la vena predatoria del capitalismo dà il meglio di sé. In una società fondata sul profitto e sul mercato, prevenire le catastrofi è fondamentalmente anti-economico, molto più profittevole attendere il manifestarsi delle stesse per poi cogliere i nuovi spazi di mercato, investimento e speculazione che queste aprono. Nel frattempo la polarizzazione sociale avanza.

Oltre alla già citata (3) deforestazione delle foreste originali al fine di conquistare spazio a coltivazioni e allevamenti intensivi, ad aggiungere elementi che possano favorire il passaggio degli agenti patogeni dagli animali all’uomo e da uomo a uomo, fino a favorire un decorso negativo della patologia, sono le pessime condizioni igienico sanitarie in cui vive circa 1/3 della popolazione mondiale. Una persona su cinque vive in slums, favelas, bidonville, township, baraccopoli senza servizi igienici, acqua corrente e assistenza socio sanitaria. Ancora, le principali baraccopoli sono concentrate lungo la fascia tropicale in Centro e Sud America, Africa, Asia. Si tratta per lo più di esseri umani che, come nell’Inghilterra dell’800, sono stati attirati dalla città perché allontanati dalle loro terre, alla ricerca di un salario, di qualcosa di cui vivere. Ma la vita in città costa cara e così le baraccopoli nelle periferie crescono, diventando un immensa riserva di manodopera a bassissimo costo. È in questi contesti di prossimità tra periferie urbane prive di igiene e progressiva riduzione degli ambienti ad alta biodiversità che, pare, i virus abbiano gioco-forza a fare il salto di specie e, sicuramente, a diffondersi (4). È in contesti simili che è esplosa l’epidemia di Ebola nel 2014. Il capitalismo non garantisce condizioni igienico sanitarie adeguate per ameno 1/3 della popolazione mondiale, ma anche gli altri non stanno bene: nella metropoli i tagli degli ultimi 30 anni hanno annichilito molti sistemi sanitari nazionali, dopo il 2008 la spesa sanitaria è stata uno degli indici della spesa familiare ad essere tagliati prima. Nel capitalismo la produzione di profitto viene sempre prima della salute.

Abbiamo già citato (5) la correlazione tra inquinamento e polveri sottili (PM10 e PM2.5) che sta alla base tanto degli alti tassi di mortalità quanto di diffusione del virus, più sotto faremo un viaggio nella Val Seriana, una valle situatua nel territorio più inquinato d’Europa, ossia nell’area settentrionale della Pianura Padana, collocata tra Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, un territorio dove la diffusione del contagio e la mortalità sono stati, appunto, massimi. È ancora questo modo di produzione ormai anti-storico che, non solo non è in grado di prevenire le emergenze, ma restituisce, come scarto di produzione, le migliori condizioni affinché il virus si diffonda.

Una nota a parte merita lo smantellamento del SSN in Italia. Come detto, dal 1981 al 2017 sono stati tagliati 339.000 posti letto, dal 2009 al 2019 (governi di centro destra, tecnico e centro sinistra) sono stati tagliati 37 miliardi di spesa sanitaria. Qua si nota, nella stessa metropoli, la differenza tra l’impatto del virus su di un sistema sanitario forte, come quello tedesco, che ha fondamentalmente tenuto, e l’impatto del virus su sistemi sanitari più deboli come Italia, Spagna, Inghilterra, Stati Uniti, nei quali i tassi di mortalità sono stati significativamente più elevati. Più i sistemi sanitari sono stati privatizzati e tagliati, più il virus si è diffuso e ha mietuto vittime, con i reparti di emergenza che sono arrivati presto al collasso. Figuriamoci nei paesi e territori della periferia dove le condizioni sono ancora molto peggiori. Discorso ancora a parte merita la scellerata decisione di trasferire i malati Covid nelle RSA e il fatto che, per mesi, gli operatori sanitari abbiano continuato a lavorare senza essere provvisti di adeguati DPI, diventando a loro volta vittime e vettori del contagio. Nel capitalismo gli eroi sono coloro i quali muoiono per la suprema difesa della patria, dei suoi interessi economici, del profitto. Da questo punto di vista il personale sanitario sono stati veramente eroi: contagiati e morti per coprire le falle del sistema del profitto.

Tutto questo avveniva, infine, sullo sfondo di un contesto socio-economico già incerto, nel quale la crisi del 2008 era tutt’altro che superata (6). Procediamo.

La crisi Covid e il proletariato

Il padronato all’attacco. #milanononsiferma: non chiudete! Ancora a fine febbraio, sotto l’insistente pressione di Confindustria ed in generale del grande capitale italiano si minimizza il rischio Covid. Il governatore della Lombardia, Fontana, lancia l’ashtag #Milanononsiferma mentre il presidente del PD Zingaretti – probabilmente in questo contesto contrarrà il virus – indugia con dei giovani militanti del PD prendendo un aperitivo sui navigli. Il messaggio è chiaro: “non dobbiamo e non possiamo fermarci” e anticipa il falsamente speranzoso: “Andrà tutto bene”.

È la retorica del potere, l’arroganza della classe dominante: negare sempre, tutto, anche se l’evidenza diche che bisogna chiudere e che “non sta andando tutto bene”. La macchina del profitto non può e non deve fermarsi e se proprio deve, il più tardi e per il minor tempo possibile.

Quel frivolo desiderio di non fermarsi, quei cocktail sui navigli, quell’hastag veicolato sui socialmedia costeranno caro alla Lombardia nella quale, da sola, si produrranno quasi la metà dei morti Covid d’Italia. Ma per capire meglio come la crisi Covid abbia avuto il pregio di scoperchiare l’intimo legame che, nel capitalismo, lega potere economico e potere politico, facciamo un passo indietro e di lato, per andare in due paesi della provincia di Bergamo.

La Val Seriana un modello per capire la crisi Covid. Alzano e Nembro. Il 23 febbraio al pronto soccorso di Alzano Lombardo vengono accertati due casi positivi al Covid, l’ospedale – come da protocollo – chiude, ma, poi, inspiegabilmente, dopo tre ore riapre. Il 2 marzo l’ISS invia una nota riservata al Governo nella quale, a causa dell’elevato numero di casi Covid, chiede l’immediata istituzione di una zona rossa nella Val Seriana. Governo e Regione si rimpallano il problema e, differentemente da quanto fatto a Codogno già dal 21 febbraio, la zona rossa non viene dichiarata, eppure il DPCM del 23 febbraio metteva in condizione di dichiarare la zona rossa anche il sindaco Bertocchi che pure, in quei giorni, dichiarava: “Chiudere sarebbe un danno incalcolabile per il nostro territorio”. I casi positivi, la segnalazione dell’ISS, Governo, Regione e Comuni che avrebbero potuto proclamare la zona rossa. Perchè nessuno l’ha fatto?

La Val Seriana viene considerata il cuore produttivo della provincia di Bergamo: al suo interno si trovano circa 400 imprese, che contano un totale di oltre 4mila dipendenti, con un importantissimo indotto e un forte impatto sull’export italiano. Il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti, ancora il 7 aprile ci spiega con arroganza che: “Eravamo contrari a fare una chiusura tout court così, senza senso.”

Il Lock-down avverrà, nell’intera lombardia e in quattordici altre province, l’8 marzo. Solo nei primi due comuni citati i morti delle prime tre settimane di marzo sono aumentati del 1000% rispetto l’anno precedente. Il 16 aprile il “falco” Bonomi verrà eletto nuovo presidente di ConfIndustria la sua prima dichiarazione è: “non pensavo di sentire più l’ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori”.

Noi non siamo carne da macello! L’11 Marzo, dopo aver esteso la “zona rossa” in tutta Italia, il Presidente Conte ordina la chiusura di tutte le attività commerciali non indispensabili, ma i padroni non vogliono. Ancora Marco Bonometti afferma: “È un segno di irresponsabilità non capire i problemi che [noi padroni] abbiamo”. Dalla mattina del 12 marzo, in Italia, lavoratori in centinaia di fabbriche e aziende scioperano e abbandonano spontaneamente il luogo di lavoro. Sono tutte produzioni veramente non indispensabili. Si diffonde a macchia d’olio lo slogan: “Noi non siamo carne da macello”. Nel caso di Roma, gli autisti e i macchinisti della più grande azienda di Tpl italiana, l’Atac, hanno dovuto aspettare il 17 Marzo, un mese dopo la dichiarazione di emergenza nazionale, per avere le prime misure di protezione, comunque insufficienti (ancora ai primi di maggio le mascherine sono spesso non disponibili, la sanificazione inadeguata).

La CGIL insegue subito gli scioperi e, nel tentativo di controllarli si fa portavoce delle esigenze di sicurezza degli operai, aspira istituire nuovi tavoli per concertare la ripresa. La posizione che assume il principale sindacato italiano è la risultante di una molteplicità di forze che agiscono e si intrecciano. C’è la necessità del sindacato di non essere scavalcato dai lavoratori che, spontaneamente, abbandonano i luoghi di lavoro. Vi è lo stesso spirito di autoconservazione della struttura che vede la vita dei suoi stessi iscritti messa a repentaglio dalla diffusione del virus. Vi è la necessità di legittimarsi al tavolo delle trattative con il padronato e il governo. La contrattazione produce un accordo vuoto: il “Protocollo sulla salute nei luoghi di lavoro” in realtà è pieno di falle, è il padrone, di fatto, a decidere se chiudere o meno. Mentre i pullman che continuano a trasportare i pendolari sono sovraffollati, l’assenza di dispositivi di protezione non è considerata causa sufficiente a interrompere il lavoro. Ma i lavoratori non si fermano e gli scioperi spontanei, le fermate etc. continuano e si diffondono in tutto il paese, fabbriche, logistica, supermercati, magazzini, riders… sono a migliaia, in parallelo al diffondersi delle notizie sul contagio. Il 21 marzo Landini, segretario nazionale CGIL, candidamente afferma “La CGIL, come finora ha sempre fatto, chiede al Governo un ulteriore atto di responsabilità per evitare che la paura della gente si trasformi in rabbia”. Sotto la crescente pressione dei lavoratori i sindacati proclamano gli scioperi regionali del 25 marzo, ma poi li sostengono senza convinzione, come al solito. Il 24 arriva l’accordo che chiude le attività non essenziali. Viene stilata una lista di oltre 100 attività essenziali che non possono chiudere, tutte ampiamente interpretabili: la non essenzialità di molte di queste attività, come la produzione di armi, è quanto meno dubbia.

Migliaia di aziende, soprattutto al nord, ottengono la deroga con una semplice autodichiarazione e pochi o nulli i controlli. Di fatto, l’unico vero argine alla diffusione del virus nelle zone industriali sono stati gli scioperi operai spontanei, ma troppe sono le aziende che ancora continuano a produrre. A dirlo è l’Istat, che stima che, a fine marzo, oltre la metà delle imprese lombarde fossero attive, circa 450mila sulle 800mila totali. 23mila le autocertificazioni per deroga. Il totale dei controlli effettuati da Ats (Agenzia Tutela Salute), NAS e Carabinieri? 228. Su queste basi si aprirà la fase 2.

In Italia, durante il lockdown, hanno continuato a lavorare a pieno regime, ogni giorno, 15,4 milioni di persone in 2,3 milioni di imprese “essenziali” (??). Quasi il 50% delle aziende ha continuato l’attività, più erano grandi più lavoravano. Circa il 70% delle aziende con più di 250 dipendenti non si è mai fermato continuando ad occupare 2/3 della forza lavoro complessiva (7).

Mentre il padronato studia come ripartire, già iniziano ad esserci i primi licenziamenti, come i 20 lavoratori interinali che la GKN di Firenze non rinnova, e molti, molti altri l’elenco si allunga di giorno in giorno perché, ricordiamolo, ogni mancato rinnovo è, di fatto, un licenziamento. Come sono licenziamenti politici in piena regola quelli dei molti lavoratori che hanno perso il posto perché denunciavano l’assenza dei dispositivi di protezione in alcune aziende come accaduto al lavoratore licenziato dalla toscana ATI (igiene urbana) (8) e all’operaio dell’Alcelor Mittal di Taranto (9). In molti casi i lavoratori sono stati sanzionati per gli stessi motivi, come i lavoratori della cooperativa socioassistenziale Àncora, tutt’ora in mobilitazione (10).

Il personale sanitario. Al 22 maggio erano oltre 27mila gli operatori sanitari contagiati in Italia. Oltre un contagiato su dieci, a dimostrazione di come non solo il Sistema Sanitario Nazionale fosse fondamentalmente impreparato ma decine di migliaia di lavoratori della sanità venivano mandati allo sbaraglio con criteri di sicurezza che, solo con molta lentezza, si sono adeguati alle necessità del caso. Ancora a fine aprile “Rileviamo l'assoluta inconsistenza dei contenuti del documento sulla ‘Fase 2’, di recente approvato dal Consiglio regionale della Lombardia, riguardo alle proposte di riorganizzazione del sistema sanitario, che altro non fanno che riproporre l'esistente, lasciando di fatto immutate le criticità risultate evidenti, dolorosamente, nella gestione di questa pandemia” (11).

E la situazione non vale solo in Italia, ma in tutto il mondo. Per fare solo un esempio tra le centinaia possibili, in Perù il personale sanitario ha protestato fuori dagli ospedali di Lima per la mancanza di protezioni negli ospedali, infermieri e medici erano costretti a riutilizzare più volte le mascherine usa e getta. Cambiando il nome dello stato praticamente a piacere, la situazione si è ripetuta identica ovuque, come i Belgio dove all’ospedale ST Pierre di Bruxelles il personale sanitario ha letteralmente voltato le spalle al premier Sophie Wilmes in visita.

Le RSA. La non tutela dei lavoratori della sanità, e alcune scelte criminali nelle prime fasi dell’emergenza, hanno favorito la diffusione del virus nelle RSA, dove si sono registrati circa un terzo dei decessi complessivi. Nella Regione Lombardia si è toccato l’apice dell’irrazionalità che caratterizza il capitalismo: la delibera di Giunta dell’8 marzo chiedeva alle strutture per anziani di prendere pazienti Covid per liberare posti negli ospedali, senza nemmeno supportarle con materiale sanitario, logistico o personale dedicato. «È stato come mettere un cerino in un pagliaio» sintetizzava Luca Degani di Uneba, un’associazione che rappresenta un migliaio di enti socio-sanitari. (12) A fare da centro di smistamento verso le altre strutture sarebbe stato il Pio Albergo Trivulzio, periodicamente al centro di enormi scandali. Arrivati qui i pazienti non sarebbero nemmeno stati isolati come dovuto. I morti causati da questo “modello” sono stati migliaia. Oltre il danno, la beffa, a causa del repentino calo del numero degli assistiti, molte RSA stanno mettendo in cassa integrazione il proprio personale: nel capitalismo a pagare sono sempre i lavoratori, prima con l’esposizione al rischio fisico, poi con il peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e in fine con i licenziamenti e la fossa.

Una classe lavoratrice internazionale

Rivolte globali. L’anno 2019 si era aperto con il presidente Macron costretto a fare delle concessioni al movimento, generalizzatosi, dei Jilet Jaunes, e continuava con le cosiddette “rivolte globali”: movimenti di protesta di massa contro i governi si sono espressi in numerosi paesi del mondo in Africa (Algeria, Egitto, Sudan…), Sud America, Medio-Oriente (Iraq, Libano...) fino a Honk Kong. Questi movimenti non riuscivano però a trovare una matrice realmente comune, come scrivevamo: “gli manca la stessa qualità che rappresenta realmente una minaccia per l’assetto politico esistente: i loro diversi interessi sociali e di classe assicurano che alla fine il movimento si spaccherà, con la classe lavoratrice ed i diseredati che finiscono con il sentirsi traditi mentre le classi professionali in via di declassamento e la piccola borghesia finiscono per diventare sostenitori della nuova élite al potere” (13).

Questi movimenti, fondamentalmente, si sono caratterizzati per il non avere un programma politico definito, ma per il rivolgersi tanto contro il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione (caro vita per lo più), quanto contro la corruttela dell’estabilshment dirigente e le generiche richieste di democrazia, giustizia, equità. Questa matrice comune, sebbene non direttamente classista, dimostra come ad ogni latitudine del pianeta le condizioni che il capitalismo impone alle popolazioni sono sempre più dure, e sempre più omogenee. Tanto i movimenti globali quanto il Covid dimostrano qualcosa di molto importante: esiste oggi più che mai una classe lavoratrice internazionale che può e deve alzare la testa per unirsi e difendere i propri interessi, senza mediazioni.

L’esempio della logistica. Fin dalla metà di marzo, i magazzini di Amazon in tutta Europa sono stati attraversati da scioperi e agitazioni dovute al rifiuto dei manager di adottare le misure sanitarie necessarie al contenimento del Covid-19. Niente disinfestazioni, nessuna protezione per i lavoratori, per altro costretti spesso a lavorare a meno di un metro di distanza l’uno dall’altro, nessun permesso di restare a casa per malattia, questo nonostante in molti magazzini alcuni lavoratori siano risultati positivi. È stata una battaglia lunga, combattuta durante il lock-down, quando il volume degli acquisti on-line cresceva in maniera esorbitante a causa dell’impossibilità delle persone di uscire per fare spese. In Italia da Castel San Giovanni a Passo Corese come nei magazzini polacchi, francesi, statunitensi, Amazon è stata attraversata da uno sciopero transnazionale. In Francia i lavoratori hanno persino costretto la multinazionale a limitare le consegne ai prodotti strettamente necessari. Nel frattempo nella logistica in generale i turni aumentavano fino a 12 ore e venivano ridotti i periodi di riposo, le possibilità di riunirsi e di scioperare, causa Covid, venivano sensibilmente ridotte. In Amazon il 30 marzo gli scioperi per ottenere condizioni di sicurezza si sono diffusi in moltissimi hub degli USA. Emblematica una petizione redatta da questi lavoratori (14) le principali rivendicazioni sono: giorni di malattia pagati anche se il tampone del Covid non è stato fatto o è risultato negativo, un sussidio per sostenere i bambini che rimangono a casa, un aumento di paga come indennizzo per il rischio connesso a lavorare nel Covid, no all’incremento dei ritmi per permettere anche la sanificazione dei pacchi che vengono maneggiati, immediata chiusura dello stabilimento, test e sanificazione se un collega risulta positivo. L’aggiornamento del 22 aprile veniva stilato mentre i casi negli USA continuavano a lievitare e Amazon ignorava la maggior parte delle richieste e, addirittura, pare, nascondeva alcuni casi positivi, le nuove richieste erano: informare i lavoratori per ogni nuovo caso positivo, smettere di vendere e spedire merci non indispensabili, copertura medica per tutti i dipendenti Amazon, compresi i lavoratori part time.

Gli altri scioperi Covid. A partire dal Nord Italia, dove il contagio per primo ha colpito duramente, all’Europa, Russia e Stati Uniti, che sono diventati rapidamente il centro globale della pandemia, dal Messico al Ghana, dall’India al Brasile i lavoratori, la classe operaia, sono scesi in sciopero. Il movimento è stato talmente notevole che esiste una pagina di Wikipedia dedicata proprio agli scioperi nel Covid (15) le categorie di lavoratori che a varie latitudini del mondo hanno scioperato per la sicurezza sono: autisti degli autobus, distribuzione e logistica, lavorazione del cibo, confezionamento, manifatture, settore sanitario, commessi, ristorazione, pulizie, trasporti navali e, sicuramente, molti altri. Il sito paydayreport.com (16) ha identificato negli USA almeno 220 scioperi a gatto selvaggio a partire dai primi di marzo. In Cile la classe lavoratrice, già in forte mobilitazione da ottobre, è tra le più colpite. Solo nel mese di marzo sono stati licenziati 300mila lavoratori, mentre altri 800mila sono costretti ad accettare tagli alle paghe, per non perdere il posto di lavoro. Sono gli effetti della “Legge per la protezione dell’impiego” voluta dal sanguinario presidente Pinera in accordo con la Confindustria locale. Questo accordo prevede la sospensione e la riduzione dello stipendio per i lavoratori in quarantena. Per tutti quelli che perdono il lavoro solo un misero buono una tantum. A fine marzo, mentre il governo voleva riaprire tutto, i dipendenti pubblici hanno risposto manifestando davanti al palazzo della Moneda, distanziamento sociale strettamente rispettato, 7 arresti.

style="position: absolute; top: 0cm; left: 0cm" Negli Usa gli scioperi hanno colpito diverse aziende, tra cui Amazon (come già detto), Whole Foods, Perdue Farms e Instacart, General Electric, FIAT Chrisler, insieme al trasporto locale in diverse città. Sempre negli USA il primo maggio i lavoratori di moltissime aziende hanno scioperato – là è un normale giorno lavorativo - questa volta tutti insieme, per chiedere il rispetto di condizioni di sicurezza per chi lavora. Moltissime – impossibile fare un elenco – le situazioni in cui i lavoratori scioperano, o semplicemente rimangono a casa pur senza percepire stipendio, perché non è loro garantita sul luogo di lavoro la distanza sociale, prodotti per le pulizie, disinfettanti, mascherine, guanti. A queste si sono sommate, come per i lavoratori di consegne di cibo a domicilio Whole Whorker (controllata Amazon), la richiesta di un indennizzo di un ulteriore 10% per le consegne. Tra le lotte in corso sono spiccate quelle dei Rider, giovane spezzone del nuovo proletariato, che in molte città hanno scioperato per i medesimi motivi.

Insomma, un po’ in tutto il mondo è sufficiente che un collega risulti positivo al Covid-19, o che l’azienda non garantisca adeguati dispositivi di protezione per provocare scioperi, sospensione dell’attività produttiva o l’avvio della procedura di malattia.

Diverso invece è quanto sta accadendo in altri settori, come il tessile in Asia, dove le commesse sono per lo più cinesi. Il 28 marzo la fabbrica di abbigliamento Myan Mode a Yangon, Myanmar, ha licenziato in modo permanente tutti i 520 membri sindacali che lavoravano nella fabbrica e ha trattenuto i salari di marzo, giustificandosi con una diminuzione degli ordini dovuta al Covid. Ma i proprietari, con sede in Corea, hanno mantenuto al lavoro gli altri 700 dipendenti non sindacalizzati e la fabbrica continua a funzionare. In Cambogia 91 fabbriche di abbigliamento hanno sospeso la produzione causando la perdita di 61.500 posti di lavoro a febbraio, quando il virus ha colpito il settore tessile cinese che conta un giro d’affari di 250 miliardi di dollari. In Myanmar almeno 20 fabbriche si sono fermate per la carenza di tessuto e si teme se ne fermino molte altre. Questi ed altri episodi di licenziamenti di massa nell’asia sud orientale stanno a significare che i padroni hanno già iniziato a ridurre il personale: la prossima, prevedibile, contrazione dei mercati porterà ad osservare il ripetersi di tale fenomeno su scala ancora più ampia. Dal punto di vista economico, la crisi del coronavirus supera di gran lunga tutto quello che l’industria dell’abbigliamento ha affrontato in passato.

Tornando ad una visione più globale, la caratteristica che ci pare emergere da questi scioperi Covid è duplice: da un lato dimostrano, ancora, che le condizioni della classe lavoratrice sono sempre più simili ai quattro angoli del pianeta, le parole d’ordine sono state più o meno le stesse, ovunque è apparso lampante come il proseguimento stesso del ciclo produttivo capitalista mettesse direttamente in discussione la vita dei lavoratori e come gli scioperi fossero l’arma più potente per preservare la salute. Dall’altra tali scioperi, nonostante la loro quantità e importanza, sono stati frammentari, spesso estemporanei, nati dall’emergenza e immediatamente rifluiti non appena l’emergenza si è parzialmente rientrata. Non siamo a conoscenza di casi di significativa solidarietà tra settori, né dell’unione di più vertenze in una, tanto meno di contenuti politicamente anticapitalisti. Anzi, probabilmente la lotta contro l’immediato pericolo di vita è il livello più elementare al quale si può esprimere il conflitto di classe. Il dato di realtà è che solo la comune battaglia anticapitalista può fungere da collante e propulsore per l’unità di tutti i settori della classe. Scioperi e le proteste avvengono indipendentemente dalla presenza dei rivoluzionari, ma, senza i rivoluzionari, difficilmente questi conflitti troveranno la via della ricomposizione di classe che, invece, può avvenire solamente sul piano politico dell’anticapitalismo rivoluzionario: la ricomposizione politica, al di là della frammentazione in categorie, è la condizione e il fine del partito rivoluzionario.

La posizione del proletariato immigrato. La stessa UE sta valutando la creazione di “corridoi” per permettere lo spostamento dei migranti interni attraverso le frontiere, ma esclusivamente per lavorare nel settore agricolo. Alcuni governi stanno cercando di costringere chi ha perso il lavoro a fare domanda per posizioni che, in precedenza, erano occupate da lavoratori migranti stagionali. Molti paesi europei, tra cui il Regno Unito, lamentano la scarsità di lavoratori migranti, per lo più donne, nelle abitazioni private, negli ospedali e nelle case di riposo. In Italia si stima che manchino 350.000 braccianti agricoli. Anche qui il virus ha messo in evidenza l’insostenibilità del modello agricolo capitalista che è, e rimane, economicamente sostenibile solo fintantoché è disponibile una forza-lavoro iper economica e ultra precaria, possibilmente clandestina (perché più ricattabile). La produzione agricola capitalista, per sopravvivere, è obbligata di per sé a spingere i salari al di sotto del valore della forza-lavoro, da qui la sanatoria del Governo al fine di ricondurre la forza-lavoro immigrata nei campi, in cambio del minimo riconoscimento possibile.

Lo sciopero dell’affitto. Il primo aprile è stato lanciato lo sciopero degli affitti: #RentStrike2020 e si è diffuso un po’ in tutto il mondo. Non siamo in grado di dare una valutazione quantitativa della sua efficacia, ma sappiamo che migliaia hanno aderito in Italia e nel mondo, una delle parole d’ordine più chiare di questo movimento è stata “se non ci pagano lo stipendio, non possiamo pagare l’affitto”. Più chiaro di così. Ma, almeno da noi, pare che la cosa si sia diffusa per lo più in ambiti militanti.

Meglio morire di Covid che di fame! Prima del Covid in Italia vi erano 14 milioni di poveri, su 60 milioni di popolazione, 2,7 milioni di questi rischiano la fame. La crisi Covid non farà che peggiorare questa situazione. Già a fine marzo, in Italia, si sono verificati una serie di assalti ai supermercati, in particolare è salito alle cronache l’episodio del 26 marzo a un Lidl di Palermo. La situazione, sopratutto al sud, appariva veramente critica. Milioni di lavoratori in nero, infatti, con il lock down, hanno perso la loro unica fonte di (misero) reddito. In molti si sono presentati alle casse con generi di prima necessità dichiarando: “Non ho soldi. Come faccio?”. Nel giro di poco tempo il governo ha promesso l’estensione di un “reddito di emergenza” (di cui però non si è più saputo nulla) e, sopratutto, la distribuzione di buoni spesa da affidare ai comuni, incaricati di distribuirli alle famiglie in difficoltà. Questo mentre, ancora a fine maggio, per moltissimi lavoratori, la cassa integrazione di marzo e aprile ancora non è arrivata.

Anche in questo caso il resto del pianeta offre scenari simili. In Libano venerdì 17 aprile gruppi di manifestanti hanno bruciato in piazza copertoni chiedendo sostegno al reddito, le proteste continuano quotidianamente, il governo promette aiuti, ma poco o niente viene garantito. Il 20 aprile nella città di Vladikavkaz in Ossezzia del Nord, una delle zone più povere della russia, scoppia la protesta, repressa dalla polizia che ha continuato per tutto il giorno a rastrellare i quartieri periferici. La richiesta: aiuti economici e alimentari da parte dello Stato. E via così in un po’ tutte le zone meno ricche del pianeta.

Cronache dal pianeta degli slum. In Ecuador la situazione è tra le più drammatiche, il numero di morti è più che quintuplicato rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, la causa è probabilmente il Covid, ma i tamponi non vengono fatti perché non ci sono. In molte città e paesi, per liberarsi dei corpi, si fanno delle pire in mezzo alla strada. Le principali cause di questa drammatica situazione sono le solite: il sistema sanitario praticamente inesistente e sottoposto a pesantissimi tagli negli ultimi anni e l’attività lavorativa, in particolare l’estrazione del petrolio, che non si è mai arrestata.

Mentre scriviamo il Brasile, per le stesse motivazioni, alle quali si somma la politica criminale di Bolsonaro, sta diventando uno dei maggiori epicentri mondiali del contagio. Le fosse comuni ai margini delle favelas ospitano cadaveri a migliaia. In Colombia ad aprile a protestare sono stati i residenti dei quartieri poveri di Bogotà: hanno chiuso le strade con barricate dopo che gli aiuti alimentari promessi dalle autorità nazionali non sono stati distribuiti.

Il World Food Programme dell’ONU ha descritto la situazione attuale dichiarato, il 21 aprile, che il numero di persone denutrite potrebbe raddoppiare nel 2020, passando dagli attuali 135 milioni a 265 (17). A causa dell'emergenza Covid, il 2020 potrebbe chiudersi in America latina con 23 milioni di nuovi poveri e un aumento del 10% della disoccupazione. É quanto emerge da un recente rapporto della Commissione economica per l'America Latina e i Caraibi (Cepal) sugli effetti economici della pandemia nella regione.

Anche qui la crisi Covid dimostra due fattori, il primo è che, al di là di ogni discorso sul progresso umano, la miseria, la marginalità sociale, l’esclusione sono elementi strutturali e pervasivi della società capitalista, la seconda è che, come in tutte le crisi, anche in questa, a pagare il prezzo più alto sono gli ultimi della società, fatto dimostrato anche dalle rivolte che sono scoppiate nelle carceri di mezzo mondo, tanto più sovraffollate e malsane quanto più la crisi avanza e marginalizza esseri umani.

Per tornare nella metropoli, negli Usa, a metà maggio i nuovi disoccupati erano già balzati a 38 milioni. Disoccupazione Usa al 14,7%, mai così alta dal dopoguerra più del triplo dal 4,4% di marzo. Un salto che ha fatto impallidire la massa dei disoccupati del 2008.

Il padronato all’attacco

Pronti per passare all’incasso. I padroni rimangono sempre molto concreti e hanno già cominciato a stilare la lista della spesa per le loro esigenze: flessibilità ulteriore su orari, ferie, inquadramenti, spostamenti, assunzioni e… licenziamenti, quando servono, come nel caso dei lavoratori della Jabil di Marcianise. Lo smart working usato disinvoltamente per prolungare a casa il normale orario svolto nel luogo di lavoro e, spesso, per tenere a casa sopratutto le donne, specie se la scuola non dovesse riprendere a pieno ritmo. Pesanti saranno le concessioni che il padronato otterrà anche su altri aspetti legati magari alla possibilità di ricevere fiumi di denaro (vedi p.es. i 6,3 miliardi chiesti allo stato da FIAT Chrysler), magari anche di non pagare le tasse e intraprendere con sempre meno vincoli e lacciuoli e sempre più sostegni da parte dello stato.

Lo Stato dell’emergenza. «Alle difficoltà delle imprese e del mondo del lavoro [determinate dall'emergenza coronavirus] potrebbero accompagnarsi gravi tensioni a cui possono fare eco, da un lato, la recrudescenza di tipologie di delittuosità comune e il manifestarsi di focolai di espressione estremistica, dall'altro, il rischio che nelle pieghe dei nuovi bisogni si annidino perniciose opportunità per le organizzazioni criminali» (18). Così la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. In questo periodo, in Italia, sono fioccate multe per chi ha provato a manifestare nonostante i divieti, ora che la libretà di circolazione è tornata sarà interessante vedere come si comporteranno i governi. Tutto lascia a presagire che, al fine di prevenire e reprimere il possibile malcontento alimentato dall’avanzare della crisi, molte delle norme anti diffusione Covid potrebbero trasformarsi in norme anti diffusione di scioperi e conflitto, pensiamo, in prospettiva ai copri-fuoco, al divieto di circolare e assembrarsi. Bisognerà osservare con attenzione il divenire degli eventi.

Ripresa del sovranismo. Intanto chi, sicuramente, si sta nutrendo della paura Covid, costruendoci sopra tutta una retorica reazionaria, è l’estrema destra. Fortemente alimentata dalla capacità di veicolare notizie false e reazionarie (Facke news) attraverso la possente rete comunicativa che ha costruito negli anni e forte della capacità di fare leva sui sentimenti peggiori del ceto medio, la destra più o meno estrema in questi mesi di quarantena ha fatto letteralmente il comodo suo. Ha addirittura, ad Ostia, in pieno lock-down, occupato un intero spazio, area 121, senza che nessuno trovasse nulla da ridire. Questo dimostra anche come lo stato e le forze dell’ordine siano particolarmente benevoli nei confronti dei fascisti che, sempre, possono tornargli utili. Manifestazioni, occupazioni di centri sociali, comizi, distribuzione di generi alimentari “agli italiani”. Non si sono fatti mancare nulla, e la retorica nazionale del “siamo tutti sulla stessa barca” dei tricolori alle finestre e degli inni nazionali ha sicuramente giocato a loro vantaggio. “Spettacoli” simili li abbiamo visti anche altrove, a partire dalle manifestazioni dei nazionalisti repubblicani, pro Trump, contro il lockdown negli USA. Ancora una volta il reale problema, però, è l’incapacità dei settori di classe di sviluppare una progettualità indipendente e capace di contrapporsi allo sciovinismo dilagante. In assenza di un tale punto di riferimento, il ceto medio non può che scivolare tra le braccia dei nazionalisti, purtroppo, trascinando con sé anche fette più o meno consistenti di proletariato.

I nostri compiti. Concludiamo invitando i compagni a tenere gli occhi aperti e ad intervenire là dove possibile, perché la situazione di novità presentata dal Covid potrebbe aprire spazi di intervento inaspettati. Il nostro compito è di creare un ossatura militante fondata sui concetti cardine di lotta di classe, internazionalismo, partito, rivoluzione, comunismo. Sono queste le categorie politiche caratterizzanti che dobbiamo avere la forza e la capacità di far circolare nella classe al fine di raccogliere attorno ad esse gli elementi migliori che i conflitti possano esprimere. Collegare immediatamente le vertenze contingenti (licenziamenti, inquinamento, peggioramento salariale etc.) con la necessità di una battaglia politica anticapitalista è un passaggio inderogabile. Se abbiamo affrontato e visto con quale palese chiarezza il capitalismo si riveli immediatamente come la matrice generativa di tutte le problematiche fin qui affrontate, allo stesso tempo è evidente come questo rapporto fatichi a diventare elemento corrente nel dibattito politico, sopratutto all’interno della sinistra più o meno di classe. Naturalmente il punto di partenza di qualsiasi ragionamento deve essere la crisi come prodotto principale del modo di produzione capitalista, per passare poi alle problematiche all’ordine del giorno, aggravate da quella che abbiamo chiamato “crisi Covid”, per dimostrare come la prospettiva anticapitalista sia la sola praticabile. Alla luce di cosa? Della prospettiva comunista, perchè nemmeno negli ambienti della sinistra di classe, infatti, pare che il comunismo vada più di moda, eppure si tratta dell’unica medicina possibile contro il virus capitalista.

In estrema sintesi è questo il peso e il contenuto politico che noi internazionalisti dobbiamo buttare sul piatto della bilancia del manifestarsi del conflitto di classe, comunque questo appaia. Il nostro fine è e rimane quello di costruire attorno a tale piattaforma il percorso di costruzione di un soggetto politico rivoluzionario. Sono queste coordinate che facciamo pesare sul tavolo del confronto con chiunque si ponga sinceramente sul terreno dell’anticapitalismo proletario, internazionalista e comunista. La situazione è in divenire e noi continueremo ad osservarla e ad intervenirvi.

Lotus

(1) La Stampa 22 maggio.

(2) salute.gov.it

(3) Vedi articolo precedente, anno 2020: Covid e crisi economica

(4) ilmanifesto.it

(5) Ivi.

(6) leftcom.org

(7) wired.it

(8) leftcom.org

(9) bari.repubblica.it

(10) pubblicoimpiego.usb.it

(11) Paola Pedrini, segretario della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale) il 21 aprile.

(12) Luca Degani di Uneba, un’associazione che rappresenta un migliaio di enti socio-sanitari

(13) leftcom.org

(14) medium.com

(15) en.wikipedia.org

(16) paydayreport.com

(17) ansa.it

(18) rainews.it-

Domenica, July 11, 2021

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.