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Home ›Kosovo: altra puntata della guerra umanitaria
Si addensano nuove pesanti nubi sul martoriato paese balcanico
A chiusura dei lavori del World Economic Forum a Davos il Time ha avuto modo di definire la Cina “la meraviglia economica del mondo” ponendo in rilievo come “il rallentamento dell’economia USA sia attualmente compensato dai tassi di crescita cinesi che, anche nel 2006, si sono attestati sopra il 10%”.
Un dato può esemplificare meglio la dinamica in corso: in vista delle Olimpiadi del 2008 la sola città di Pechino sta investendo nell’edilizia qualcosa come 160 milioni di dollari. Cina e Kosovo possono, a questo punto, sembrare un accostamento non pertinente, due mondi, due dimensioni molto distanti tra loro, solo apparentemente però, poiché se si fa riferimento al titolo di questa edizione del summit “The shifting power equation” ossia “l’equazione dello spostamento di potere” possiamo arguire, confortati dalle autorevoli opinioni di Henry Kissinger, Nial Ferguson e Thimothy Garton Ash, che la stessa equazione presenta molte incognite mentre l’unico dato certo è che la interconnessione tra declino americano e sviluppo cinese è vista come foriera di tensioni.
Il confronto interimperialistico a più voci porta con sé tutto questo e l’attuale iniziativa USA che ha modo di manifestarsi ad ampio spettro nei quattro angoli del pianeta, con dispiegamento di forze aereo-navali nel golfo Persico, nell’oceano Indiano, nel Mediterraneo è la comprova che nulla può sottrarsi al loro controllo e che taluni insuccessi in determinate zone geografiche (vedi America del sud) sono compensati da riposizionamenti in altre aree che rappresentano in particolar modo imprescindibili crocevia nel controllo/dominio delle fonti energetiche e che, come tali, acquisiscono una stringente plausibilità, si tratti della Somalia, dell’Iraq, della Nigeria, del Darfur, o del Kosovo.
Che il destino del paese kosovaro non si decida a Pristina o a Belgrado è persino un’ovvietà, suffragata, a più riprese, dalle schermaglie in seno al Gruppo di Contatto, organismo costituito da Germania, Russia, Francia, Italia, Inghilterra e Stati uniti, con il compito, molto aleatorio, di portare ad un tavolo Serbia e Kosovo per definire una volta per tutte lo status dell’enclave albanese. Ma qui hanno inizio i problemi in quanto, considerando carta straccia, com’è d’uso tra briganti, i trattati da essi stessi sottoscritti - la pace di Kumanovo del giugno 1999 che aveva posto fine alla guerra e la risoluzione 1244 votata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, in virtù della quale il Kosovo rimaneva non solo una provincia della Serbia ma, dopo un periodo di sei anni di amministrazione controllata, sarebbe dovuta tornare sotto il controllo di Belgrado - di fatto si enucleano tre opzioni, quella della UE, quella statunitense e quella russa, che cozzano oggettivamente tra di loro con conseguenze di non facile decifrazione.
Lo scempio è datato nel tempo e va riferito al gennaio 1992 quando la UE, in cerca di una politica estera comune, finì con l’appiattirsi su quella tedesca, ovvero sul riconoscimento, di fatto, delle secessioni slovena e croata. A queste seguì l’intervento americano, per interposta Nato, che seppe sfruttare le crisi di Bosnia e Kosovo per mettere piede nella penisola balcanica e portare, alla fin fine, la guerra in Europa, - non succedeva dal 1945 - una guerra giustificata per “proteggere” i profughi kosovari, una guerra che la comunità dei ladroni non aveva certo intrapreso per proteggere i profughi curdi della Turchia o quelli palestinesi, una guerra che per farsela piacere ebbero l’improntitudine di definirla “umanitaria”.
A cos’abbia portato quella guerra è tristemente noto: contropulizia etnica a danno di serbi, rom, ebrei con migliaia di morti e desaparecidos; monasteri e chiese ortodosse, di rilevante significato storico-culturale, rase al suolo, una catena di atrocità che ancor oggi continua sotto il controllo di una mafia organica al potere locale e sotto la supervisione, si fa per dire, di una remuneratissima burocrazia internazionale. È opinione degli storici che le guerre nei Balcani hanno avuto origine in Kosovo e che sempre lì sarebbero terminate. Ritenere tuttavia che ciò possa avverarsi in virtù dell’opera del mediatore ONU Martti Ahtisaari, che prevede di attribuire al Kosovo tutti i punti qualificanti di uno stato, è un po’ chiedere troppo alla sorte: come si fa, infatti, a prefigurare l’indipendenza della provincia kosovara, unilateralmente, imponendola alla Serbia in palese spregio dei trattati del 1999? Quale credibilità può ancora essere riconosciuta ad una pseudo-comunità internazionale che, a seconda delle convenienze, fa strame della “Carta dell’ONU”, la quale, in maniera assai esplicita, “non consente la revisione dei confini di un Paese internazionalmente riconosciuto”.
Nonostante una formulazione assai bizantina, attraverso la quale Pristina avrebbe la possibilità di entrare nelle istituzioni internazionali riservate però solo agli stati sovrani permanendo tuttavia la supervisione internazionale, la posizione del mediatore ONU riflette quella della UE, in particolar modo quella della Francia e della Germania, favorevole quindi ad una soluzione graduale, morbida che, sempre facendo salva l’indipendenza di Pristina, sarebbe funzionale ad un nuovo ruolo della UE nei Balcani: assumere una centralità alla stessa stregua di quanto avvenuto in Bosnia e ultimamente in Libano.
Una soluzione di tal genere mal si concilia, però, con quella radicale sostenuta dagli Stati uniti: un’indipendenza rapida e senza condizioni. Dietro questo iperdecisionismo un po’ sospetto si celano le motivazioni più che robuste che trovano una loro sintesi nella base militare di Camp Bondsteel: si tratta della più grande base USA dai tempi del Vietnam, situata nel cuore dell’Europa ed eretta in tempi record nel 1999 senza alcuna autorizzazione internazionale e con la licenza di restare in loco per 99 anni.
Com’è del tutto ovvio, la K- for funge da velo alla vera autorità, quella del governo americano, che, se ne è servito per la guerra in Iraq, quale base dei Black Hawk, nonchè per le efferatezze a ciclo continuo rappresentate dalle extraordinary renditions. Però Camp Bondsteel non esaurisce qui il suo compito in quanto c’è qualcosa che lo collega - potrebbe mancare? - al petrolio: si trova infatti sulla rotta della Transbalkan Oil Pipeline, oleodotto sponsorizzato dagli Stati uniti, che, passando per la Bulgaria, la Macedonia ed il Kosovo, terminando nel porto albanese di Vlore, porterebbe il greggio dall’Asia in Europa evitando accuratamente la Russia.
E qui subentra la terza opzione che vede i rapporti russo-americani segnati da una criticità che sembrava si fosse stemperata in una “convergenza d’interessi” in seguito ai fatti dell’11 settembre.
Washington non può certo tollerare le iniziative russe che mettono in discussione i suoi interessi. Le manovre militari russo-cinesi, le basi militari USA letteralmente cacciate dalle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai che riecheggia il vecchio Patto di Varsavia, la possibilità di costituire una OPEP (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) del gas ed un’alleanza militare col Venezuela e l’Iran e, nel caso del Kosovo, l’esplicito veto, unitamente alla Cina, verso ogni soluzione che penalizzi la Serbia, ma anche l’eventuale diritto a sostenere le secessioni delle regioni russofone della Transinistria in Moldova, dell’Abkhazia ma soprattutto dell’Ossezia del sud, nella Georgia, diventata, quest’ultima, vero avamposto USA nello scacchiere caucasico delle rotte energetiche.
Risulta quindi abbastanza chiaro come vadano sempre più riducendosi i margini per definire per via diplomatica contenziosi che devono essere risolti, a favore di quale imperialismo non si sa, contro l’umanità intera di sicuro.
ggBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2007
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