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Home ›La verità sulle elezioni nella "nuova Libia"
Le tanto attese elezioni libiche per l'assemblea costituente si sono concluse. In Europa come negli Usa la soddisfazione è unanime. Il dittatore è stato eliminato dalle forze di opposizione interne, la Libia ha creato le condizioni per il suo sviluppo democratico, le elezioni per l'Assemblea costituente si sono svolte correttamente in un clima di ritrovata serenità e le sue ricchezze, il petrolio su tutte, saranno finalmente appannaggio del popolo libico e non del suo vecchio tiranno.
Nei fatti le cose sono andate ben diversamente dal confezionato racconto dei media internazionali. Innanzitutto le elezioni sono state la inevitabile conclusione della guerra scatenata dalla Nato, Francia-Inghilterra e Usa che, dopo aver armato e legittimato il Governo transitorio, hanno creato le condizioni perchè la vertenza elettorale si indirizzasse verso strutture di governo e di rifondazione della costituzione che facilitassero le “entrature” petrolifere e un nuovo scenario politico a loro favorevole. Al riguardo va notato come lo sforzo dell'occidente abbia favorito Jibril, attuale presidente del governo provvisorio e fatto in modo di mettere ai margini le forze della fratellanza musulmana del Partito per la giustizia e lo sviluppo di Mohamed Sawan, con il trucco, suggerito dall'intelligence americana, di riservare ai partiti solo 80 seggi su 200, lasciando agli “indipendenti”, meno legati alle organizzazioni ufficiali dei jihadisti, dei salafiti e dalla Fratellanza, i restanti 120.
Sullo svolgimento delle tanto attese elezioni, poi, che si siano svolte in un clima di ritrovata serenità è una colossale bugia. Il giorno prima dell'apertura dei seggi a Tripoli si sono registrati 50 morti. Il CNT (consiglio nazionale transitorio) ha messo in campo tremila soldati a fianco dei quarantamila della Sicurezza. Nonostante questo enorme dispiegamento di forze, in Cirenaica decine di seggi sono stati dati alle fiamme. Molti camion che trasportavano le schede elettorali sono stati bloccati e distrutti con il loro contenuto elettorale. A Bengasi c'è stato un morto all'interno di un seggio e infiniti sono stati gli episodi di violenza, di brogli e di pressioni fisiche che gli osservatori Onu hanno sbrigativamente definito ininfluenti. Persino i dati dell'affluenza sembrano falsi. Alcuni osservatori indipendenti sostengono che il dato è ben inferiore al 60% dichiarato e qualcuno, forse esagerando, arriva a denunciare che solo il 10% degli aventi diritto si è recato alle urne, o per una scelta politica o per paura o, più semplicemente, perchè fisicamente impedito.
I cosiddetti ghedaffiani, ovvero gli elementi appartenenti alla frangia borghese sconfitta, hanno tentato di boicottare in tutti i modi le elezioni, uso della forza compresa. In Cirenaica dove si sono registrati i maggiori scontri e le più intense tensioni, le forze autonomistiche che vogliono gestire il “loro” petrolio, invocano una Libia federale come nel 1951 e, a nome del loro leader Hamed al Mussi dichiarano di considerare nulli i risultati delle elezioni farsa. A sud nel Fezzan e nella restante parte del deserto libico, altre forze autonomistiche con a capo Omar Mukhtar attentano ai pozzi petroliferi della zona. Non a caso durante la tornata elettorale il CNT ha chiuso i rubinetti di molti oleodotti riducendo di 300 mila barili al giorno la portata delle pipe lines che provengono dal sud. Sempre a sud le tribù tuareg, che hanno rappresentato l'ossatura delle forze speciali di Gheddafi, si sono rifugiate in Mali e da lì intendono ripartire per la conquista dei giacimenti della Libia meridionale.
La vera questione che si annoda all'episodio delle elezioni sta nella collocazione geo-politica della nuova Libia, nel suo petrolio, nella gestione dei pozzi, nel controllo della rete di oleodotti che da sud arrivano sulle sponde del Mediterraneo. Chi gioca all'interno dello sviluppo del quadro “democratico” è anche l’emiro del Qatar Hamid al Thani, che tramite le benemerenze dello sheikh Ali Sallabi e dell'ex comandante Hakim Belhadj, a suo tempo seguace di al Qaeda e poi comandante militare di Tripoli, organizza e mobilita l'ala islamista libica, non senza attriti con la struttura ufficiale dei Fratelli musulmani cirenaici che subiscono il condizionamento politico, oltre che economico, della Fratellanza egiziana. Sul fronte esterno, quello dell'imperialismo che ha voluto la caduta del vecchio regime, la nuova Libia “democratica” uscita da “libere” elezioni, deve garantire la redistribuzione delle concessioni petrolifere secondo la nuova mappa del potere.
Abdulsalem Jallud e il suo ex capo dei servizi Moussa Koussa sono tra le pedine più importanti. Jallud ex numero due del regime, leader politico della più importante confederazione tribale libica, la Magharia, è fuggito a Londra poche settimane prima della fine della guerra. Una volta ottenuta l'immunità dagli inglesi per una serie di crimini commessi, coltiva una fitta rete di rapporti politici tra la Libia e l'Europa e sarà tra i protagonisti per la definizione di nuovi equilibri nelle concessioni petrolifere libiche. Il secondo, Moussa Koussa, riparato in Arabia Saudita, è quello che mantiene buoni rapporti rapporti con l’Eni, con i sauditi stessi e con chi è disposto a pagare meglio l'intermediazione. Poi c'è l'enorme peso di Francia, Inghilterra e Stati Uniti sul governo di Jibrill, altro ex della vecchia amministrazione, per avere un posto in prima fila nella redistribuzione petrolifera a scapito, forse, dell'italiana Eni e della Lukoil russa. Il tutto deve poi fare i conti con le tensioni tribali interne, con le frange marginali di spezzoni di borghesia che vogliono almeno le briciole della rendita petrolifera, per non parlare delle forti istanze secessioniste della Cirenaica e del Fezzan.
Nel nuovo scenario “democratico” manca, e non poteva essere altrimenti, qualsiasi spazio alle necessità del mondo del lavoro. Per contadini, proletari, impiegati statali che sotto la dittatura di Gheddafi stavano male, d'ora in avanti staranno peggio. Il vecchio regime aveva stabilito una sorta di equilibrio capitalistico interno e internazionale sulla base di accordi e alleanze che il nuovo regime va rimescolando. Petrolio, rendita petrolifera, ruolo della “nuova Libia” sullo scacchiere nord africano. Rifornimenti privilegiati a Francia e via la presenza russa. La Nato che riprenderà a pattugliare il Golfo della Sirte. La Russia sempre più fuori dai giochi medio-orientali, tant'è che non molla un centimetro sulla carneficina della guerra civile siriana. Nel dopo elezioni in Libia c'è di tutto, sia sul fronte interno che su quello internazionale, ma nulla che riguardi gli interessi del proletariato. D'altra parte se in mancanza della costruzione di una prospettiva di classe, in chiave rivoluzionaria e internazionalista almeno nell'area che ha visto esprimersi la “primavera araba”, le leggi delle componenti tribali (frange borghesi in lotta per lo sfruttamento dei pozzi, per il controllo degli oleodotti e per la gestione delle fonti idriche) e quelle ben più pesanti dell'imperialismo occidentale, sono destinate ad imporre la loro legge. Ovvero guerra, rendita petrolifera, profitti da ricostruzione e controllo strategico dell'area. Questo è quanto l'imperialismo è in grado di proporre nella questione libica. E nello scenario della crisi generale, senza nemmeno un accenno di ripresa di lotta di classe nelle aree a capitalismo avanzato, la musica cambia di poco: speculazione, intensificazione dello sfruttamento, tasse e tagli alla spesa pubblica, disoccupazione a due cifre, povertà a livelli allarmati e in prospettiva il baratro della disperazione sociale che sembra non avere mai fine. Senza mai dimenticare lo spettro della guerra che rimane l'ultima spiaggia per la soluzione dei problemi della crisi internazionale.
FDBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #08-09
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