Sulla diminuzione dell’orario di lavoro

Improvvisamente la questione della diminuzione dell’orario di lavoro é diventata di moda. A sollevarla é stata Rifondazione comunista, in sintonia con l’iniziativa del Governo francese, in coda ad un intenso contenzioso con il Governo Prodi, che ha prodotto una stranissima crisi politica all’interno della maggioranza, crisi evitabile e poi superata nel momento in cui sembrava che le cose fossero irrimediabilmente irrecuperabili. Le ragioni di questa crisi, vere nella forma, false nei contenuti, risiedono tutte all’interno della faida tra le due componenti della sinistra istituzionale, tra Rifondazione e il Pds, in chiave di spartizione di segmenti dell’elettorato di sinistra e nelle tensioni politiche che il partito di Bertinotti non é più in grado di dominare, o che amministra con sempre maggiori difficoltà.

In sintesi le ragioni sono queste: il Pds e Prodi, convinti di essere i salvatori della patria capitalistica italiana, non hanno ceduto alle richieste di Bertinotti sul ritiro della finanziaria, rischiando la crisi di Governo ben sicuri che in un eventuale confronto elettorale avrebbero avuto largamente la meglio, e sulla opposizione che nei confronti dell’alleato "comunista" per i meriti ottenuti sul campo.

Rifondazione voleva mostrare al proprio elettorato di essere l’ago della bilancia, cioè una forza politica della quale l’attuale maggioranza non può fare a meno, non soltanto per raggiungere e consolidare i parametri economici di Maastricht, ma anche per gestire al meglio tutte le politiche dei sacrifici presenti, passate e a venire, ovvero di essere un pacificatore sociale di cui il capitale non può fare a meno, e contemporaneamente un buon riformista del quale il mondo del lavoro ha bisogno. Inoltre Bertinotti doveva tenere duro per ricompattare all’interno del suo partito tutti coloro che minacciavano scissioni e abbandoni se il capo carismatico avesse firmato l’ennesima finanziaria senza una adeguata contropartita. Infine, l’atteggiamento di apparente intransigenza sino alle estreme conseguenze della fasulla crisi, risiedevano nella rabbia politica con la quale Bertinotti ha vissuto il suo scavalcamento a "sinistra" con l’accordo tra Pds e i sindacati sui contenuti della finanziaria. Da qui lo scontro con D’Alema, poi in parte rientrato, e quello con Cofferati ancora in atto.

È questo lo scenario all’interno del quale sono maturate le condizioni della richiesta di una diminuzione dell’orario di lavoro a 35 ore a partire dal 2001. Se é pur vero che Bertinotti ha sempre dichiarato di avere come obiettivo la riduzione dell’orario di lavoro, si ricorderà lo slogan " lavorare tutti, lavorare meno, a parità di salario", la sua proposta cade in tempi e modalità perlomeno sospette, come sospetta è la formula legislativa che ne é alla base. In altre parole, così come l’accordo tra Rifondazione e Governo é stato firmato sembra essere un inganno e non un passo verso una effettiva diminuzione della settimana lavorativa. La cosa strana é che Rifondazione ha favorito la nascita di un Governo di centro sinistra che doveva palesemente avere il compito di contenere il costo della forza lavoro, di smantellare lo stato sociale, di colpire le pensioni e la sanità. Questo lo avevano capito tutti, per primi i cosiddetti poteri forti, tra i quali la Fiat che per bocca dell’avvocato Agnelli ha in più occasioni benedetto quel Governo che avrebbe saputo fare tutto quello che avrebbe fatto anche un Governo di destra ma senza riempire le piazze di lavoratori inferociti.

Infatti in un anno e mezzo, periodo nel quale é passato di tutto - dalla riforma sulle pensioni al lavoro interinale, dagli accordi sullo smantellamento dello stato sociale ai contratti d’area, dalla crescente disoccupazione alla istituzionalizzazione degli straordinari - il partito di Bertinotti, complici i Sindacati, non ha portato in piazza un manifestante. In compenso la più grande manifestazione (un milione di persone) tra Milano e Venezia, indetta contro il falso spauracchio della secessione, per l’unità del capitalismo italiano, li ha visti in prima fila. Ha consentito che le finanziarie violentassero i già magri salari dei lavoratori per ben 100 mila miliardi di lire. Per una fasulla promessa di occupazione al sud ha consentito che nelle aree cosiddette depresse il capitale potesse avere a disposizione una forza lavoro sottopagata sino al 60% del salario normale, con contratti a termine senza nessuna garanzia occupazionale. Ha accettato tutte le politiche dei sacrifici con la sola rettifica del "non li devono pagare soltanto i lavoratori" che nulla toglie all’adeguamento totale alle necessità del capitalismi e alle sue logiche di compatibilità. Non ha mosso un dito, se non qualche verbale protesta prontamente rientrata all’atto della esecutività degli impegni programmatici, sulle necessità da parte del capitalismo italiano di raggiungere i parametri di Maastricht. Ha accettato sino in fondo la logica capitalistica rendendosi corresponsabile del massacro economico e sociale che si é abbatto sul mondo del lavoro.

Se Rifondazione fosse stata una organizzazione, non diciamo comunista come pretende di essere, ma soltanto di sinistra borghese sensibile agli interessi della classe lavoratrice, si sarebbe messa nella condizione di fare opposizione fuori e contro il Governo, e non fungere da quinta colonna di sostegno delle sue politiche economiche. Avrebbe dovuto opporsi alle finanziarie e non accettarle mugugnando sulla necessità di colpire l’evasione fiscale. Si sarebbe dovuta impegnare contro i licenziamenti organizzando manifestazioni nelle fabbriche e nelle piazze e non limitarsi a mandare i suoi rappresentati nei salotti televisivi a disquisire di politiche economiche necessarie ma eccessivamente vessatrici. Avrebbe dovuto respingere l’idea stessa delle politiche dei sacrifici quale strumento di ricomposizione del capitalismo italiano. Invece ha fatto l’esatto contrario con la sola variante di pretendere qua e là alcune correzioni ed emendamenti alle leggi finanziarie, rinunciando a qualsiasi atteggiamento di opposizione, stando ben al di sotto delle stesse compatibilità del sistema. Per cui la promessa strappata al Governo di una legge che disciplini la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore sembra più uno strumento di ricompattamento delle tensioni interne e uno smacco nei confronti dei Sindacati, che una lotta a favore della classe lavoratrice. Inoltre va tenuto conto anche delle gravi limitazioni all’accordo tra le quali la creazione di una Commissione tripartita che avrebbe il compito di valutare, all’atto dell’entrata in vigore della legge, se la diminuzione dell’orario sia compatibile con le compatibilità dell’economia. Limitazione che rischia di annullare prima ancora che nasca la legge stessa.

In compenso Rifondazione ha votato l’ennesima finanziaria, quella della crisi, e ha dovuto dichiararsi disponibile al varo di quella del 98 che é già in preparazione. Insomma tanto rumore per nulla, ma prendiamo in considerazione il problema della diminuzione dell’orario di lavoro per quello che é, che potrebbe essere, al di fuori delle strumentalizzazioni di Rifondazione.

Una necessaria distinzione

Il problema della disoccupazione, che in regime capitalistico sempre, con questo capitalismo in particolare, alle prese con una incontenibile caduta del saggio del profitto, non é superabile con i palliativi dei lavori socialmente utili, dello sviluppo delle imprese non profit o da un intervento assistenziale dello stato mai come oggi indebitato, un’ala del riformismo radicale, di cui Rifondazione ha copiato alcuni slogan, ha pensato che il lavorare tutti, lavorare meno ma a parità di salario, potesse essere la ricetta risolutiva. L’idea forte si basava su di una semplice osservazione. Se si reintegrano i lavoratori espulsi si determina un esubero della forza lavoro all’interno dei meccanismi di produzione, esubero che può essere eliminato facendo lavorare di meno la massa di forza lavoro, ovviamente a parità di salario. Ottimo, come non averci pensato prima!

Una opportuna lotta in questa direzione, tempestiva e previdente, avrebbe evitato milioni di licenziamenti, tante sofferenze in meno per i lavoratori e le loro famiglie. Avrebbe creato le condizioni per la creazione di tempo socialmente libero e, soprattutto non avrebbe consentito tutti i guasti sociali e morali che una disoccupazione forte e diffusa porta inevitabilmente con se. Ma quelle stesse infantili ideologie e forze politiche che oggi pensano, o fanno finta di pensare, che il lavorare tutti, lavorare meno e a parità di salario sia possibile, sia cioè una strada riformistica praticabile e risolutiva della disoccupazione, sono le stesse che non hanno saputo o voluto opporsi ad un solo licenziamento. E la ragione di ciò che realmente é accaduto in termini di aumento della disoccupazione e di impossibilità pratica di reintegro dell’intera forza lavoro espulsa sta nel concetto economico stesso del capitalismo. Sarebbe come pretendere di avere un capitalismo senza capitale, un capitale senza profitti. Sarebbe come pretendere di distribuire i profitti del capitale tra i lavoratori o di rivendicare una giornata lavorativa di quattro ore a salari indicizzati al saggio di produttività. Sarebbe come pretendere di eliminare tutti gli effetti negativi del capitalismo lasciando la suo forma economica intatta, sarebbe come tentare di eliminare gli effetti senza eliminare la causa che li pone in essere (al riguardo vedere Prometeo N° 10-11-12).

Solo in una società comunista, dove la produzione e la distribuzione della ricchezza sociale prodotta non prevedono l’esistenza del capitale e delle indissolubili leggi che regolano la creazione del plus valore e del profitto, sarà possibile la piena occupazione, un orario lavorativo ridotto e un adeguato accesso ai consumi e servizi sociali. In regime capitalistico porre i problemi in quei termini significa o non aver capito nulla o essere in mala fede politica.

Il lavorare tutti, lavorare meno a parità di salario, se fosse possibile significherebbe attribuire al capitalismo la capacità e le risorse necessarie per garantire un posto di lavoro a tutti i cittadini che siano in grado di svolgere una qualsiasi funzione o lavoro. La giornata lavorativa, secondo gli stessi dati Ocse emessi un paio di mesi fa, se ci fosse la piena occupazione e se gli impianti lavorassero a ciclo continuo sfruttando al 100% la proprie capacità, oscillerebbe tra un minimo di 3 ore e mezza a un massimo di 5, mantenendo l’attuale volume di merci e servizi. E i salari, nel bel mezzo di tanta produttività non solo dovrebbero rimanere inalterati ma aumentare secondo i tassi di incremento del prodotto sociale.

Ma tutto ciò non soltanto non sarebbe compatibile con il capitalismo, ma rappresenterebbe il contrario in termini di leggi economiche e di sfruttamento che ne regolano la vita e il suo rapporto con la forza lavoro. Chiedere riformisticamente al capitalismo di suicidarsi é politicamente stupido ed è ancora più stupido pretendere che lo faccia.

La pericolosità di simili impostazioni, sia che vengano proposte in una sorta di delirio politico, fuori e contro qualsiasi ragionevole prospettiva di realizzazione, sia che provengano dai sempre più praticati atteggiamenti strumentali per apparire al proprio referente politico ciò che in realtà non si é, finiscono sempre e comunque per giocare un ruolo negativo nei confronti della classe e, in prospettiva, per la ripresa della lotta di classe. La prima conseguenza negativa é rappresentata dalla vacuità operativa di una simile rivendicazione, la seconda riguarda il solito inganno del metodo riformistico.

Nel primo caso sventurato sarebbe il proletariato che subisse il richiamo di quelle sirene rivendicative che lo porterebbero dritto verso una cocente sconfitta dalla quale si rialzerebbe male e in tempi tremendamente lunghi.

Nel secondo la tragica insidia risiederebbe nel solito inganno perpetrato dal riformismo di illudere i lavoratori che il mezzo per risolvere i problemi dello sfruttamento e per creare le condizioni per una nuova organizzazione sociale siano quelle delle lotte riformistiche sia per quanto riguarda i problemi contingenti che quelli strutturali di respiro strategico. Altra cosa è la rivendicazione della diminuzione dell’orario di lavoro.

La questione della diminuzione dell’orario di lavoro

Altri sono gli scenari e le dimensioni che dovrebbero regolare la giusta rivendicazione di un accorciamento della giornata lavorativa. È nella storia del rapporto tra capitale e forza lavoro, é nella storia del proletariato l’incessante lotta contro lo sfruttamento, per aumenti salariali e per la riduzione dell’orario di lavoro. Guai a quella classe che rinunciasse per scelta tattica, o peggio ancora per condizionamento da parte degli organismi della borghesia, a difendere i propri interessi, anche se contingenti e minimali, contro l’arroganza del capitale e dei suoi amministratori. Un certo Marx diceva che quella classe che rinunciasse a combattere per i suoi interessi quotidiani non solo la rivoluzione non la farà mai, ma non sarebbe nemmeno degna di essere presa in considerazione.

In una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata da un inaudito attacco da parte del capitale alle condizioni di lavoro e sociali dei lavoratori, la risposta di classe dovrebbe articolarsi sia nel rintuzzare, categoria per categoria, fabbrica per fabbrica, posto di lavoro per posto di lavoro, in attesa di più consistenti omogeneizzazioni e generalizzazioni delle lotte, gli assalti del capitale all’occupazione, ai contratti, alle pensioni e la sanità, che nel proporsi sul terreno rivendicativo in termini di aumento del salario e di diminuzione dell’orario di lavoro.

Purtroppo la lotta di classe non può permettersi il lusso di scegliere il tempo, il campo e le modalità delle scontro, ma di solito le deve subire. Ma ciò non significa che debba rinunciare alla lotta, o lottare soltanto all’interno delle compatibilità imposte dal sistema o lanciarsi contro i mulini a vento rappresentati da parole d’ordine, che pur partendo dai reali problemi dei lavoratori, finiscono per proiettarle al di là di qualsiasi realistica prospettiva per poi creare le condizioni di un riflusso precipitoso e politicamente disarmante all’interno delle solite compatibilità del sistema.

Qui sta uno dei nodi delle lotte di rivendicazione in generale e della riduzione dell’orario di lavoro in particolare, il rapporto tra la lotta, la sua compatibilità con le leggi economiche capitalistiche e la valenza politica che le si attribuisce. E sempre all’interno di questo rapporto si decanta la differenza tra il riformismo minimalista, il riformismo radicale da una parte e rivoluzionari dall’altra. Per i riformisti minimalisti le lotte rivendicative di qualsiasi tipo, diminuzione dell’orario di lavoro compreso, devono rimanere ben al di sotto delle compatibilità del sistema. Le rivendicazioni salariali, qualora vengano ritenute perseguibili, non solo devono avere alle spalle uno scenario economico positivo, di ripresa o di espansione, ma occorre che incidano il meno possibile sui profitti e sul saggio del profitto.

È necessario che crescano in termini assoluti meno dell’inflazione e della produttività e che non si determinino all’interno di quei settori produttivi più esposti alla concorrenza internazionale. Quando lo scenario economico non lo consente, il riformismo minimalista teorizza e pratica l’astensione da qualsiasi rivendicazione, sino ad arrivare all’accettazione delle politiche dei sacrifici quale condizione necessaria alla ripresa economica, al ripristino di livelli accettabili di profitto, ad un "giusto" saggio di sfruttamento della forza lavoro. Finiscono in altri termini per giocare un ruolo di conservazione delle necessità economiche del sistema e di contenimento delle eventuali risposte della classe, per culminare in veri e propri strumenti di repressione sui posti di lavoro qualora fosse necessario. È quanto i sindacati e le forze politiche che li ispirano fanno da decenni, con particolare intensità e applicazione da venti anni a questa parte, da quando i bassi saggi del profitto hanno enormemente ridotto i margini di manovra e dove alle rivendicazioni del mondo del lavoro contro il capitale si é sostituito il force attacco del capitale contro i lavoratori. In fabbrica, nella busta paga, nel sociale attraverso lo smantellamento del Welfar, della sanità e nel delicato settore della previdenza. Percorso quello dei sindacati, che li ha portati prima all’allontanamento dagli interessi storici della classe, poi al distacco da quelli quotidiani ed infine a fungere da quinta colonna del capitale all’interno del campo proletario. L’utopia minimalista di adattare il capitalismo alle esigenza dei lavoratori, nel rispetto delle compatibilità, si é risolto nel suo contrario, nello snaturamento del sindacato e dei suoi obiettivi, in strumento di condizionamento dei lavoratori alle necessità del capitale. È il capitalismo che ha trasformato a sua immagine e somiglianza il sindacato e non viceversa.

Per quanto riguarda il riformismo radicale il discorso si complica, anche se soltanto di poco. Figlio diretto dello stalinismo, ha vissuto sino in fondo la sua sconfitta storica senza nemmeno accennare una rilettura sulla esperienza sovietica e di tutti i paesi del cosiddetto socialismo reale. Riformista per natura, ferocemente controrivoluzionario, attento anch’esso alle compatibilità del capitale, ma con slanci idealistici che lo portano, nel migliore dei casi a complicarsi la vita, nel peggiore a fallire miseramente, in entrambi a svolgere un ruolo di confusione all’interno del proletariato. La negativa ambivalenza consiste nell’operare per abbassare il tiro delle rivendicazioni quando la classe si muove, nello sforare le compatibilità quando la lotta di classe langue, con il risultato di lottare contro i mulini a vento e di creare false illusioni riformistiche ponendo obiettivi irrealizzabili all’interno del quadro economico sociale capitalistico.

Un esempio di riformismo radicale, anche se parziale e contraddittorio è Rifondazione. Controrivoluzionaria per scelta strategica, sensibile alle compatibilità del sistema sino a farsi carico di tutte le politiche dei sacrifici del Governo di centro sinistra, delle finanziarie e degli attacchi sul costo della forza lavoro. Talmente responsabile sul tema delle compatibilità da non compromettere mai e comunque il raggiungimento dei parametri di Maastricht a spese del proletariato in cambio di poche, quanto vaghe promesse, sulla occupazione e sul contenimento dello smantellamento del Welfare. In compenso il partito della Rifondazione comunista sta predicando da anni che la soluzione al problema dei problemi, la disoccupazione, inevitabile conseguenza del capitalismo moderno, passa attraverso la drastica riduzione dell’orario di lavoro in modo da occupare tutta la forza lavoro disponibile ai livelli salariali attuali. Per poi ripiegare su di una più compatibile riduzione dell’orario a 35 ore a partire dal 2001, senza pretendere la piena occupazione e lasciando la voce salari nella più assoluta indeterminatezza e delegando al Governo l’opportunità dell’applicazione a seconda, ancora una volta, delle compatibilità del capitalismo. Classico volo pindarico a cui segue l’inevitabile ricaduta tra la braccia della borghesia.

Per i comunisti le cose stanno diversamente. Innanzitutto ci deve essere la chiara coscienza che le lotte rivendicative, di qualunque natura e contenuto, devono essere espressione della lotta di classe. O la classe si muove sul terreno della difesa dei propri interessi, ed allora il compito delle avanguardie rivoluzionarie è quello favorirne la crescita e l’intensità, e soltanto in qualche caso di anticiparne i movimenti, oppure gli obiettivi rivendicativi delle lotte che non esistono facilmente diventano tema di patteggiamento tra gli schieramenti politici per la gestione del potere o dei segmenti elettorali di riferimento. È ciò che è accaduto con la rivendicazione delle 35 ore. È in assenza di un proletariato in lotta, perché politicamente disorientato, ideologicamente disarmato, avvezzo a subire passivamente gli attacchi del capitale come un male inevitabile, ripiegato su se stesso sino al punto di non riconoscersi più nemmeno come classe altra rispetto alla borghesia, così ridotto da anni di gestione da parte degli stessi riformismi radicale e minimalista, che parte l’iniziativa di Rifondazione. La rivendicazione delle 35 ore é diventata merce di scambio tra il Governo Prodi e il partito di Bertinotti. Il primo ha superato la crisi, ha riguadagnato la fiducia internazionale, ha imposto a Rifondazione di votare l’ennesima finanziaria legandola alla approvazione programmatica di quella del 98. Il secondo non ha perso completamente la faccia, ha in parte riguadagnato margini di credibilità a sinistra colpendo basso sia il Pds che i sindacati. Entrambi ben sapendo che i termini dell’accordo sulle 35 ore, così come sono stati stipulati, difficilmente andranno in porto nonostante il polverone che hanno suscitato in tutti gli ambienti politici.

I comunisti non si pongono pregiudizialmente il problema se le rivendicazioni espresse dalla lotta di classe siano compatibili o meno con il sistema economico che le ha stimolate. Una volta partite come momento di scontro da parte della classe, se sono compatibili con il sistema, ovvero se hanno possibilità di successo perché sostenibili dai meccanismi di accumulazione del capitale, il compito dei rivoluzionari é quello di portarle sino in fondo radicalizzando e generalizzando la lotta e cercando di ottenere il massimo possibile. Contemporaneamente occorre che all’interno della lotta i rivoluzionari introducano un significato politico che non termini con la lotta stessa, che non si estingua nel nulla sia che la rivendicazione fallisca o che abbia successo, ma che si sedimenti almeno nella coscienza politica delle avanguardie di classe. Il significato politico è che una vittoria salariale come una riduzione dell’orario di lavoro, qualora si verifichino, se pure importanti nell’economia della lotta di classe, non possono assolutamente essere considerate come passi verso la soluzione riformistica degli interessi storici della classe operaia, ma come una briciola strappata all’interno del sistema capitalistico che non risolve i problemi del proletariato sia in termini contingenti, che soprattutto, da un punto di vista strategico che comporta l’abbattimento dei rapporti di produzione e non la loro accettazione anche se critica, ne tantomemo la loro trasformazione riformistica.

Se fossero incompatibili perché metterebbero in discussione i meccanismi di estorsione del plus valore e dei processi di accumulazione, perché irrealizzabili sul piano riformistico della lotta di classe fermi restando i rapporti di produzione capitalistici e i rapporti di forza con la borghesia, per i rivoluzionari si aprirebbero comunque spazi politici da occupare. In primo luogo va rigettata l’utopia riformistica che qualsiasi rivendicazione economica e politica, salariale o di orario di lavoro, possa trovare soluzione all’interno del sistema capitalistico purché ci sia la determinazione e l’organizzazione necessarie. Al contrario va dimostrato come il riformismo da sempre, oggi con particolare evidenza dato il restringersi dei margini di compatibilità, non sia assolutamente in grado di risolvere le contraddizioni del capitalismo e che in prospettiva solo la via rivoluzionaria é in grado di dare risoluzione alle sue contraddizioni eliminando le cause che le pongono in essere.

Eliminando cioè i rapporti di produzione capitalistici e primo fra tutti il rapporto tra capitale e forza lavoro. In secondo luogo va messo in rilievo che i contenuti di quelle rivendicazioni che non sono compatibili con i livelli di accumulazione e di sopportabilità del capitalismo trovano il loro limite non nella utopia che le sorregge o nelle aspettative sociali che ne stanno alla base, ma nel capitalismo stesso. La richiesta di una migliore distribuzione sociale della ricchezza prodotta, una diminuzione del tempo sociale di lavoro in diretta proporzione con l’aumento della produttività del lavoro, il lavorare tutti e di meno e l’avere accesso ai consumi secondo le proprie necessità non sono di per sé delle utopie rispetto alle potenzialità economiche e produttive attuali, lo diventano se si ritengono perseguibili all’interno della forma produttiva capitalistica. Il limite rivendicativo di certe richieste non é nel loro contenuto bensì nel quadro economico e sociale nel quale pretendono di inserirsi lasciando inalterati i meccanismi antagonistici e contraddittori che lo generano.

Infine che le rivendicazioni siano o non siano compatibili con il sistema per i rivoluzionari rimane sempre il compito di far trascrescere le lotte dal terreno economicistico, riformistico, in lotte politiche con contenuti progressivamente rivoluzionari.

Le trentacinque ore di Bertinotti

Fatto salvo il principio generale in base al quale le lotte di rivendicazione che abbiano come obiettivo la riduzione dell’orario di lavoro sono sempre e comunque legittime, nel caso dell’accordo tra il Governo e rifondazione sulle 35 ore, indipendentemente dalla loro fattibilità, l’odore di bruciato é molto forte. Intanto perché, come abbiamo visto, il tutto é partito non da una lotta dei lavoratori ma dall’alto, in maniera strumentale secondo il classico rapporto tra gruppi di potere o di forze politiche che si impongono un terreno di scontro. Poi perché la rivendicazione, apparentemente radicale, è il risultato di una faida interna alla sinistra politica e sindacale e non il vero obiettivo del contendere. Infine perché i termini dell’accordo sono un inno alla ipocrisia delle parti, dalla quale il proletariato, merce di scambio nella vertenza e non protagonista, si deve ben guardare. Si potrebbe dire che ciò é irrilevante, l’importante é che l’accordo passi e poi di vedrà, ma le cose non stanno in questi termini. L’accordo recita, senza altra menzione riguardo le garanzie, che entro il 98 il Governo si impegna a varare un legge che disciplini progressivamente entro il 2001 la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali. Il fatto é che senza alcuna garanzia, fatta eccezione per quella voluta dal Governo che si é assicurato subito il voto di Rifondazione sull’ultima finanziaria, quella della discordia, e l’impegno su quella del 98, spostare l’orario di lavoro dalle nominali 40 ore alle altrettanto nominali 35 sarebbe una pura formalità contabile senza concreti vantaggi per i lavoratori. Secondo la legislazione attuale, all’atto della firma dell’accordo tra Rifondazione e il Governo, in Italia l’orario massimo di lavoro settimanale secondo una legge del "23" non dovrebbe superare le 48 ore come in quasi tutti i paesi europei anche se, accordi ormai decennali, hanno ridotto a circa quaranta ore il tetto massimo. Fanno eccezione la Germania, l’Irlanda e l’Olanda dove il tetto massimo é rappresentato dalle 48 ore e l’Inghilterra in cui non ci sono limiti orari disciplinati per legge, retaggio delle amministrazioni tatcheriane che l’attuale Governo Blair si é ben guardato dal rivedere. Nella realtà le cose vanno molto diversamente.

Secondo le normative contrattuali, i turnisti elettrici e metalmeccanici dovrebbero lavorare 36 ore e mezza . I lavoratori del commercio, dell’industria agro alimentare e delle telecomunicazioni 38. Mentre nei settori chiave della produzione reale come la metalmeccanica, edilizia, chimica ( gomma e plastica), ferrovia e agricoltura l’orario massimo sarebbe di 39 ore settimanali.

Ma prassi vuole che nei settori chiave dell’economia italiana con l’istituzionalizzazione degli straordinari, che nessun contratto impone come obbligatori ma che il capitale, con il colpevole assenso dei Sindacati rende tali, pena una serie di boicottaggi sull’ambiente di lavoro, la settimana lavorativa si allunga sino alle 46-48 ore per sfondare il tetto delle 50 in alcuni casi. È ovvio che, se non si mette mano all’uso indiscriminato dello straordinario, "straordinario" strumento di risparmio per il capitale e contemporaneamente nefasta situazione per i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro, che il tetto massimo dell’orario settimanale venga abbassato a 35 ore non significa nulla. Sarebbe soltanto un modo per far lavorare qualche esperto in statistica che dovrebbe calcolare la maggiore differenza che esisterebbe tra le ore ufficiali e quelle effettivamente lavorate. Un accordo come quello tra il Governo e Rifondazione che non delimiti il campo con sufficienti garanzie e non disciplini l’istituto degli straordinari non solo é destinato a fallire ma finisce per essere una presa in giro per tutti quei lavoratori che si aspettino tempi e ritmi di lavoro più umani.

L’altra garanzia che é venuta clamorosamente a mancare é quella relativa alla flessibilità. Il fronte degli imprenditori, pur conscio della strumentalizzazione e della inefficacia dell’accordo, ha colto la palla la balzo mettendo le mani avanti.

Mai e poi mai "accetteremo una simile riduzione per legge", ma se la cosa dovesse passare la contropartita consisterebbe nella più selvaggia flessibilità del lavoro. In altri termini ad una più o meno intensa riduzione della settimana lavorativa i gestori del capitale contrappongono un uso della forza lavoro indiscriminatamente legato ai ritmi e alle necessità del ciclo produttivo. Al lavorare di meno, anche se di poco, corrisponderebbe un asservimento pressoché completo della forza lavoro alle esigenze temporali e di gestione dei fattori produttivi del capitale. Una sorta di disponibilità assoluta 24 ore su 24 con turni concentrati a seconda delle necessità e con giornate di lavoro flessibili in funzione delle esigenze del mercato.

A questo punto il quadro, senza le debite garanzie che Rifondazione si é ben guardata dal chiedere, sarebbe soltanto peggiorativo per la forza lavoro.

L’ipotetica riduzione d’orario non comportando l’annullamento degli straordinari, creerebbe la paradossale situazione per la quale si lavorerebbe come prima dalle 46 alle 50 ore settimanali, ma con una flessibilità maggiore e con un più intenso sfruttamento. Ma ciò che rende pressoché nullo l’accordo sulle 35 ore é la clausola in base alla quale deve insediarsi una Commissione tripartita composta dai rappresentanti del Governo, dei Sindacati e della Confindustria che ha il compito di vagliare sulla compatibilità dell’accordo sulla diminuzione dell’orario di lavoro con lo stato dell’economia. Come dire che, la legge può anche essere promulgata ma la sua applicazione parziale o totale, o addirittura la sua non applicazione, dipendono dal giudizio che la Commissione dà sullo stato generale del rapporto tra capitale e forza lavoro, sul suo grado di efficienza e di competitività sul mercato internazionale. Dati i soggetti politici che compongono la Commissione sono veramente scarse, per non dire nulle, le possibilità che la legge entri in vigore nonostante i limiti e le possibili contromisure precedentemente viste.

La commissione tripartita

Quando Prodi, subito dopo aver firmato l’accordo con Rifondazione, diceva agli sconcertati imprenditori di stare tranquilli che il tutto si sarebbe svolto in maniera assolutamente non traumatica, sapeva cosa stava dicendo. All’interno della Commissione che renderà operativo o meno l’accordo nessuna delle tre componenti ha interesse a una diminuzione dell’orario in generale, tantomemo alle 35 ore come recita la futura legge.

Il Governo pur di non distruggere l’immagine di un capitalismo italiano capace, efficiente, in linea con l’Europa di Maastricht, arrivato alle soglie del suo "successo" pagato dai lavoratori senza che questi ultimi ne avessero intralciato il percorso, grazie all’opera di pompieraggio e di contenimento delle forze della sinistra, non ha esitato più di tanto a concedere la promessa della legge. Non tanto come ringraziamento a Rifondazione per l’opera svolta, quanto per consentire al partner di sinistra di continuare a svolgere il suo compito di imbonitore dei lavoratori sino al raggiungimento completo dell’obiettivo, poi si vedrà. Compito che sarebbe diventato certamente più problematico se Rifondazione avesse firmato l’ennesima finanziaria senza proporre una qualche contropartita. Questo lo sapevano bene entrambi. Sia Prodi che Bertinotti, certamente senza un accordo ma altrettanto certamente consci dello scenario interno e internazionale e dei rispettivi ambiti politici, hanno ritenuto opportuno chiudere la partita con una proposta di legge sull’orario di lavoro che risolvesse più i loro problemi che quelli del proletariato italiano. Per Bertinotti un mezzo che gli consentisse di salvare la faccia e di vincere la sua battaglia nel segmento elettorale della sinistra, per Prodi una promessa innocua, priva di qualsiasi garanzia di efficacia e soprattutto in grado di dissolversi in qualunque momento le forze politiche interessate lo ritenessero opportuno. Il Governo quindi, pur essendo il firmatario della proposta, appartiene per ruolo, opportunità politica e scelta economica al campo di chi spingerà la Commissione tripartita alla scontata decisione di soprassedere alla messa in atto della riduzione dell’orario di lavoro o di ridurla ai minimi termini, innocua e inefficace, docile strumento nelle mani del capitale. Ne consegue che la prima forza appartenente alla Commissione non abbia alcun interesse a rendere operativa la legge. Qualsiasi Governo borghese, quello dell’Ulivo compreso, anche se attento alle dinamiche delle alleanze e dei compromessi a destra e a sinistra, in quanto strumento politico del capitale non può, in nessuna circostanza, venire meno al suo ruolo di tutela dei meccanismi di valorizzazione, di sostenitore dei margini di competitività, che da qualunque parte li si voglia affrontare, prevedono la compressione del costo del lavoro in termini di orario e di salario.

Scontato l’atteggiamento della Confindustria.

Per la seconda componente della Commissione tripartita il problema della riduzione dell’orario non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione. Per Fossa e soci solo l’inavvedutezza tattica del Governo ha creato, anche se in termini più formali che sostanziali, l’esplosione del caso. Caso che, una volta posto, va comunque affrontato con la massima determinazione a scanso di equivoci e per ribadire i diritti del capitale in una fase di attacco alla forza lavoro che, per essere incisivo come i bassi saggi del profitto e l’esasperazione della concorrenza internazionale impongono, non può permettersi il lusso di cedere sulla questione dell’orario di lavoro. Secondo i calcoli della Confindustria per ogni ora lavorata in meno sono tre punti in più del costo del lavoro ed una uguale perdita di produttività, fermi restando tutti gli altri parametri economici. In termini finanziari la riduzione di quattro ore lavorative sarebbe pari a un costo di 35 mila miliardi , di cui almeno la metà a carico diretto delle imprese. La rabbia di Fossa é che, mentre all’estero i gestori del capitale sono riusciti ad imporre orari e ritmi di lavoro più lunghi e più intensi, il "suo" Governo, anche se soltanto per questioni tattiche, pone all’ordine del giorno una questione pericolosa. Ovviamente fossa dimentica che se all’estero mediamente si lavora di più in Italia l’intensità lavorativa per unità oraria è ben al do sopra della media.

Fatta 100 la media della produttività oraria dei paesi Ocse, l’Italia arriva all’indice 129,7 ben al di sopra della produttività oraria degli Stati Uniti 121,5, della Germania 108,5 della Francia 118,4 e del "mitico" Giappone che riesce a esprimersi solo con un misero 80,3. Ma questi discorsi alla Confindustria non piacciono. Piace invece ricordare, con un discorso che parte dalle esigenze dal capitale per arrivare a difendere le aspettative del capitale stesso, che una simile pratica sulla riduzione dell’orario di lavoro sarebbe un boomerang per i lavoratori stessi. Il sillogismo è questo: meno ore di lavoro significano più costi per l’impresa. I maggiori onori si trasformano, nel peggiore dei casi in diminuzione della competitività, crisi di alcuni settori dell’economia, restringimento della base produttiva, quindi disoccupazione. Nell’ipotesi migliore la diminuzione dell’orario di lavoro indurrebbe le imprese ad impegnarsi sul terreno della ristrutturazione ad alto contenuto tecnologico con la conseguenza di un drastica contrazione dei posti di lavoro, quindi, ancora una volta disoccupazione. Discorsi che fanno il paio con quelli che recitano la litania per cui se non ci fossero gli imprenditori non ci sarebbero posti di lavoro, che lottare contro le imprese è come lottare contro se stessi e contro i propri interessi.

È un messaggio all’avversario di classe perché continui a non dare fastidio, ad accettare il capitalismo e le sue leggi di sfruttamento come una regola inalterabile, ad avere sensibilità e senso di responsabilità sempre, ma in modo particolare quando il quadro economico generale non è dei migliori e il capitalismo italiano subisce il perso della concorrenza internazionale.

L’olimpico Avvocato, che di solito non si sporca le mani con questioni relative al mondo del lavoro, ha ritenuto di dover intervenire sull’argomento dichiarando seraficamente che il problema si potrebbe prendere in considerazione solo quando gli Stati uniti, il Giappone e i più importanti paesi Ocse si incamminassero per primi sulla strada della diminuzione dell’orario lavorativo. Mai e poi mai l’Italia li deve precedere, pena l’esclusione completa dal mercato internazionale. All’unisono gli amministratori del capitale italiano, sia che appartengano ai cosiddetti poteri forti o che facciano parte del resto dello schieramento imprenditoriale, invocano la clausola della dissolvenza, ovvero dell’annullamento della proposta di legge.

Non ce n’era bisogno, era al di sopra di qualsiasi dubbio che il mondo imprenditoriale avesse un atteggiamento pesantemente negativo, ciò non di meno va ribadito come anche la seconda componente della Commissione tripartita sia dalla parte del no senza concessioni di sorta.

Per quanto riguarda la terza componente della Commissione, i Sindacati, le cose diventano più complesse e gravi.

Superati a sinistra dalla iniziativa di Bertinotti, spiazzati politicamente, battuti sul proprio terreno, i Sindacati non hanno nemmeno avuto il coraggio, o l’intelligenza tattica, di rincorrere la situazione, di addomesticarla alla meglio, ma hanno stizzosamente risposto di no al progetto delle 35 ore. Avvezzi ad avere come punto di riferimento le necessità e le compatibilità del sistema, quasi per un riflesso condizionato, di fronte a una iniziativa che oltretutto aveva il cattivo gusto di chiuderli in un angolo, hanno reagito frapponendo una serie di argomentazioni dal contenuto più giustificatorio che antagonistico con un occhio alla base e l’altro rivolto alla conservazione del proprio ruolo sociale. Due questioni di non secondaria importanza se si tiene conto del fatto che la desindacalizzazione sta superando i limiti di guardia e che se il Sindacato dovesse farsi scavalcare ancora sul "suo" terreno da una qualsiasi forza politica, a maggior ragione di sinistra riformista che avesse la capacità di proporre e di gestire le lotte, metterebbe in discussione la sua funzione di unico contenitore della forza lavoro e di efficace strumento a difesa della pace sociale.

Il primo approccio é stato quello di contestare l’ipotesi che attraverso la diminuzione dell’orario di lavoro possa partire una politica per l’occupazione. Paradossalmente, ma neanche tanto, la tesi sindacale è assolutamente simile a quella della Confindustria sia per enfasi che per contenuti. Secondo Cofferati e compagni sarebbe un errore praticare l’equazione minore orario più lavoro. L’occupazione passerebbe soltanto attraverso la ripresa degli investimenti produttivi. Solo l’allargamento della base produttiva sarebbe una garanzia per una seria ripresa economica e di una fattibile politica occupazionale, ogni altra soluzione sarebbe un palliativo e come tale insoddisfacente se non addirittura negativa.

Il ragionamento dimentica due aspetti fondamentali. Il primo é che il capitalismo attuale stretto nella morsa di un saggio del profitto tendenzialmente sempre più basso e di una concorrenza internazionale sempre più aspra, ha come unica via diusitata espansione economica ad alto contenuto tecnologico senza nuova occupazione o con un incremento della occupazione nettamente inferiore ai cicli economici precedenti. Il secondo riguarda il tipo di occupazione. Qualora venissero creati nuovi posti di lavoro, numericamente insufficienti a risolvere il problema della disoccupazione, sarebbero all’insegna della precarietà e di bassi salari, una sorta di occupazione temporanea legata al ciclo produttivo dell’impresa e non di lunga durate e tantomemo garantiti da contratti a tempo indeterminato. Anzi avviene esattamente il contrario. Il capitalismo giovandosi del solito senso di responsabilità dei Sindacati sta contrabbandando la presunta politica occupazionale con il lavoro interinale. Un lavoro usa e getta, temporaneo legato da "contratti" a termine secondo le necessità mensili, settimanali o addirittura giornaliere dell’impresa, senza nessuna difesa degli interessi dei lavoratori se non quella di avere la "fortuna" di poter entrare per qualche periodo all’interno dei meccanismi produttivi. Ma la questione sulla quale i Sindacati hanno puntato i piedi riguarda l’aspetto della concertazione. I Sindacati che per decenni hanno violato persino le più evidenti norme della democrazia formale, firmando il firmabile senza alcuna assemblea che ratificasse le loro decisioni, improvvisamente si scoprono democratici.

La causa di tale rigurgito di democrazia non sta tanto nel fatto che la proposta di legge sulle 35 ore sia passata sulla loro testa senza nemmeno uno straccio di consultazione, ma che preveda la sua applicazione per legge e non attraverso la concertazione tra le parti. La rabbia del sindacalismo di fine secolo non sta tanto nel non essere stato lui il promotore di una simile rivendicazione (e quando mai), o sul contenuto della legge, dove peraltro si é dichiarato contrario sin dall’inizio, quanto perché viene meno la concertazione e con essa il suo ruolo istituzionale. Un Sindacato che consentisse al Governo e alle forze politiche, a maggior ragione di sinistra riformista, di proporre e realizzare leggi che riguardano il mondo del lavoro andrebbe incontro al suo suicidio. Persasi ormai nella notte dei tempi la funzione di difensore degli interessi immediati dei lavoratori, trasformatosi in quinta colonna degli interessi del capitale in seno al proletariato, se gli venisse tolta la funzione di formale controparte nella ratifica del contratti collettivi ( già pesantemente messa in crisi dai contratti settoriale e di area) e delle grandi questioni relative al mondo del lavoro, verrebbe messa in discussione non solo la sua funzione di mediatore tra capitale e forza lavoro, ma le ragioni stesse della sua esistenza. Preceduto e battuto su quello che avrebbe dovuto essere il suo terreno non ha potuto fare a meno di rivendicare il suo spazio vitale e di "segnare" il territorio. La concertazione non si tocca. Attaccate pure la forza lavoro sui contratti, sui salari e sulla mobilità. Inventate il lavoro interinale, i contratti di area. Fate pure pagare alla classe lavoratrice tutte le finanziarie possibili e li ritroverete dalla parte del capitale e delle sue sempre più stringenti compatibilità ma non toccategli la facoltà di continuare ad essere un pilastro della società borghese attraverso il ruolo di concertatore. In questo caso non sono in ballo gli interessi della classe lavoratrice ma quelli del sindacalismo e della sua dirigenza. Quindi no alle 35 ore ma no soprattutto a emissioni di leggi sul lavoro che non prevedano il ruolo contrattuale del Sindacato. Non a caso Cofferati, D’Antoni e Larizza si sono affrettati, nel bel mezzo della polemica sulle 35 ore, a firmare un accordo con la Confindustria che porta da 48 a 40 ore l’orario massimo di lavoro settimanale.

La manfrima é oltremodo vergognosa. Con una simile manovra la Confindustria mostra di aver concesso già molto sul piano della riduzione d’orario e di non essere quindi più disponibile per ulteriori ribassi, pena la crisi dell’intero sistema economico. I Sindacati vogliono dimostrare di essere propositivi sul tema, ma tenendo conto delle solite compatibilità, e contemporaneamente di riproporsi quale unica controparte credibile e responsabile sul terreno della contrattazione. Nei fatti siamo in presenza di una vergognosa concertazione tra capitale e sindacati sulla pelle dei lavoratori fatta oltretutto passare come l’unica vittoria possibile e praticabile. Le cose non solo sono rimaste come prima ma sono peggiorate. Da almeno due decenni, in deroga ad una legge che disciplinava il tetto massimo di ore lavorative settimanali a 48, legge fascista del "23", tutti i contratti collettivi prevedevano già il tetto massimo a 40 con la possibilità di straordinari che dovevano essere contratti tra le parti. Con l’attuale accordo non si modifica di una virgola lo stato attuale delle cose ma si ha l’aggravante degli straordinari obbligatori, qualora lo decida l’impresa per un massimo di 250 ore annuali. Fatti i calcoli, dividendo 250 per gli undici mesi lavorativi si arriva ad una settimana di 45-46 ore esattamente come adesso. In più nell’accordo dice che nei casi eccezionali, di volta in volta concordati tra le parti, si possa anche andare oltre, sino a sfiorare le 50 ore settimanali. E i Sindacati dovrebbero essere la terza componente della Commissione tripartita a cui é delegato il compito di verificare se la legge delle 35 ore settimanali é compatibile con l’attuale regime economico. Auguri!

Arrivando al dunque, dove Rifondazione ha giocato sporco sulla riduzione dell’orario? Non certo sulla giusta richiesta di accorciare i tempi di lavoro in un sistema economico che corre sulla strada dell’incremento produttivo e quindi sull’abbattimento dei tempi sociali di produzione. La trappola scatta nel momento in cui Bertinotti ha giocato la partita per una questione di immagine politica, di lotta interna al campo della sinistra riformista, senza chiedere garanzie sugli straordinari e ben sapendo che la Commissione tripartita non potrà che ostacolare l’entrata in vigore della legge, o di renderla il più possibile innocua qualora percorresse il suo cammino formale. Non si può cantare vittoria quando si va a firmare un accordo sulla diminuzione dell’orario di lavoro la cui applicazione viene demandata a una Commissione composta da tre componenti determinatamente ostili. D’altra parte Rifondazione cantava vittoria anche quando ha firmato i contratti d’area che prevedono contratti a termine con salari inferiori sino al 60% facendoli passare come un piccolo passo in avanti verso l’occupazione giovanile in Meridione. Ha accettato, anche se con riserva, il varo della legge sul lavoro interinale, una sorta di caporalato industriale, nella dichiarata speranza che servisse a far emergere il lavoro nero. Ha cantato vittoria quando il Governo Prodi si é insediato al comando della politica italiana con il dichiarato obiettivo di entrare nei parametri di Maastricht massacrando di finanziarie il mondo del lavoro e togliendogli progressivamente le pensioni e la sanità. Con una sola giustificazione: meglio il Governo Prodi che la destra al potere, dimenticandosi che quel Governo di sinistra, voluto dai poteri forti, doveva fare il "lavoro sporco" che la destra non sarebbe riuscita a fare, non per incapacità o per mancanza di obiettivi ma per il semplice motivo che nell’esercizio delle sue funzioni, le stesse che sta svolgendo il Governo Prodi, avrebbe riempito le piazze di una furente opposizione.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.