La crisi permanente

Introduzione

Sul n. 5 di Communist Review (l'organo centrale del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario di cui siamo tra i fondatori insieme alla CWO britannica) abbiamo pubblicato l'articolo di Paul Mattick che qui traduciamo.

Esso apparve per la prima volta nel numero del novembre 1934 del giornale International Council Correspondance, pubblicato dall'omonimo gruppo guidato dallo stesso Mattick.

Autore e relativo gruppo sono fra i maggiori esponenti della corrente consiliarista uscita dall'esperienza della Sinistra Tedesca e Olandese.

Lo abbiamo ripubblicato sulla rivista del BIPR perché lo riteniamo un utile contributo alla critica dell'economia politica della fase imperialista a prescindere dai limiti dell'articolo stesso (è riferito alla crisi apertasi nel '29 ed anche di questa non è evidentemente esaustivo).

La sua pubblicazione su CR5 era soprattutto un contributo al chiarimento in atto a scala internazionale (e in particolare fra i compagni indiani), sul rapporto fra analisi economica e prospettiva politica, o piattaforma politica.

Esso infatti dimostra che, al di là delle linee politiche sostanzialmente divergenti fra la nostra corrente e quella consiliarista, la critica dell'economia politica - se tale - è la medesima; e che, di conseguenza, non è vero che ad una data analisi del fenomeno crisi debba necessariamente corrispondere una data prospettiva del movimento comunista.

Il bandolo della matassa, come sempre, sta nel metodo di approccio dei problemi, tanto di natura economica, quanto di natura politica.

Mattick aveva ragione sul piano economico e sbagliava sul terreno della teoria politica. La CCI nega a parole il conciliarismo, prendendone per validi i motivi deteriori dell'analisi economica: proprio quelli contestati da Mattick.

Noi ripubblichiamo questo articolo quale valido complemento a questa edizione di Prometeo.

La crisi permanente

Secondo Marx, lo sviluppo delle forze produttive della società è la forza motrice dello sviluppo storico. Con l'acquisizione di nuove forze produttive gli uomini cambiano il loro modo di produrre e cambiando il loro modo di produrre, il loro modo di guadagnarsi da vivere, essi modificano tutte le loro relazioni sociali. La trasformazione del filatoio, del telaio a mano e della mazza del fabbro nel filatoio automatico, nel telaio meccanico e nel maglio a vapore non fu accompagnata solo da un cambiamento della piccola bottega individuale degli artigiani in enormi impianti industriali che impiegavano migliaia di lavoratori ma si tradusse anche nel capovolgimento sociale che segnò il passaggio dal feudalesimo al capitalismo: non fu cioè semplicemente una rivoluzione materiale ma anche culturale.

Il capitalismo, come sistema economico, ha avuto il compito storico di sviluppare le forze produttive della società ad una estensione molto più grande di quella che era possibile raggiungere nei precedenti sistemi economici. La forza motrice dello sviluppo delle forze produttive nel capitalismo è la corsa al profitto. Ma proprio per questa ragione, questo processo di sviluppo può continuare solo fino a quando esso dà profitti. Il capitale diviene un ostacolo alla continuazione dello sviluppo delle forze produttive non appena questo sviluppo entra in conflitto con la possibilità di realizzare il profitto.

Allora il monopolio del capitale diviene per il modo di produzione una catena che sorge e si sviluppa con esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro alla fine raggiungono un punto in cui essi diventano incompatibili con il loro involucro capitalista.

Marx considera sempre le leggi economiche del movimento della società da due punti di vista: come un "processo di storia naturale" e come specifica forma sociale che questo stesso processo assume. Lo sviluppo delle forze produttive, consistente in un sempre più grande incremento della produttività del lavoro dovuto a migliori strumenti e metodi lavorativi, è continuato in ogni sistema sociale. Nel sistema capitalistico il processo produttivo, oltre a produrre tutto ciò che serve alla vita, produce anche valore e plusvalore ed è dovuto solo a quest'ultimo fatto che il capitalismo è stato capace di accelerare così poderosamente lo sviluppo delle forze produttive. Per il capitalismo, queste non sono solo macchine, materie prime e forza-lavoro ma anche capitale. Lo sviluppo dei mezzi di produzione significa l'espansione della produzione e della riproduzione del capitale; questo avviene solo quando il plusvalore (il profitto) è il risultato del processo produttivo. Per mezzo dell'analisi del processo di produzione del plusvalore, Marx individua la tendenza ad un conflitto tra le forze produttive materiali e il loro involucro capitalistico. Quando dalla produzione risulta un plusvalore insufficiente, il capitale non può essere "utilizzato" e non c'è la possibilità di continuare lo sviluppo delle forze produttive. La forma sociale capitalistica deve esplodere per fare strada a un più alto e avanzato sistema economico e sociale.

Nel sistema capitalistico il lavoro salariato è necessario per la produzione del plusvalore. Comprando forza-lavoro, il capitalista acquista il diritto ad usarla per i propri vantaggi. Con il suo lavoro l'operaio è capace di produrre un valore più grande di quello che egli consuma; in altri termini egli produce più valore di quello che il capitalista gli paga sotto forma di salario. Dato che il capitalista compra la forza-lavoro al suo valore di scambio e dato che egli ha il pieno controllo del suo valore d'uso, il risultato è la creazione del plusvalore: egli ne prende una parte come capitale aggiuntivo, per l'accumulazione, e con l'altra paga l'interesse al banchiere e la rendita al proprietario terriero e permette al commerciante di realizzare il suo profitto; il resto lo conserva per il proprio consumo.

Tutte le merci hanno in comune la qualità di essere prodotte dal lavoro e di essere misurate e scambiate in proporzione al tempo di lavoro socialmente necessario per produrle; tutto ciò riguarda anche la merce forza-lavoro. Lo sviluppo delle forze produttive significa incremento della produttività del lavoro e incremento della produttività significa meno lavoro incorporato in ogni merce ovvero che in ognuna di esse ci sia meno valore e conseguentemente minore plusvalore. La diminuzione del valore di una singola merce può solo essere compensata dall'incremento della quantità delle merci prodotte, il che significa un aumento dello sfruttamento del lavoro. Ciò si realizza in due modi: aumentando la lunghezza della giornata lavorativa (plusvalore assoluto) oppure diminuendo il tempo di lavoro necessario per riprodurre il salario dell'operaio (plusvalore relativo). Se l'allungamento della giornata lavorativa è impossibile allora rimane solo la diminuzione del tempo di lavoro necessario che può essere realizzata soltanto riducendo il valore della forza-lavoro. La diminuzione del valore delle merci è il solo mezzo per la riduzione del valore della forza-lavoro ma questa, a sua volta, può solo essere il risultato di un incremento di produttività. Allo stesso tempo questo processo è una forza acceleratrice dello sviluppo tecnico ad un ritmo sempre crescente verso la produzione di massa e di macchinari giganteschi e costosi, concentrati in enormi impianti industriali che eliminano i piccoli capitalisti individuali a favore dei grandi capitalisti e delle loro società per azioni.

Dato che la forza-lavoro è la fonte del profitto, il capitalista sarebbe interessato allo sfruttamento del maggior numero di lavoratori. Con un maggior numero di lavoratori, egli avrebbe più plusvalore e più profitti. Nonostante questo, è un fatto che dall'inizio dell'epoca capitalista il numero dei lavoratori relativi al capitale impiegato sia andato diminuendo. Anche se il loro numero è aumentato in assoluto per un certo periodo di tempo, essi sono aumentati più lentamente del capitale accumulato. Oggi il numero dei lavoratori occupati è diminuito non solo relativamente ma anche in senso assoluto. (Dal 1918 il numero di quelli occupati nell'industria americana è in continua diminuzione sebbene la produzione aumenti fino al 1925). L'incremento della produttività coniugato al processo di concentrazione del capitale si traduce perciò in una massa costantemente crescente di merci prodotte da sempre meno operai: produzione crescente e crescente disoccupazione. Questo fatto, di fronte alla pressante necessità di uno sfruttamento più esteso, indica il limite della produzione capitalistica. Più lo sfruttamento si intensifica, più questi limiti sono raggiunti.

Le stesse circostanze che hanno aumentato la capacità produttiva del lavoro, accresciuto la massa di merci prodotte, espanso il mercato, accelerato l'accumulazione del capitale, per quanto concerne sia la sua grandezza, sia il suo valore, e abbassato il saggio del profitto, queste stesse circostanze hanno anche creato, e continuano a crearla in ogni momento, una sovrappopolazione relativa di lavoratori, una sovrappopolazione di lavoratori che non è impiegata dal surplus di capitale a causa del basso grado di sfruttamento al quale essi potrebbero essere impiegati o almeno a causa del basso saggio del profitto al quale essi potrebbero rendere con il saggio dello sfruttamento dato.

Secondo Marx, la legge del valore è la regolatrice della produzione delle merci e determina in quale proporzione il lavoro della società è distribuito ma questo è valido solo per la società nel suo insieme, non per i singoli capitali individuali. In realtà la legge del valore è rafforzata solo dalla concorrenza delle singole imprese; l'effettivo scambio di merci non ha luogo secondo il loro valore ma secondo il prezzo di produzione. Se un capitalista vende al di sopra del valore, un altro vende al di sotto di esso. La concorrenza, che si è ora risolta nell'affermarsi di un saggio medio del profitto, ha anche istituito la legge del valore come la legge finale e generale che sta alla base della somma totale delle transazioni individuali ai prezzi di produzione dati.

Senza tutto questo, il saggio del profitto differirebbe da un ramo della produzione all'altro in conformità con il saggio del plusvalore, il periodo di rotazione del capitale e la composizione organica del capitale. Più grande è il saggio del plusvalore, più alto è il saggio di profitto. (Il saggio del plusvalore o saggio dello sfruttamento è il plusvalore diviso il capitale investito in salari cioè diviso il capitale variabile. Il saggio del profitto è il plusvalore diviso il capitale totale che include il capitale costante, cioè i mezzi di produzione, e il capitale variabile). Più veloce è la rotazione del capitale, cioè più velocemente il capitalista riceve indietro il capitale investito più il plusvalore, più alto è il saggio del profitto e viceversa. Il rapporto tra i mezzi di produzione e la forza-lavoro, espresso nella forma del valore come capitale costante e capitale variabile, la chiamiamo composizione organica del capitale. Più alta è la composizione organica del capitale, più basso è il saggio del profitto. Dal momento che, con l'alzarsi della composizione organica, cade sia il saggio del profitto dei singoli capitali, sia il saggio medio del profitto, i piccoli capitali sarebbero annientati se non fossero in grado di incrementare la loro grandezza sufficientemente. L'esistenza del capitalista dipende da un continuo incremento del suo capitale per mezzo dell'abbassamento dei costi di produzione sotto il normale. Egli si sforza di guadagnare un extra-profitto producendo e vendendo i suoi prodotti sopra il loro valore, ma sotto il loro valore sociale. Ogni capitalista, per necessità, ha lo stesso desiderio: che tutto venga accumulato. Se egli blocca il reinvestimento di una parte del suo plusvalore nella sua impresa, se la configurazione tecnica di essa arretra rispetto al livello generale dello sviluppo delle forze produttive, egli corre il rischio di una svalutazione del suo capitale. Questo fatto si traduce in un nuovo aumento della composizione organica del capitale e in una ulteriore diminuzione del saggio del profitto e in tal modo esso accelera il ritmo di sviluppo stimolando la ricerca di extraprofitto.

Per il capitalista, opporsi significherebbe il suicidio economico.

Per capire l'azione della legge del valore e dell'accumulazione noi dobbiamo, per prima cosa, trascurare questi movimenti individuali ed esterni e considerare l'accumulazione dal punto di vista del capitale totale dato che il valore del capitale sociale totale e il totale dei prezzi sono identici.

Il più importante fattore in questa indagine è la composizione del capitale e i cambiamenti a cui essa sottostà durante il processo di accumulazione.

Nel modo di produzione capitalistico, e solo in questo, lo sviluppo delle forze produttive non si manifesta solamente come una crescita dei mezzi di produzione finalizzata ad ottenere maggiori risultati con meno lavoro (come avviene in tutti i sistemi produttivi) ma come un aumento nella composizione organica del capitale cioè con un maggiore capitale costante, con un minore capitale variabile e con una conseguente caduta del saggio del profitto.

Pertanto, una caduta del saggio del profitto e una accelerazione dell'accumulazione sono solo differenti espressioni dello stesso processo dato che entrambe indicano lo sviluppo delle forze produttive. A sua volta, l'accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto nella misura in cui essa implica la concentrazione del lavoro su larga scala e, di conseguenza, una più alta composizione organica del capitale.

Nello stesso tempo, la caduta del saggio del profitto è accompagnata dall'aumento della massa totale del profitto fino al momento in cui il capitale si accumula più velocemente di quanto cada il saggio del profitto. Di conseguenza la caduta del saggio del profitto e la crescita della massa dei profitti sono causate entrambe dall'accumulazione capitalistica. Nello stesso tempo la caduta del saggio del profitto agisce come un indicatore della relativa caduta della massa del profitto. Quando l'accumulazione del capitale raggiunge un certo punto, la massa del profitto cade non solo relativamente al capitale totale investito ma anche in senso assoluto: un capitale sociale più ampio realizzerà in assoluto un profitto più piccolo. Ma questo punto appare solo alla fine di un certo periodo dell'accumulazione. Fino a quel punto...

lo stesso sviluppo della produttività sociale del lavoro si esprime nel corso dello sviluppo capitalistico da una parte con una tendenza ad una progressiva caduta del saggio del profitto, dall'altra con un progressivo aumento della massa assoluta del plusvalore o del profitto estorto; così, nel suo complesso, una relativa diminuzione del capitale variabile e del profitto è accompagnata da un aumento assoluto di entrambi.

Nel modo di produzione capitalistico, questa è la manifestazione caratteristica del progressivo sviluppo della forza produttiva del lavoro.

Accumulazione e crisi

La caduta del saggio del profitto getta l'economia borghese nello squilibrio. Per Marx:

ad un certo punto, la caduta del saggio del profitto si trasforma in un antagonismo di questo modo di produzione ed esige, perché si arresti, delle crisi periodiche.

L'accumulazione e una composizione organica del capitale più alta sono cose che coincidono. Insieme ad esse si determina la caduta del saggio del profitto. Con una composizione organica del capitale di 1 a 1, diciamo 30 di capitale costante e 30 di capitale variabile, e un saggio dello sfruttamento del 100%, il saggio del profitto sarà del 50%. Con una composizione organica di 5 a 1, diciamo 250 di capitale costante e 50 di capitale variabile, e lo stesso saggio dello sfruttamento, il saggio del profitto sarà del 16,6%. (Come abbiamo asserito prima, il saggio dello sfruttamento (qui del 100%) è determinato dalla proporzione tra il tempo di lavoro necessario e il plusvalore . Ma il saggio del profitto è il plusvalore diviso il capitale totale, cioè capitale costante più capitale variabile). Nell'esempio precedente è stato aumentato sia il capitale variabile, sia il capitale costante. Non solo è stata allargata la scala della produzione ma anche il numero dei lavoratori sfruttati. Noi abbiamo iniziato con una bassa composizione organica (1 a 1) ed abbiamo finito con una alta (5 a 1). Questa variazione è insieme causa ed effetto dell'incremento della produttività del lavoro che si deve anche esprimere in un incremento del saggio del plusvalore. Noi abbiamo considerato un saggio del plusvalore del 100% ma l'incremento della produttività accorcia il tempo di lavoro necessario ed aumenta il saggio del plusvalore il quale contrasta, a sua volta, la caduta del saggio del profitto. Se il saggio del plusvalore venisse incrementato dal 100% al 300%, allora anche una composizione organica del capitale alta (di 5 a 1) produrrebbe lo stesso saggio del profitto, cioè del 50%, allo stesso modo di una bassa composizione organica (di 1 a 1) con un saggio del plusvalore del 100%. Oltre che per l'aumento della produttività del lavoro, il saggio del plusvalore può anche aumentare per altre cause e, di conseguenza, esso può compensare l'aumento della composizione organica del capitale. Più avanti analizzeremo tutto questo ma il fatto è che, in qualsiasi modo si realizzi l'aumento del saggio del plusvalore, la caduta del saggio del profitto è accompagnata da una crescita della massa totale del profitto che contrasta il pericolo insito nella caduta del saggio stesso. A sua volta, questa crescita del capitale implica un'ulteriore caduta del saggio del profitto. Così la caduta del saggio del profitto produce ulteriori tentativi per innalzare il plusvalore.

Dato che all'inizio la caduta del saggio del profitto è accompagnata da un aumento della massa totale del profitto, è difficile capire come il collasso del capitalismo derivi dal decadimento del saggio del profitto e quale sia la relazione tra le crisi periodiche e la caduta del saggio stesso. Si è sempre tentato di dare una spiegazione a questa connessione ma tutti questi tentativi sono falliti dato che, ogni volta, la spiegazione era limitata e basata solo sull'indagine della caduta del saggio del profitto. Henryk Grossman fu il primo ad indicare che la crisi e il collasso finale devono essere spiegati non solo dalla caduta del saggio del profitto, dal puro e semplice indice del profitto, ma dall'effettiva massa del profitto che sta alla sua base. Secondo Marx, l'accumulazione capitalistica non è solo determinata dal saggio del profitto ma anche dalla massa del profitto. In altre parole, il plusvalore può aumentare in senso assoluto e, tuttavia, essere insufficiente per i bisogni dell'accumulazione poiché l'aumento della composizione organica del capitale ingoia costantemente una parte sempre più grande del plusvalore.

L'accumulazione del capitale ha avviato una serie di grandi boom economici interrotti da crisi periodiche. Come è cresciuto il tasso dell'accumulazione, così è cresciuta l'intensità delle crisi. Il processo di riproduzione capitalistico si ripete non nella forma di un cerchio, ma come una spirale che si restringe in un punto. La produzione di valore deve, a causa delle sue contraddizioni interne, condurre alla sua stessa negazione: solo l'accumulazione di queste contraddizioni può trasformarle in qualcosa di qualitativamente differente, cioè nella rivoluzione. Le stesse leggi che all'inizio avevano costituito il motivo del rapido sviluppo del capitalismo, ora diventano le forze che Io sospingono al crollo. Ma questo crollo non si sviluppa regolarmente in una linea discensiva diretta. Esso è costantemente interrotto allo stesso modo con il quale la realtà capitalistica modifica l'astratta e generale legge dell'accumulazione. Marx non ha elaborato una speciale teoria della crisi ma la sua analisi delle leggi della riproduzione capitalistica o dell'accumulazione, è stata anche questo. Illustriamo la legge della riproduzione capitalistica con una tabella riassuntiva (vedi tab. 1).

Affinché l'accumulazione sia possibile, il plusvalore deve essere diviso in tre parti: una deve essere investita in capitale costante addizionale, l'altra in capitale variabile addizionale e la rimanenza deve essere consumata dagli individui della classe capitalista. Durante il periodo della nascita del capitalismo, il capitale variabile cresce insieme al capitale costante anche se più lentamente.

Nella tabella che segue, noi cominciamo con una composizione organica del capitale di 2 a 1. Il capitale costante (C) cresce annualmente con una percentuale del 10% e il capitale variabile (V) cresce con una percentuale del 5%. Il saggio del plusvalore rimane fermo al 100% . (Il fondo di consumo dei capitalisti lo chiamiamo R. AC e AV sono rispettivamente i surplus di capitale costante e di capitale variabile impiegabili per l'accumulazione. Il valore prodotto annualmente lo chiamiamo VYP, la percentuale del plusvalore consumato dai capitalisti R% , il tasso dell'accumulazione A% e il saggio del profitto P%).

In questa tabella, noi vediamo come l'accumulazione aumenti nonostante la caduta del saggio del profitto. L'accumulazione paga per i capitalisti poiché mentre i loro utili diminuiscono rispetto al plusvalore complessivo, essi aumentano in assoluto. Durante il primo anno il capitalista dispone di 75.000 come reddito (R); durante il quarto anno egli ne dispone di 83.374.

Questa tabella è una finzione che in nessun modo deve essere scambiata con la realtà. Una composizione organica del capitale progressivamente più alta accompagnata da un saggio dello sfruttamento costante è una impossibilità, anzi un'assurdità. La tabella ha il solo scopo di illustrare la tendenza dell'accumulazione senza alcuna complicazione ed alcuna influenza disturbatrice. Anche con un saggio del plusvalore costante, l'accumulazione può realizzarsi. In ogni modo, essa si realizzerebbe molto più velocemente con un saggio dello sfruttamento aumentato.

Questa tabella rappresenta anche l'accumulazione solo nella sua forma di valore che non viene espressa nelle quantità dei valori d'uso; il farlo comporterebbe molte modifiche. La svalutazione del capitale, connessa necessariamente all'accumulazione, è stata omessa.

Anno C V R AC AV VYP R% A% P%
1 200.000 100.000 75.000 20.000 5.000 400.000 75 25 33,3
2 220.000 105.000 77.750 22.000 5.250 430.000 74,05 25,95 32,06
3 242.000 110.250 80.539 24.200 5.511 462.500 73,04 26,96 31,3
4 266.200 115.762 83.374 26.600 5.788 497.524 72,02 27,93 30,3
Tabella 1

.

Anno C V R AC AV VYP R% A% P%
5 292.820 121.550 86.191 29.282 6.077 535.921 70,93 29,07 29,3
6 322.102 127.627 89.036 32.210 6.381 577.358 69,70 30,30 28,4
10 471.589 155.132 100.217 47.158 7.756 781.855 64,6 35,4 24,7
20 1.233.181 252.695 117.742 122.318 12.634 1.728.571 46,59 53,4 17,12
21 1.345.499 265.329 117.513 134.549 13.266 1.876.159 44,28 55,71 16,47
25 1.969.946 322.509 109.389 196.994 16.125 2.614.966 33,9 66,08 14,06
30 3.172.618 411.613 73.771 317.261 20.580 3.995.845 17,9 82,07 11,5
34 4.645.030 500.318 10.799 464.503 25.015 5.645.668 2,15 97,84 9,7
35 5.109.533 525.334 0 510.953 14.381 6.160.203 0 100 9,3
Tabella 2 (da 5 a 35 anni)

Se noi, come Grossman, estendiamo questa tabella al trentacinquesimo anno, siamo in grado di mostrare, se non l'accumulazione capitalistica reale, almeno la sua "legge interna". Per giungere ad una rappresentazione effettiva della realtà capitalistica, noi dovremmo basarci sulla legge interna dell'accumulazione e, in aggiunta, prendere in esame gli elementi non considerati nella tabella esposta. Deve comunque essere tenuto presente che gli elementi non considerati nella tabella determinano solo il tempo del processo di accumulazione. Seguiamo la tabella.

Questa tabella mostra che le stesse forze che hanno reso possibile lo sviluppo del capitalismo, ad una certa fase dell'accumulazione, conducono alla sovrapproduzione e alle sue conseguenze. Il capitale costante che nel primo anno (tabella 1) era il 50% della produzione annuale, diviene dell'82,9% nel trentacinquesimo anno (tabella 2). Il reddito (R) che fino al ventesimo anno aumenta solo relativamente alla massa totale del plusvalore, da quel momento decresce in senso assoluto. Nel trentacinquesimo anno, esso scompare completamente. È solo dopo il ventesimo anno che la caduta del saggio del profitto inizia a manifestarsi come una caduta assoluta in quella parte della massa del profitto che la classe dei capitalisti ha a sua disposizione per i propri consumi privati. Fino al ventesimo anno l'accumulazione è stata un affare remunerativo quantificato da un profitto. Dal ventunesimo anno questo profitto si assottiglia fino al punto da volatilizzarsi. Inoltre, dall'assunzione fatta di un capitale variabile che si incrementa ogni anno del 5%, risulta che AV ha un deficit. Nel trentacinquesimo anno, invece del capitale richiesto di 26.666, è disponibile per AV solo un capitale di 14.381, con un deficit quindi di 11.885. Questo deficit rappresenterebbe, come inevitabile risultato del processo di accumulazione capitalistico, l'esercito industriale di riserva. Il capitale accumulato nei trentacinque anni non può operare completamente. Siccome i lavoratori corrispondenti a 11.885 di capitale variabile non possono essere occupati, l'intero capitale costante addizionale (AC = 510.953) non può essere reinvestito. Sulla base della nostra ipotesi, una popolazione corrispondente a V = 551.601 richiederebbe, nel trentaseiesimo anno, un capitale costante di 5.620.487; conseguentemente, per una popolazione corrispondente a 539.716 di V, potrebbe essere investito un capitale costante di 5.499.385. C'è un surplus di capitale di 121.101 che non può essere impiegato. Una insufficiente “utilizzazione” del capitale ha condotto a una sovraccumulazione. Abbiamo un surplus di capitale incapace di espandersi e un surplus di popolazione non impiegabile. (Una ricerca empirica, ad esempio quella di W.C. Michel condotta negli USA, ha mostrato che, durante il periodo di espansione economica, il profitto è in aumento ininterrotto fino al momento in cui una crisi viene preceduta da una sua diminuzione). Così l'aumento dell’“utilizzazione” del capitale è la causa principale dell'accumulazione capitalistica e la mancanza di una sufficiente “utilizzazione” del capitale è la causa della crisi.

La formulazione della teoria della sovraccumulazione qui presentata, è stata presa in esame per la prima volta da Henryk Grossman che considera il suo lavoro come una ricostruzione della teoria di Marx dell'accumulazione la quale, a sua volta, è la teoria della crisi e del crollo del capitalismo. Secondo Grossman, se l'accumulazione deve realizzarsi, la composizione organica del capitale deve aumentare ed allora il capitale costante addizionale (AC) deve avere come obiettivo la realizzazione di una quantità relativamente sempre più grande di plusvalore. Con una bassa composizione organica, sino a quando la massa assoluta del capitale sociale è piccola, il plusvalore è relativamente grande e porta ad un rapido incremento dell'accumulazione. Ad esempio, con una composizione di 200 di C, di 100 di V e di 100 di S (plusvalore), il capitale costante (assumendo che il plusvalore totale possa essere usato per l'accumulazione) può essere aumento del 50% della sua quantità originaria. Ad un più alto livello dell'accumulazione del capitale, con una composizione organica considerevolmente più alta, ad esempio 14.900 di C, 100 di V e 150 di S, l'aumentata massa del plusvalore è solo sufficiente, quando viene usata come capitale addizionale (AC), per un incremento del capitale costante dell'1%.

Continuando l'accumulazione sulla base di una composizione organica del capitale sempre più alta, viene raggiunto un punto in cui tutta l'accumulazione cessa. Per l'espansione della produzione non può essere usata una frazione qualsiasi di capitale. È necessaria una proporzione minima definita che aumenta continuamente con la progressiva accumulazione del capitale. Di conseguenza, nello sviluppo dell'accumulazione una parte sempre più grande della massa del plusvalore, non solo in senso assoluto ma anche in senso relativo, deve essere usata per lo scopo dell'accumulazione.

Ad una fase più alta dell'accumulazione, quando il capitale sociale è di una grandezza enorme, la parte del plusvalore destinata al capitale costante addizionale (AC) deve diventare così grande che essa assorbe finalmente tutto il plusvalore. Si deve arrivare ad un punto in cui la parte del plusvalore da impiegare per i lavoratori addizionali e per il consumo dei capitalisti (AV ed R) deve diminuire in senso assoluto. Questo sarebbe il punto di svolta in cui la tendenza al collasso, precedentemente latente, inizia ad essere attiva. È ora evidente che le condizioni necessarie per il progresso dell'accumulazione non si possono ritrovare per lungo tempo in quanto la massa di plusvalore, benché cresciuta in senso assoluto, è insufficiente per assolvere le sue tre funzioni.

Se il capitale costante addizionale (AC) è ricavato dal plusvalore nella quantità necessaria, allora il reddito disponibile è insufficiente per soddisfare il consumo, alla scala di grandezza corrente, degli operai e dei padroni.

Diviene così inevitabile una lotta accanita tra gli operai e i padroni per la suddivisione del reddito. D'altra parte, se i capitalisti, pressati dagli operai, fossero costretti a mantenere la stessa scala dei salari con una conseguente diminuzione della parte destinata all'accumulazione (AC), il ritmo dell'accumulazione rallenterebbe e l'apparato produttivo non potrebbe essere rinnovato e ampliato per adeguarsi al progresso tecnologico. In tali condizioni, l'ulteriore accumulazione è sempre più difficoltosa dato che, per una popolazione da-ta, la massa del plusvalore può essere solo aumentata di una quantità insignificante. Di conseguenza, il plusvalore scaturito dal capitale investito precedentemente si trova inutilizzato e si presenta un surplus di capitale inattivo che cerca invano delle possibilità d'investimento.

Così l'accumulazione è un processo che conduce inevitabilmente alla sovrapproduzione del capitale e ad una disoccupazione sempre in aumento, ad un surplus di capitale incapace di essere impiegato in modo redditizio e ad un surplus di popolazione inutilizzato. Questa è la grande e finale contraddizione della produzione capitalistica che causa la sua disintegrazione:

il fatto che i mezzi di produzione e la produttività del lavoro aumentino più rapidamente della popolazione produttiva, si esprime dunque, capitalisticamente, nella forma inversa per la quale la popolazione lavoratrice aumenta sempre più rapidamente delle condizioni entro le quali il capitale può impiegare questo aumento per la sua autoespansione.

Sulla base di questa analisi dell'accumulazione, la questione non è più se il sistema capitalistico debba crollare, ma piuttosto perché esso non sia già crollato. Noi abbiamo fin qui seguito il processo di accumulazione di un capitalismo fittizio. La realtà è differente. La legge del crollo capitalistico da noi mostrata ha funzionato in un capitalismo “puro”, un capitalismo che effettivamente non esiste. Allo scopo di illustrare meglio la legge dell'accumulazione capitalistica e le relative conseguenze, noi abbiamo dovuto trascurare gli aspetti e le tendenze secondarie che sono caratteristici del capitalismo reale. Sino ad ora, per lo scopo della nostra indagine, essi sono stati irrilevanti dato che nascondono solo la legge più interna del processo di accumulazione capitalistico. Al di fuori delle già menzionate semplificazioni, noi ci siamo unicamente preoccupati del processo di produzione trascurando le modificazioni causate all'accumulazione dal processo di circolazione. Ci ha interessato solo la dinamica della società nel suo insieme cosicché non abbiamo considerato le sfere individuali della produzione ed abbiamo trascurato la concorrenza e il suo effetto modificante sul tempo dell'accumulazione. Nella nostra analisi dell'accumulazione non abbiamo considerato il commercio estero che, dal punto di vista della produzione capitalistica, è della più grande importanza. Abbiamo trascurato le stratificazioni sociali della piccola borghesia ed abbiamo parlato solo del capitale e del lavoro. Nella nostra analisi non è stato considerato il problema del credito. In breve, la nostra analisi dell'accumulazione si basa su un capitalismo inesistente. Tutto ciò che abbiamo cercato di fare è stato di dimostrare che, seguendo il processo di accumulazione in tale sistema capitalistico puro, il risultato è, con certezza matematica, il suo collasso.

Comunque, nella realtà la tendenza pura dell'accumulazione capitalistica, nella sua vertiginosa andatura, è rallentata da contro-tendenze che sorgono dallo stesso sviluppo capitalistico. La tendenza verso il collasso che si è manifestata attraverso le crisi è anche rallentata, e temporaneamente fermata, da queste stesse crisi le quali sono la forma embrionale del collasso finale. Queste contro-tendenze possono solo posticipare il collasso del sistema; quest'ultimo non è altro che una crisi pienamente sviluppata e non ostacolata da alcuna contro-tendenza.

Se la causa della crisi è la sovraccumulazione che rende impossibile l’“utilizzazione” del capitale, allora, allo scopo di porre fine alla crisi, si devono creare nuovi mezzi per assicurare ancora una volta l'indispensabile “utilizzazione” del capitale. Secondo Marx, una crisi è solo un processo di risanamento, un ritorno violento ad una ulteriore espansione economica profittevole; dal punto di vista del capitalista tutto ciò è una “pulizia” del mercato. Ma dopo questa purga, con la sua serie di bancarotte e con l'inedia tra i lavoratori, il processo di accumulazione continua e, dopo un certo periodo di tempo, l’“utilizzazione” del capitale diviene di nuovo insufficiente. L'autoespansione si ferma mentre il capitale accumulato diviene nuovamente troppo grande per le sue nuove basi. Una nuova crisi allora si sviluppa. In questo modo la tendenza verso il collasso si risolve in una serie di cicli apparentemente indipendenti tra loro.

Come le crisi vengono superate

Le differenti fasi del ciclo economico possono essere più lunghe o più corte ma la loro periodicità è un dato di fatto. È un ulteriore dato di fatto che i periodi di boom sono progressivamente più corti e che la durata e l'intensità dei periodi di crisi aumentano. Ciò evidenzia che le tendenze che servono a ritardare il collasso del capitalismo, nonostante siano una parte integrante dell'accumulazione del capitale, sono allo stesso tempo fortemente indebolite al passaggio di ogni ciclo; di conseguenza il superamento della crisi diviene sempre più difficile. Gli Stati Uniti sono passati attraverso una serie di crisi industriali precedute e seguite da periodi di boom. La crisi del 1887 è stata preceduta da una febbrile attività di costruzione. Fu realizzata un'ampia rete nazionale di strade, furono costruiti canali e si sviluppò un notevole traffico di navi a vapore. Una quantità gigantesca di capitale fu importata e una generale e ottimistica aspettativa di profitti sviluppò la speculazione. Al primo segnale di una produzione insufficiente di profitti, gli “affari” si riversarono nelle attività speculative che, a quel tempo, vennero ad assumere la forma più brigantesca. Una crisi seguì poco tempo dopo. Agli economisti borghesi la crisi apparve essere causata dall'"impossibilità di pagare gli interessi del capitale preso in prestito dato che il saggio del profitto che poteva essere realizzato era troppo piccolo". Il panico del 1857 fu preceduto da un periodo di ubriacatura dovuto alla scoperta dell'oro in California e alla costruzione di un'ampia ferrovia, fattori che servirono ad aiutare lo sviluppo generale dell'industria. La prosperità si trasformò di nuovo in una speculazione intensificata; ciò che succede sempre quando i profitti diventano piccoli. La crisi fu di nuovo spiegata come un problema di “interesse”. Secondo le concezioni borghesi, la ferrovia fu costruita troppo velocemente, l'industria si sviluppò troppo in fretta e divenne impossibile pagare gli interessi sui soldi investiti nell'industria. Il capitale crebbe più velocemente della possibilità di “utilizzare” questa crescita. A tutto ciò seguirono, per nominare solo quelle più importanti, le crisi del 1873, del 1893, del 1907 e del 1921.

In qualunque modo queste crisi furono interpretate, ogni specifica spiegazione indicò che il profitto era insufficiente, che l'ulteriore espansione dell'industria non era redditizia e che per questa ragione essa non poteva avere luogo, cosicché ogni spiegazione, inconsapevolmente, vide nella sovrapproduzione la causa della crisi. Ma nessuno parlò di questa cosa come l'inevitabile risultato del processo di accumulazione capitalistico; questo fatto fu sempre mascherato con spiegazioni del tipo "una sovrapposizione di merci" e "un carico troppo pesante di debiti e una incapacità di pagare gli interessi". Di conseguenza, la caduta dei prezzi fu accettata come la causa della crisi.

Nel periodo di crisi, secondo Marx, il saggio del profitto, e con esso la domanda di mercato, quasi scompare per il capitale industriale. Il potere d'acquisto con cui espandere la produzione non manca ma esso non può essere utilizzato perché l'allargamento della produzione non è remunerativo; infatti se ciò fosse fatto non si realizzerebbe più plusvalore di quello della scala produttiva precedente ma, al contrario, se ne realizzerebbe meno.

All'inizio, benché l'espansione della produzione non sia più remunerativa, la produzione continua al suo volume precedente. A causa di questo fatto viene prodotto ogni anno un surplus, una parte del quale, destinata all'accumulazione, non ha alcuna possibilità d'impiego. Con ciò, la quantità di mezzi di produzione invenduti, in generale di merci invendute, aumenta; il costo di stoccaggio cresce e gli impianti non sono necessariamente impegnati dal momento in cui non ci sarebbe ritorno dalla vendita delle merci prodotte. Il capitalista deve vendere ad ogni costo per ottenere i mezzi con cui continuare la produzione alla scala precedente. Questo porta alla caduta dei prezzi e ad un limitato funzionamento delle fabbriche. Le imprese fanno bancarotta e la disoccupazione cresce.

La soluzione capitalistica a questo problema sta nel ristabilire la possibilità dell’“utilizzazione” del capitale. Per realizzare tutto questo deve essere diminuito il valore del capitale costante oppure deve essere aumentato il plusvalore. Entrambe le possibilità si trovano tanto nella sfera della produzione che in quella della circolazione. Noi avremo a che fare solo con alcune delle tendenze che fanno superare la crisi e che ritardano il collasso del sistema.

Abbiamo detto che il capitalista vede sempre la caduta dei prezzi come la causa della crisi; di conseguenza egli vede la crescita dei prezzi come l'inizio della ripresa economica. Gli economisti borghesi affermano che mentre i prezzi cadono le bancarotte aumentano proporzionalmente; di questo fatto essi offrono delle dimostrazioni statistiche.

Secondo loro, la stabilità dei prezzi è la garanzia della stabilità sociale. Ma quello che in realtà essi spiegano è solo l'aumento della produttività del lavoro espresso in prezzi. Il dramma delle bancarotte chiarisce solo il processo della concentrazione del capitale. Ciononostante, gli economisti borghesi, con la loro maniera superficiale di spiegare le cose, hanno sempre indicato la caduta dei prezzi come la causa della crisi. Essi mantengono ancora oggi questa stupida spiegazione nonostante il fatto che negli U.S.A., dal 1925, si manifesta un periodo di boom economico contemporaneamente ad una caduta dei prezzi. È anche un dato di fatto che, in tempo di depressione, l'espansione dell'apparato produttivo ha luogo quando i prezzi sono bassi. Solo quando la domanda creata dall'espansione eccede l'offerta, i prezzi aumentano. Di conseguenza, se ha luogo la salita dei prezzi, dato che non è assolutamente necessaria, essa è l'effetto e non la causa della ripresa. Anzi, perché possa cominciare la ripresa, deve rendersi possibile un impiego redditizio del capitale ad un livello dei prezzi basso. Questo richiede un incremento della produttività del lavoro che significa, di nuovo, una più alta composizione organica del capitale oppure la riproduzione della crisi ad un livello più alto.

L'incremento della produttività, oltre ad altre cose, è un processo di concentrazione e di centralizzazione accompagnato da una fusione di unità industriali e da una generale razionalizzazione. Cosicché le crisi, sebbene siano anche accompagnate da “sovrapproduzione”, sono sempre superate da una ulteriore espansione della produzione. Che questo conduca ad un aumento dei licenziamenti dei lavoratori (all'inizio relativamente al capitale impiegato e più tardi in senso assoluto), non cambia questa necessità. Le statistiche mostrano che negli USA, nel periodo della ripresa, le bancarotte coinvolsero le piccole imprese e che, mentre queste bancarotte aumentavano, i grandi complessi industriali realizzarono dei superprofitti nonostante la caduta dei prezzi. La formazione dei trust rese possibili più larghi profitti a prezzi più bassi mentre le piccole imprese, esterne a questo movimento di “razionalizzazione”, soccombettero. Il professor Eitemann scrive:

i bassi prezzi che si erano imposti durante la depressione del 1873 favorirono l'introduzione nell'industria di progetti per risparmiare lavoro con lo scopo di tagliare i costi della manodopera. Questa ricerca di metodi produttivi più economici continuò anche dopo il ritorno alla prosperità e si risolse in una stabile tendenza al ribasso dei prezzi.

L'incremento della produttività del lavoro, e con esso una relativa riduzione del costo del capitale costante, rende di nuovo possibile l’“utilizzazione” del capitale. Questa tendenza è evidente durante la crisi presente. Cronache come quella seguente non sono infrequenti:

La nuova centrale elettrica della General Electric da quattro milioni di dollari sarà pronta per funzionare nella prossima primavera. Secondo le valutazioni degli ingegneri, l'impianto produrrà vapore e chilowattore di energia al costo più basso che sia mai stato realizzato.

Nello stesso tempo in cui ha autorizzato la distruzione di 124 navi di circa un milione di tonnellate, la "Merchant Fleet Corporation" ha progettato la costruzione di 20 milioni di tonnellate di nuove navi nonostante la “sovrapproduzione” ne lascerà molte inattive in porto. Nella crisi, sebbene ci sia “sovrapproduzione”, l'apparato produttivo è ampliato piuttosto che ristretto. Tuttavia le precedenti crisi sono passate. La crisi dunque, non è una restrizione dell'apparato produttivo reale ma una rottura di un sistema di prezzi e di valori dato e la sua riorganizzazione ad un nuovo livello.

Secondo Marx, la tendenza a cadere del saggio del profitto è accompagnata da un aumento del saggio del plusvalore ovvero del saggio dello sfruttamento della forza-lavoro.

Con lo sviluppo delle forze produttive le merci diventano meno costose. Nella misura in cui questo succede alle merci consumate dai lavoratori, anche gli elementi del capitale variabile diventano più a buon mercato. Il valore della forza-lavoro si abbassa e il saggio dello sfruttamento aumenta. Lo stesso effetto viene ottenuto con l'intensificazione del lavoro, con la razionalizzazione delle tecniche della produzione, con l'aumento crudele dei ritmi di lavoro o con l'allungamento della giornata lavorativa. Un altro modo, tra i più importanti, è quello di costringere i salari a scendere sotto il valore della forza-lavoro avvantaggiandosi, durante la crisi, della crescita dell'esercito dei disoccupati. (La riduzione dei salari sotto il loro valore è da tempo diventata la base di esistenza dell'intero sistema). La ridicola concezione che la crisi possa essere superata con l'aumento del potere d'acquisto del lavoro è stata sempre smentita dal capitale con l'ulteriore riduzione di questo stesso potere d'acquisto.

È esattamente in questo modo, col taglio dei salari, che il capitalismo cerca di superare la crisi. Il Commercial and Financial Chronicle scrive così:

Il fabbricante non è più in grado di produrre merci con un profitto e perciò smette di produrre del tutto; di conseguenza moltitudini di salariati si trovano inattivi e senza impiego. Se il Presidente fosse indotto a prevalere sui lavoratori salariati per riportare i salari ad un livello più basso, il ristagno commerciale diventerebbe presto una cosa del passato.

Le statistiche, per esempio quella della U.S. Steel Corporation, mostrano che la crisi e l'aumento dello sfruttamento procedono parallelamente.

1 agosto 1918 aumento del 10% del salario
1 ottobre 1918 si adotta una giornata lavorativa di base di 8 ore
1 febbraio 1920 aumento del 10% del salario
16 maggio 1921 diminuzione del 20% del salario
6 giugno 1921 abolizione della giornata lavorativa di 8 ore
29 agosto 1921 diminuzione del salario a 30 centesimi di dollaro per ora
1 settembre 1922 aumento del 20% del salario
16 aprile 1923 aumento dell' 1 1 % del salario
1 ottobre 1931 diminuzione del 10°/o del salario
Tabella 3

La crisi del 1921 ha cancellato la giornata lavorativa di 8 ore adottata precedentemente ed ha condotto ad un taglio netto del salario. Nel 1931 tutto questo si è ripetuto. L'intensificazione dello sfruttamento è una delle più importanti forze che operano contro il collasso capitalistico. Allo stesso modo opera la riduzione del tempo di rotazione del capitale. Oltre all'aumento della produttività, i principali modi per contrastare tale collasso sono il miglioramento dei mezzi di comunicazione, specialmente dei trasporti, la diminuzione delle scorte di magazzino, ecc. Anche l'aumento della quantità dei valori d'uso, corrispondenti ad un certo valore di scambio, e la scoperta di nuove sfere produttive con una composizione organica più bassa indeboliscono ulteriormente la tendenza al collasso poiché queste branche della produzione producono profitti eccezionalmente alti. Dato che la classe dei capitalisti non può disporre da sola del plusvalore di cui si è appropriata ma deve dividerlo con i diversi gruppi della piccola borghesia, la crisi è sempre l'inizio di un periodo di conflitto più intenso che assume la forma di una lotta tra i produttori “effettivi” e la rendita fondiaria, il profitto commerciale e tutti gli altri elementi parassitari del capitale produttivo. In breve, si tratta di una lotta della borghesia industriale contro la parte rimanente della borghesia e i diversi gruppi della piccola borghesia, contro coloro cioè che sfruttano il lavoro indirettamente, attraverso gli stessi industriali.

Un elemento importante per ristabilire le condizioni per investimenti redditizi è la svalutazione del capitale. Questa svalutazione si esprime valutando lo stesso ammontare di mezzi di produzione con un valore più piccolo. La composizione tecnica del capitale (i mezzi di produzione in rapporto al lavoro) rimane la stessa ma la composizione organica (il capitale costante in rapporto al capitale variabile) si abbassa. La massa del plusvalore rimane la stessa ma il saggio del profitto, calcolato su una base di capitale più piccola, aumenta. In pratica, la svalutazione prende il posto della vendita a prezzi stracciati. La crisi e le guerre capitalistiche sono svalutazioni gigantesche di capitale costante per mezzo della distruzione violenta di valore e del valore d'uso che forma la sua base materiale.

Anche importando dall'estero nuovi valori d'uso la produzione capitalistica viene ampliata e la tendenza verso il collasso si indebolisce. L'importazione di derrate alimentari a buon mercato abbassa il valore della forza-lavoro e aumenta proporzionalmente il saggio del plusvalore. Con la fornitura di materie prime a basso prezzo, gli elementi del capitale costante diventano più economici e il saggio del profitto aumenta. Ecco perché la lotta per le fonti delle materie prime costituisce uno dei maggiori obiettivi delle politiche capitalistiche internazionali. I paesi più altamente sviluppati, attraverso la tendenza al livellamento dei profitti, possono appropriarsi di parte del plusvalore creato nei paesi meno sviluppati. Questo extra-profitto ostacola la caduta del saggio del profitto. 11 movimento verso il collasso viene rallentato con il commercio estero che, con lo sviluppo dell'accumulazione, diviene una questione di vita o di morte per il sistema capitalistico, poiché porta l'espansione imperialista a divenire sempre più violenta.

Il carattere internazionale della crisi si sviluppa con il commercio estero. Esso porta anche allo sviluppo dei monopoli mondiali.

Questo fa dell'esportazione del capitale la caratteristica dell'imperialismo. Tutti questi elementi, concentrati nell'imperialismo, sono rimedi contro l'insufficienza di capitale. La conseguenza finale dell'imperialismo è la politica delle annessioni di territori stranieri perché l'assicurarsi di un flusso addizionale di plusvalore aiuta a rinviare il collasso capitalistico. Dal momento in cui il progredire dell'accumulazione rende più imminente la minaccia del collasso, le tendenze imperialistiche si rafforzano proporzionalmente.

La crisi permanente

Precedentemente abbiamo mostrato che la teoria marxista dell'accumulazione è anche la legge del crollo del sistema capitalistico. Inoltre abbiamo fatto vedere come questa legge sia, in certi periodi, sopraffatta da controtendenze. Ma queste stesse controtendenze sono vinte nel corso dello sviluppo o perdono il loro effetto per effetto della sovraccumulazione. La razionalizzazione del sistema fallisce i suoi obiettivi. La concentrazione, ossia la fusione di aziende industriali, è resa difficoltosa dal peso della chiusura delle attività produttive. Anche il taglio dei salari e l'intensificazione dello sfruttamento hanno i loro limiti. I lavoratori non possono essere pagati perennemente sotto il loro costo di riproduzione. I lavoratori morti e alla fame non producono valore. L'accorciamento del tempo di rotazione del capitale ha il suo limite oltre il quale esso spezza la continuità della produzione e della circolazione. Anche se i profitti commerciali fossero eliminati nel loro insieme, la caduta del saggio del pro fitto continuerebbe. Il commercio estero, in quanto contro-tendenza, si autoelimina imponendo, attraverso un'impetuosa crescita interna, lo sviluppo industriale di quei paesi che si trasformano da importatori a esportatori di capitale. Dal momento in cui l'efficacia delle controtendenze viene meno la tendenza al collasso è senza controllo. Allora abbiamo la crisi permanente ovvero la crisi mortale del capitalismo. Il solo mezzo che rimane per far continuare l'esistenza del capitalismo è quindi l'assoluto, permanente e generale impoverimento del proletariato.

Nelle crisi precedenti è stato possibile riguadagnare una sufficiente “utilizzazione” del capitale senza il taglio permanente dei salari reali. Marx ha detto:

Nella misura in cui il capitale accumula, la situazione dei lavoratori, qualsiasi essa sia, deve diventare peggiore.

Tutte le statistiche disponibili mostrano che l'accumulazione e l'impoverimento dei lavoratori sono due aspetti dello stesso processo. Ma nel periodo del sorgere del capitalismo si è verificato solo un relativo, e non assoluto, impoverimento dei lavoratori. Questo fatto ha costituito la base del riformismo. Solo quando il proletariato deve essere per forza impoverito in senso assoluto, diventano mature le condizioni obiettive per un reale movimento rivoluzionario.

Se invece di farci ingannare dall'effettivo aumento degli ultimi tre decenni dei salari nominali negli Stati Uniti, esaminassimo l'andamento dei salari in relazione alla produzione, noi avremmo una immagine reale dell'impoverimento relativo del proletariato americano. Se dividiamo l'indice dei salari reali per l'indice della produzione, abbiamo l'indice del potere d'acquisto dei lavoratori.

Anno Indice
1899 100
1904 91
1909 70
1914 70
1919 65
1920 67
1921 91
1922 73
1923 68
1924 76
1925 68
1926 68
1927 71
1928 70

Negli Stati Uniti, il potere d'acquisto dei lavoratori di fabbrica non è aumentato in proporzione al prodotto totale dell'industria; esso è rimasto indietro. La posizione dei lavoratori è relativamente peggiorata. Questo è vero nonostante i salari reali siano aumentati da 100 nel 1900 al 123,6 nel 1928. I lavoratori vivevano meglio nel 1928, anche se erano più sfruttati, piuttosto che nel 1900. Per Marx, questo impoverimento relativo è stato solo un momento dell'impoverimento assoluto. Se i salari all'inizio si abbassano relativamente alla ricchezza generale, essi più tardi diminuiscono in senso assoluto. Questo relativo peggioramento della posizione dei lavoratori di fronte al miglioramento assoluto della ricchezza continua solo sino a che le condizioni consentono un sufficiente aumento della massa del plusvalore che permette, a sua volta, una sufficiente “utilizzazione” del capitale. Nella fase finale del capitale, il plusvalore è insufficiente sia per il mantenimento dei precedenti livelli salariali che per permettere una sufficiente “utilizzazione” del capitale. Perciò a questo punto la crisi può essere superata solo con un soddisfacente tasso dì accumulazione e con la ricostituzione dei profitti al costo dei lavoratori dato in quel momento. Ciò che distingue la crisi finale da quelle precedenti è che, con la ritrovata redditività dell'investimento, il livello del salario non può essere ricostituito e che quest'ultimo si abbassa definitivamente sia nel periodo della “prosperità” come in quello della crisi. Mentre il capitale riesce a “superare” la crisi i lavoratori rimangono sotto il suo dominio e se essi rifiutano di lasciarsi distruggere non possono che fare ricorso all'abolizione del sistema capitalistico.

Il livello della produzione industriale mondiale è oggi (1934) sotto il valore del 1904. La depressione ha una estensione mondiale. In relazione alla fase avanzata dell’“accumulazione”, la crisi può variare da paese a paese ma il suo carattere internazionale si percepisce dappertutto. Il restringersi del mercato nazionale intensifica la concorrenza sul mercato mondiale che, a causa del protezionismo, si restringe allo stesso modo. La restrizione del commercio mondiale intensifica la crisi e rende la situazione economica e finanziaria più precaria.

Questi avvenimenti equivalgono a quello di una pesante perdita dei profitti. La condizione del capitale bancario è catastrofica. Solo nel 1933, il numero dei disoccupati negli Stati Uniti fu di circa 16 milioni di persone. Tutto questo indica che la crisi presente negli Stati Uniti, come altrove, differisce da tutte quelle precedenti in estensione ed intensità. Essa è la crisi più grande della storia del capitalismo: se essa sarà l'ultima dipenderà dall'azione dei lavoratori. Negli Stati Uniti, la politica di Roosvelt, riferita dalla stampa borghese alla fine della depressione, è stata di carattere temporaneo e non ha influito affatto sulla crisi mondiale. Gli USA hanno guadagnato qualcosa per un breve periodo fintantoché ci sono state delle perdite per altri paesi. La politica inflazionistica ha permesso agli USA di competere meglio sul mercato mondiale ma solo finché gli altri paesi non sono stati pronti a difendersi con l'inflazione della loro stessa moneta oppure cercando altri mezzi per combattere la concorrenza americana come il taglio generale dei salari e l'eliminazione della piccola borghesia. Un altro sistema per battere la concorrenza è stato quello di eliminare i banchieri mangia-profitti, così si è stimolata la produzione in modo che essa è divenuta nuovamente redditizia per un breve periodo. Questo profitto è comunque ottenuto con un processo di impoverimento non solo di carattere relativo ma anche assoluto. È un boom durante la crisi mortale, un profitto che non indica sviluppo ma decadenza. Esso mostra che non siamo alla fine ma solo all'inizio della crisi.

Negli USA, l'inizio effettivo dell'attuale depressione è sempre collegato con il crollo del mercato azionario sebbene quest'ultimo sia stato l'effetto piuttosto che la causa di una crisi che era già cominciata. Fin dal 1927, l’“utilizzazione" del capitale negli USA era diventata sempre più difficile. La caduta del saggio del profitto indicava la sovraccumulazione. Ciononostante l'ampliamento dell'industria ebbe luogo sino al 1929 sebbene non nella misura che sarebbe stata necessaria in rapporto al tasso dell'accumulazione dell'anno precedente e in rapporto alla base esistente di capitale accumulato. I profitti industriali, che non poterono più essere completamente reinvestiti, rifluirono nelle banche. In esse il surplus di capitale rimase inutilizzato: i depositi del sistema bancario della Federal Reserve aumentarono di 17 miliardi di dollari nel 1927. Questo aumento fu dell'8% mentre veniva considerato normale il valore del 5% . Simultaneamente il credito diventò disponibile più rapidamente. I risultati furono dei prestiti speculativi per il mercato azionario e delle quantità di titoli gonfiati speculativamente che determinarono a Wall Street una grande eccitazione che si concluse con il crollo del mercato azionario. Ma la grande eccitazione speculativa fu solo l'indice della mancanza della sufficiente possibilità di investimenti produttivi. Mentre il surplus di capitale abbassava il tasso d'interesse all'1%, alla crisi industriale seguì quella del sistema creditizio; l'industria, nonostante il basso tasso d'interesse dal quale gli economisti borghesi si aspettarono il ritorno della prosperità, non richiese alcun credito. Il Chicago Daily Tribune scriveva:

Quel denaro inattivo che si era accumulato nelle banche ebbe difficoltà a trovare degli sbocchi sicuri; i tassi d'interesse si abbassarono ma i prestiti e gli investimenti non aumentarono.

Questa situazione non è peculiare degli USA ma è generale, di tutto il mondo. J.P. Morgan ha testimoniato in una inchiesta del senato:

La depressione, per quanto io sappia per la prima volta nella storia del mondo, è così diffusa che nessun paese può fare prestiti agli altri. Al momento attuale non c'è domanda per il capitale dell'industria.

Comunque questa situazione può solo essere superata da un'ulteriore accumulazione cioè dall'espansione dell'apparato produttivo o dal rinnovo su larga scala del capitale fisso. La massa di capitale necessaria per l'accumulazione, prescindendo dal fatto che il capitale fisso possa essere utilizzato per metà della sua capacità, dipende dal suo precedente volume in quanto l'accumulazione è determinata dal tasso di crescita che essa stessa ha acquisito anteriormente; inoltre questa accumulazione deve avere luogo con un più basso livello dei prezzi in quanto l'espansione della produzione si associa alla loro caduta. Di conseguenza, se l'accumulazione deve continuare, l'espansione della produzione deve abbassare il costo di produzione in modo tale che la massa del profitto compensi la caduta del saggio del profitto. Per questa ragione “Barrons Weekly”, nella sua indagine annuale, dice:

L'estensione alla quale la pressione del capitale accumulato può effettivamente promuovere la ripresa economica dipende dal fatto che siano state fatte le necessarie modifiche alle altre parti del sistema economico - ai costi di produzione e ai prezzi, alla domanda e all'offerta relativa alle singole merci e ai servizi amministrativi, nei loro costi per il contribuente e nel loro effettivo valore per il paese; in breve, dal fatto che il capitale possa guadagnare un profitto e mantenerlo.

È impossibile un sistema capitalistico statico: il capitalismo deve o andare avanti, cioè accumulare, oppure crollare. L'accumulazione presuppone la ricostituzione delle possibilità di investimento redditizio; perciò vediamo, su scala internazionale, dei violenti tentativi per raggiungere questo scopo. Ma tutte le misure precedenti prese per superare la profondità della crisi attuale sono fallite miseramente.

Come abbiamo detto precedentemente, la ripresa degli investimenti redditizi dipende dalla riduzione della composizione organica del capitale oppure dall'aumento, con altri mezzi, del plusvalore. La svalutazione del capitale abbassa la sua composizione organica. In pratica questo significa la rovina di molti singoli capitalisti; dal punto di vista del sistema essa significa un ringiovanimento. La svalutazione del capitale, che esprime l'incremento della produttività del lavoro, è un processo ininterrotto che nella crisi avanza violentemente. L'aumento della frequenza dei fallimenti mostra che la svalutazione del capitale sta prendendo piede anche oggi. Ma i fallimenti, mentre esprimono la rapida e violenta svalutazione del capitale, non sono il sintomo dell'intensificazione della crisi; essi, fino ad ora, sono stati degli aiuti per superarla. In tutte le crisi precedenti il numero e la veloce crescita dei fallimenti erano collegati al superamento più rapido della crisi. Quello che oggi questo fenomeno ha dimostrato è soltanto che l'accumulazione è arrivata al punto in cui la svalutazione cessa di essere un elemento efficace nel superamento della crisi. O non ci sono abbastanza fallimenti oppure la svalutazione compiuta è insufficiente ad abbassare la composizione organica del capitale per rendere ancora possibile la continuazione di una accumulazione redditizia. Questo fatto è strettamente collegato con il cambiamento strutturale del capitalismo che si è avuto con il passaggio dalla fase della libera concorrenza a quello del capitale monopolistico.

Il capitalismo del periodo classico rispose alla crisi con una generale caduta dei prezzi che condusse a fallimenti diffusi e costrinse le industrie sopravvissute ad adattarsi al livello dei prezzi conseguente all'installazione del nuovo macchinario. La domanda di capitale fisso che si riversò su alcune industrie portò altre ad essere trascinate nel boom economico. Ma con il capitalismo monopolistico ovvero nella fase decadente del capitale, come Lenin la chiamò, la crisi non ha gli stessi esiti. In questo caso noi abbiamo una condizione di prolungata esistenza di enormi masse di macchinario produttivo giacenti nell'inattività senza che esse siano distrutte. Questo è il tratto distintivo caratteristico della crisi nella fase del capitale monopolistico. Le riserve di capitale fisso create dal capitale monopolistico sono messe a disposizione, nei periodi di boom economico, della produzione e rendono superflua la costruzione di ulteriori imprese; in tal modo esse aumentano le difficoltà per passare all'allargamento della produzione. Quando la crisi arriva, la produzione viene contratta e quando, più tardi, aumenta la domanda questa viene soddisfatta dall'apertura delle imprese chiuse precedentemente. In questo modo il capitale monopolistico ostacola il progresso tecnico e rende angusto il mercato dei mezzi di produzione. Quanto sia piccola l'importanza della violenta svalutazione del capitale, può essere visto quando si paragonano i monopoli con il totale sociale delle forze produttive. Negli USA abbiamo 37 produttori di gomma: 5 rispondono del 70% della produzione totale e gli altri 32 si dividono tra loro il rimanente 30%. Nell'industria automobilistica il 75% della produzione totale è controllato da due imprese: la General Motors e la Ford. Due trust controllano il 52% della produzione totale dell'acciaio; la U.S. Steel e la Bethlehem. Nell'industria della carne in scatola il 70% della produzione è controllato da quattro aziende: la Swift, la Armor, la Wilson e la Cudishy. Nelle altre industrie sono state scoperte situazioni simili. Quale effetto può avere in questo caso il fallimento delle imprese più piccole? La fusione del capitale. Il consolidamento dei monopoli che ne risulta rafforza la tendenza verso la stagnazione e la decadenza il che significa che la depressione permanente dell'economia è davvero una caratteristica della fase del capitale monopolistico. Persino l'enorme ribasso del valore del capitale rappresenta solo una rapina ai danni dei piccolo azionisti e non un movimento verso la ripresa economica. È anche chiaro che oggi una rivoluzione tecnica, che scarti enormi masse di capitale rendendole obsolete, non possa essere ipotizzata in quanto la restrizione produttiva è diventata per il capitalismo una necessità. Supporre la fine della depressione attraverso una svalutazione del capitale significa riporre le speranze in una forma di capitalismo ancora più avanzata di quello monopolistico, e ciò è possibile che si realizzi nel quadro della proprietà privata dei mezzi di produzione. (Il capitalismo di stato non è una forma economica più avanzata del capitalismo monopolistico ma solo una maschera politica differente che cerca di ristabilire gli equilibri delle forze di classe; ciò che richiede, a causa del restringersi nel capitalismo monopolistico della classe dominante e dei suoi servi, una più diretta interferenza dello stato per mantenere il dominio di classe).

Per aumentare la massa del plusvalore si deve abbassare il costo di produzione. Questo lo si cerca di ottenere attraverso il processo di una generale razionalizzazione: ma una maggiore razionalizzazione conduce al suo contrario. Dopo un po' di tempo i profitti delle singole imprese aumentano per mezzo delle loro applicazioni ma il reddito netto del lavoro sociale totale diminuisce. Alcuni individui diventano ricchi mentre la società si impoverisce. Quanto lontano sia andato questo tipo di razionalizzazione lo si può vedere dalle ricerche fatte svolgere dai tecnocrati. La razionalizzazione è efficace solo quando il possibile risparmio in salari è più grande dell'inevitabile aumento del costo del capitale fisso. La razionalizzazione causa la chiusura di molte imprese e, per questa ragione, il risparmio nei salari deve superare non solo l'aumento del costo del capitale fisso delle imprese razionalizzate ma deve, in aggiunta, compensare la perdita causata dal deprezzamento del capitale fisso delle imprese inattive. Se i costi del capitale fisso diventano più alti, tutte le imprese diventano più sensibili ad una fluttuazione verso il basso dell'attività economica. La razionalizzazione perciò conduce ad un aumento, invece che a una diminuzione, dei costi di produzione e per questo motivo essa aumenta le difficoltà del superamento della crisi. Ad un elevato stadio dell'accumulazione, a causa dell'eccessivo sviluppo, la razionalizzazione dell'apparato produttivo accelera, invece di ritardarlo, il crollo del capitalismo. L'apparato produttivo americano fu razionalizzato negli anni della prosperità seguenti al 1931 e questa fu una delle cause della lunghezza di questa fase. Nonostante il fatto che la razionalizzazione venne portata avanti, la crisi arrivò e creò una situazione che permise l'utilizzazione di appena il 50% delle imprese ristrutturate; con ciò essa annulla l'aumento del plusvalore guadagnato con la stessa razionalizzazione. Questo esempio di irrazionalità mostra definitivamente l'impossibilità della ripresa economica attraverso un'ulteriore razionalizzazione.

L'aumento del plusvalore per mezzo dell'accorciamento del tempo di rotazione del capitale ha, allo stesso modo, i suoi limiti obiettivi nello sviluppo dell'accumulazione. Il periodo di rotazione del capitale totale si è allungato a causa della diminuita utilizzazione del capitale fisso. Così, con questo periodo di rotazione, lo stesso saggio del profitto diviene annualmente molto più piccolo. Oggi la caduta dei prezzi, sebbene limitata dal capitale monopolistico, ha un peso maggiore delle rimanenti possibilità, che tuttora esistono, di ridurre il periodo di rotazione. La diminuzione delle scorte, finalizzata all'aumento del saggio del profitto, ha i suoi limiti nella necessità della continuità della produzione e della circolazione. Oltre a tutto ciò, l'azione della crisi causa un aumento della quantità delle merci invendute che diminuisce ulteriormente il saggio del profitto sia per il costo dell'immagazzinamento che per un'ulteriore caduta dei prezzi causata dalla necessità di vendere. L'effetto netto è che le giacenze di magazzino aumentano, che il periodo di rotazione del capitale si allunga e che il saggio del pro fitto cade. L'aumento delle giacenze è evidente specialmente se si considerano le materie prime. La fornitura mondiale di materie prime era alla fine del 1929 di 192 e alla fine del 1933 di 265. Per ridurla al normale, la produzione mondiale dovrebbe cessare completamente per mesi e mesi.

Durante la crisi, a causa della intensificata concorrenza, il costo per la circolazione del capitale aumenta. Durante il periodo in cui il numero dei lavoratori occupati stabilmente nella produzione diminuisce, il numero di quelli impegnati nella distribuzione aumenta. Solo le spese di pubblicità, sono state ultimamente in USA maggiori di un miliardo di dollari all'anno. Ovviamente questo fatto diminuisce ulteriormente i profitti.

Nella crisi del 1920-21, il 30% di tutte le imprese degli USA, rappresentanti approssimativamente un valore di investimento di 30 miliardi di dollari, erano inattive. Se il loro deprezzamento e la loro manutenzione è valutata al 10%, questo significa una perdita netta di tre miliardi di dollari oppure di un valore equivalente a quello prodotto dal lavoro di un milione e mezzo di lavoratori. Oggi tutto ciò avviene a una scala anche più grande che determina un'ulteriore caduta del saggio del profitto. Oltre ai motivi già menzionati, dato che negli USA 16 milioni di lavoratori sono disoccupati, diviene necessario per quelli occupati produrre in più tanto plusvalore quanto ne avrebbero prodotto quei lavoratori se fossero stati impiegati. In caso contrario la massa del profitto diminuirà e diventerà ancora più difficile avere una sufficiente accumulazione. La diminuzione della massa del profitto acutizza la lotta per la sua suddivisione. Le banche che hanno anticipato il capitale alle imprese industriali durante il periodo della prosperità, hanno basato il credito sui prezzi di quel momento. La caduta dei prezzi blocca questi crediti e causa all'inizio i fallimenti dell'industria e, in un secondo momento, quelli delle banche accelerando il processo di concentrazione del capitale. Nello stesso tempo è avvenuto un enorme cambiamento nella suddivisione dei profitti tra il capitale industriale e il capitale finanziario in favore di quest'ultimo. L'acutezza della crisi e la caduta dei prezzi rende il carico dei debiti insopportabile. Solo una riduzione generale dei debiti rende non necessari i fallimenti generalizzati. Ciò si attua attraverso l'inflazione che scarica l'eliminazione di questi debiti sui lavoratori, sulla piccola borghesia professionale e sul capitale finanziario.

La profondità della crisi si mostra anche nei brutali attacchi del capitale al livello di vita dei gruppi della piccola borghesia. Nonostante l'aumento dell'espropriazione della piccola borghesia, con la riduzione dell'approvvigionamento diretto al consumo dei capitalisti, la crisi continua ad approfondirsi rendendo inefficaci quei metodi capaci di mantenere nelle mani della classe capitalista la maggior parte del plusvalore. Ma dopo tutto, i gruppi della piccola borghesia potrebbero essere eliminati una volta sola e, anche se questo fosse tentato, prima si innalzerebbe una forte opposizione contro la loro ulteriore espropriazione per il fatto che la continuazione del dominio della classe capitalista dipende dalla loro esistenza. In contraddizione con gli strenui sforzi per eliminare le spese per le attività non produttive, queste aumentano. Negli USA, l'aumento della tassazione è stato più veloce di quello del reddito nazionale.

L'aumento dell'impoverimento causa l'aumento delle spese per l'assistenza, l'aumento delle spese finalizzate alle repressioni violente delle rivolte e ai disegni imperialisti.

Nella crisi attuale una caduta della rendita fondiaria "ha in una certa misura attenuato la caduta del saggio del profitto" ma al costo di un aumento della minaccia di una rivolta agraria. Come fatto di autoconservazione, per la classe capitalista è stato necessario controbilanciare queste tendenze a proprio favore con piani di assegnazione delle terre, con tariffe agrarie protettive, con sussidi ai prezzi, ecc. Dalla diminuzione dell'affitto della terra non ci si può aspettare per molto tempo un sufficiente aumento del profitto.

Perciò, in questa crisi, tutte le forze che operano per il suo superamento o sono neutralizzate o sono divenute insufficienti. Ciò si riferisce anche ai mezzi imperialisti più efficaci per la ripresa, l'esportazione di capitali.

Durante l'ultimo anno non c'è stato praticamente capitale esportato dagli USA. La situazione è simile negli altri paesi imperialisti. Questo ha acutizzato tremendamente la lotta per competere sul mercato mondiale. Negli USA, il profitto che rifluisce dal capitale precedentemente esportato, sotto forma di interesse sugli investimenti esteri, non può essere investito né qui, né all'estero. Contemporaneamente gli USA, obbligando le nazioni debitrici ad acquistare fuori dal loro mercato i mezzi di produzione, rendono loro impossibile il pagamento degli interessi. Per esse diviene impossibile anche comprare materie prime e generi alimentari dato che non sono in grado di vendere i loro mezzi di produzione per pagare le importazioni. La fine di questo processo deve essere sia una irrazionale, insolubile crisi, sia un nuovo modello a scala mondiale.

La legge dell'accumulazione è la legge del crollo del capitalismo. Il crollo è ritardato dalle sue controtendenze finché queste si esauriscono o diventano inadeguate di fronte alla crescita dell'accumulazione del capitale. Ma il capitalismo non crolla automaticamente: benché condizionato, il fattore dell'azione umana è potente. La crisi mortale del capitalismo non significa che il sistema si suicida ma che la lotta di classe assume forme che devono condurre al rovesciamento del sistema. Come Lenin ha detto, non c'è situazione impossibile per il capitalismo: dipende dai lavoratori quanto a lungo esso è in grado di sopravvivere a se stesso. Nel Manifesto del Partito Comunista risuona l'alternativa: “Comunismo o barbarie?”

Oggi, la metà dei lavoratori nei grandi paesi industriali sono disoccupati e l'enorme aumento dello sfruttamento non compensa il numero più basso di lavoratori occupati; tuttavia non c'è altra strada per il capitalismo che quella dei continui attacchi ai lavoratori. Per questo, secondo Marx, la conseguenza ultima e più importante dell'accumulazione capitalistica e la ragione ultima di ogni crisi reale è la povertà e la miseria di larghe masse di uomini in contraddizione.

In tali condizioni la borghesia non può dominare più a lungo dato che, come il Manifesto del Partito Comunista indica:

Essa non è in grado di governare perché è incapace di assicurare un'esistenza ai suoi schiavi all'interno della loro schiavitù, perché essa non può evitare di lasciarli sprofondare a un tale stato che essa deve nutrirli invece di essere nutrita da loro.

L'analisi dell'accumulazione capitalistica si conclude come Marx ha scritto in una lettera ad Engels:

Nella lotta di classe come in un finale in cui viene trovata la soluzione dell'intera vicenda.

Nella fase dell'accumulazione in cui l'ulteriore esistenza del sistema è basata solo sull'impoverimento assoluto dei lavoratori, la lotta di classe viene trasformata. Da una lotta per il salario, per le condizioni di lavoro e d'orario o per i sussidi, essa diviene, pur combattendo anche per queste cose, una lotta per il rovesciamento del sistema di produzione capitalistico, una lotta per la rivoluzione proletaria.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.