I tardi epigoni

“Chierici” che han sempre tradito

È un mondo strano questo dei chierici dell'intellettualismo che vorrebbe essere il mondo dello spirito, della dottrina e della sensibilità estetica, ma che visto in termini di socialità e di politica è il più delle volte un povero e piccolo mondo di invertebrati e come tali costituzionalmente forniti di intelligente e inesauribile capacità di adattamento all'ambiente e alle mutevoli vicende del suo clima.

È proprio per questa particolare natura di sentirsi sicuri soltanto se appiccicati come parassiti sul corpo d'un organismo ben saldo e ben concimato, e al contrario di mostrarsi stranamente irrequieti, instabili e se occorre anche ribelli se dallo stesso organismo più non succhiano certezza di alimento e di stabilità di vita, che questi nostri chierici appaiono oggi come coloro che più e meglio sensibilizzano il marasma e lo smarrimento della nostra borghesia.

Non li abbiamo forse visti, “fascia littoria” e “mistica fascista” trepidi al gesto mussoliniano verso il mare nostrum e le conquiste d'oltre questo mare, declamanti la fortuna d'un ritornante impero e poi non li abbiamo forse visti, fiutato il declino del Duce, trasformarsi in arcieri impareggiabili nel lanciare ponti verso l'antifascismo militante e particolarmente verso le più sicure milizie dell'antifascismo, quelle al seguito di Palmiro Togliatti?

Camminano ora sull'onda del neoumanesimo fecondante lo sforzo proletario proteso alla ricostruzione nazionale; incarnano le molteplici istanze del realismo socialista in arte come in filosofia, come in politica e poi... ecco il crollo di questo mondo di cartapesta fatto di “partigiani della pace”, di raccolta di firme e di felicità sovietiche; muore Stalin, ecco il discorso di Kruscev, ecco le rivolte in serie di nuovi “Spartaco” da Vorkuta a Berlino Est, da Poznam all'Ungheria dove l'azione dei carri armati sovietici aveva distrutto nelle strade di Budapest e nei maggiori distretti industriali e minerari dell'Ungheria i fortilizi del proletariato insorto.

I chierici fiutano il mare procelloso, il vento infido e drizzano la barca del loro ingegno verso lidi più sicuri e spiagge più assolate.

Danno ogni volta l'impressione di essere sospinti nel loro operare da ragioni ideali ma ogni volta obbediscono al richiamo del tornaconto individuale che non appare mai nel suo vero volto di grettezza ma in termini ora di crisi spirituale ora della personalità umana offesa, la loro personalità.

Ma se questa è la malinconica constatazione che denuda e avvilisce più generazioni di scrittori e di artisti che sono pur sempre la più alta espressione di questo mondo della cultura e dei suoi valori umani, tuttavia non tutti quelli che sono apparsi o appaiono come veri trasfughi della borghesia, non tutti diciamo, hanno ripassato a ritroso il solco della divisione di classe.

Ma perché il trasfuga della borghesia passato dalla parte del proletariato sia considerato sulla linea storica della rivoluzione socialista bisogna che si svesta della presunzione di portare lui, in nome della dottrina, delle più recenti formulazioni teoriche di filosofia e di economia, in nome degli assoluti della tecnica espressa dalla seconda rivoluzione industriale e della nuova fase storica aperta dall'epoca nucleare, e il dispositivo prefabbricato di un nuovo tipo di rivoluzione, un rinnovato neoumanesimo che assicuri all'uomo un rinascimento socialista senza scosse, senza sangue, senza barricate; una rivoluzione dello spirito che releghi in soffitta Marx e Lenin e con loro tutto l'armamentario del quarantottismo utopistico e barricadiero.

L'intellettuale diverrà elemento di classe nella misura che si sentirà operaio a fianco dell'operaio, militante del partito proletario animato dalle stesse ragioni ideali e capacità di lotta e di sacrificio che lo accomunano a tutti i combattenti della stessa milizia rivoluzionaria, in una parola nella misura che sentirà la sua coscienza all'unisono con la coscienza collettiva del proletariato.

Tra tanti intellettuali che deragliano perché rimasti dei piccoli borghesi scontenti e arrivisti; tanti ne abbiamo che sono rimasti al loro posto.

E quando l'intellettuale che milita nel movimento operaio contribuisce con un apporto personale all'elaborazione della dottrina di classe e alla conquista di nuovi spazi alla sua diffusione, ciò va inteso nel senso che egli non si limita ad esprimere una esigenza che gli è propria ma riflette nello strumento della sua cultura e d'una indagine scientifica, un momento della scienza e coscienza collettiva delle grandi masse e con i dati dell'esperienza della lotta operaia sempre nuova, sempre rinnovantesi, arricchisce e affina e perfeziona la teoria rivoluzionaria.

A questa sola condizione l'intellettuale rivoluzionario risponde alla sua funzione ed esprime pur con apporto singolo, le istanze della classe operaia che per ciò stesso è diventata la sua classe di elezione, la matrice ideale della sua coscienza d'uomo, della sua dottrina, della sua stessa vita.

A questa sola condizione si può parlare dell'intellettuale che per la causa del socialismo ha disertato la sua classe d'origine per sentirsi finalmente libero dai lacci del mondo borghese, come del sale che saporisce la vita quale che sia il terreno del suo svolgimento.

E questo ragionamento vale non soltanto per i sommi che hanno dato alla causa del proletariato tutta una vita dedicata allo studio dei fenomeni del capitalismo moderno ed alle lotte del lavoro da Marx a Lenin, da Engels a Trotsky, ma anche per quell'esercito di intellettuali che hanno rotto con la borghesia ed hanno portato il loro contributo modesto, disinteressato e per lo più anonimo alla stessa causa.

C'è anche l'operaio-intellettuale che dopo una dura giornata di lavoro nell'officina, negli uffici o nei campi vuol rintracciare nei libri, nelle riviste, nei saggi di varia cultura una ragione ideale, un indirizzo, una previsione teorica, una disciplina metodologica che possa illuminare quel particolare problema pratico, che confermi l'esattezza o meno d'una esperienza, dia la risposta a istanze e precisi il filo conduttore tra teoria e pratica, tra il mondo reale e mutevole della determinazione e il mondo riflesso della giustificazione teorica.

Si tratta in genere di modesti compagni di lavoro che quando si rivelano al compagno che gli vive accanto gli aprono cuore e intelligenza e lo aiutano a risollevarsi dalla fatica e dalla sofferenza comuni ad entrambi per fissare insieme problemi che sono propri di tutti coloro che vivono la stessa quotidiana fatica, la stessa quotidiana sofferenza; per aprire insieme orizzonti di comprensioni nuove e sentire nella sua interezza la loro vera e viva personalità di classe che ora finalmente sa e perciò vuole e osa. In questi casi gli intellettuali, quale che sia la loro provenienza sociale, possono essere il sale quotidiano della rivoluzione. Non intellettuali per il proletariato ma del proletariato, non penna al servizio della propria ambizione per esaltare i regimi ma strumento, come la zappa per il contadino, come il tornio per il metallurgico, perché anche lo scrittore, il poeta, lo scienziato, non dispongono come vogliono del mezzo o strumento della loro fatica quotidiana, ciò che indica chiaramente lo stato di soggezione e di sfruttamento a cui l'arte e la scienza sono di fatto sottoposti.

L'intellettuale “organico” idealizzato da Gramsci, imposto nella conduzione strutturale del partito e nell'indirizzo della sua politica, è visto come mediatore e nel contempo artefice indispensabile d'ogni passaggio da una scissione all'altra nel corpo sociale e politico della rivoluzione passiva, divenuto prima organizzatore politico nell'apparato di partito o degli organismi collaterali e dal suo operare si fa dipendere la crescita della sua influenza e conseguente dilatazione del consenso elettorale.

In questa fase gli intellettuali organici, pervenuti ai vertici del partito aggiungono alla funzione di dirigenza quella del dirigente nell'apparato dello stato. Lo sviluppo ulteriore di questo processo darà agli intellettuali lo stesso compito che avevano già avuto nei quadri del partito, di amministrare nella sua funzione di cerniera, mediando il passaggio dal regressivo al progressivo, osmosi inevitabile che porterà ad assumere in proprio il compito costituzionalmente repressivo che si riduce all'egemonia d'una élite esercitata in nome d'una classe, quella proletaria, sempre più subalterna entro le ferree maglie del potere capitalista.

E il consenso delle grandi masse? Se tradotto in termini di consenso elettorale con fine di allargare l'influenza sulla base quantitativa di voti nell'ambito del parlamentarismo e del potere, è prassi della più vieta e sporca democrazia parlamentare quindi soggetta ai mutevoli umori e suggestioni che percorrono l'intero corpo elettorale anche dei paesi di più progredita e di più avanzata democrazia parlamentare sotto la spinta ora emotiva, ora clientelare, alimentata sempre e abbondantemente dal prepotere del capitale finanziario. Le forze politiche, quali che siano le loro bandiere, installate nell'orbita del potere anche se all'opposizione, obbediscono alla logica dei regimi parlamentari la cui maggiore preoccupazione e prospettiva è quella di curare, mantenere e possibilmente aumentare la propria base elettorale, ciò che autorizza il termine spregiativo di cretinismo parlamentare e accomuna la pratica del PCI nella fase della sua maturità.

Se tradotto in termini di classe il consenso valido è quello del proletariato, elemento attivo e determinante, nella misura che dal suo seno si sprigionino teoria, pratica ed organizzazione condensate nel suo partito, lo strumento idoneo a fare della violenza rivoluzionaria di tutta la classe operaia, la vera e salutare levatrice della storia. In conclusione due strade diverse e avverse: l'una, quella indicata da Gramsci che non va oltre la rivoluzione passiva e la guerra di posizione e l'altra, indicata dal marxismo scientifico che chiuderà l'epoca storica del capitalismo con la rivoluzione attiva e la guerra di movimento.

Empirismo e prevaricazione

Che significa “applicare Marx”? È il titolo di un emblematico articolo dovuto alla penna di Umberto Cerroni. Rispondiamo con un lapalissiano aforisma: applicare Marx è proprio di chi è marxista tanto sul piano della teoria che su quello della sua applicazione pratica; chi non applica Marx non è marxista e non può né deve definirsi tale. Tuttavia è doveroso chiedersi perché e soprattutto per chi un tale e smaccato processo di contaminazione del marxismo è portato a questo punto, ad un grado di patologia politica. È la conseguenza di una disinformazione o di una infrenabile smania intellettualistica di cavalcare il paradossale per fare sfoggio di originalità, bruciando le tappe d'una lenta, difficile conquista d'una dottrina, quella marxista, la sola che abbia usato il bisturi della conoscenza critica nelle carni e nelle strutture ossee dell'economia capitalista, dal suo sorgere all'attuale sua decadenza? Oppure obbedisce all'imperativo che incombe sulla situazione, quello cioè di slegare da ogni presupposto teorico la linea politica di partito, il PCI, preso nei tentacoli della piovra capitalista da cui non può né vuole liberarsi?

E l'uno e l'altro insieme e l'autore, non volendo, dà la prova della verità marxista contro cui si spunta il tentativo revisionista che vuole che non esista unità di teoria e pratica, dandosi la zappa sui piedi quando si serve proprio della teoria per avallare la legittimità d'una prassi politica in atto, quella del compromesso storico che si vorrebbe non deviante dalla concezione marxista basata sul rapporto dialettico tra teoria e pratica da cui scaturisce quell'unità che si vorrebbe negare. Negando questo rapporto di unità, che è rapporto di interdipendenza tra i due termini, si tende a spezzare il filo conduttore dell'interpretazione dialettica della storia, per aprire la strada ad una valutazione del tutto empirica, e di un rozzo materialismo che porta dritto dritto ad una concezione riformista della storia.

Non si applica Marx? Ma neppure Gramsci! Messi sulla via della ricomposizione del marxismo, del suo atteggiamento e adeguamento alle esigenze del momento storico, a prescindere da ogni presupposto teorico, i discepoli di Gramsci procedono in senso contrario non solo nei riguardi del marxismo ma dello stesso insegnamento di Gramsci (per ironia della storia Umberto Cerroni è anche membro del Comitato direttivo dell'Istituto Gramsci che ha come compito quello di difendere e divulgare il pensiero del maestro in corrispondenza con l'applicazione fattane nel partito, nel parlamento e tra le masse operaie).

Vediamone i termini precisi. Scrive Cerroni, ritornando sul problema del rapporto tra politica e teoria e specificamente tra politica comunista e teoria marxista:

che è impossibile di considerare il marxismo come apparato dottrinario del quale si è tenuti puramente e semplicemente a fare “applicazione”. (1)

Posto così il problema, che spezza il nesso tra teoria e prassi politica, si svuotano d'ogni serio contenuto e credibilità le due formulazioni nodali in cui si condensa tutta la tematica gramsciana: “blocco storico” e “storicismo assoluto” oltre ciò, quello che resta del pensiero di Gramsci si riduce a ben poca cosa. Contro il riemergere di certo empirismo di origine positivista lo stesso Gramsci avrebbe reagito ammonendo con durezza:

Insomma deve sempre vigere il principio che le idee non nascono da altre idee, che le filosofie non sono partorite da altre filosofie ma che esse sono espressioni sempre rinnovate dello stesso sviluppo storico reale [...] Se ne deduce [...] che ogni verità [...], se non è esprimibile in lingue particolari, è un'espressione bizantina e scolastica. (2)

Non si perviene al culmine del suo storicismo assoluto senza l'unità di storia e filosofia. Per questa unità "storia e filosofia sono inscindibili, formano blocco".

A che cosa si ridurrebbe allora la creazione del blocco storico, sempre nel linguaggio gramsciano e nella sua visione immanentistica, senza una adesione organica di componenti diversi, realizzazione d'una vita di insieme che “solo è forza sociale”?

Si lega a questa impostazione l'altra “scoperta” teorica, tipica d'ogni revisionismo nell'arco storico del socialismo, da quello utopistico a quello scientifico, che afferma:

l'impossibilità di considerare il marxismo come un qualsiasi apparato dottrinario del quale si è tenuti puramente e semplicemente a fare “applicazione”. Intanto non pare che tutto nel materialismo sia pacifico, né che tutto sia concluso. Abbiamo molte e difformi interpretazioni del pensiero di Marx, che si sono sovrapposte per stratificazione in epoche diverse e sotto stimoli pratici diversi. (1)

È tipico della tendenza più marcata all'eclettismo, che contraddistingue la cultura oggi dominante, che guarda al contingente, al vario e al molteplice che caratterizzano la democrazia progressiva e pluralistica, il non saper distinguere in un quadro dottrinario ciò che vi è essenziale e ciò che è del tutto secondario e marginale nella sua traduzione in termini di pratica politica.

In questi neorevisionisti, tipo Cerroni, l'empiria arriva fino a porre sullo stesso piano di esperienza rivoluzionaria episodi che non hanno alcuna matrice di classe e alcun obiettivo rivoluzionario.

E un ritorno alla concezione prioritaria delle nazioni in una fase in cui economia e politica tendono al dominio del mondo, al superamento della politica che non va oltre l'uscio di casa. Si ha il particolare al posto dell'universale, un cammino a ritroso nella storia delle cose e degli uomini. Si rifà, a dimostrazione del suo assunto, alle più grandi e originali realizzazioni del socialismo marxista la cui caratteristica comune è quella di “rompere con la tradizione della precedente pratica politica”. E un madornale errore storico e un saggio di infantilismo politico considerare come rivoluzionario e per di più legato alla tradizione teorico-politica del marxismo, lo svolgimento dei fatti verificatosi alla fine della guerra imperialista che, in quanto imperialista, imponeva una risistemazione d'un mondo sconvolto fatto a immagine e somiglianza delle forze e degli interessi del capitale, cioè del capitale finanziario, che era stato forza motrice della guerra e doveva, per forza di cose, continuare ad essere forza motrice della pace. L'antidoto ai principi e alla prassi politica della dittatura non poteva non essere che il principio della democrazia parlamentare, la faccia nuova dello stesso dominio imperialista sotto l'egida delle grandi banche a raggio mondiale. Parlare di rivoluzione e di socialismo marxista riferendosi al secondo dopoguerra nella avanzata fase decadente del capitalismo, alle forme istituzionali, proprie del capitalismo di stato, è sognare ad occhi aperti, è mistificare la realtà. Le rivoluzioni cinese, iugoslava e cubana all'esame della più elementare critica marxista non hanno né la struttura, né i caratteri, né la ideologia che sono storicamente propri d'una rivoluzione iniziata e portata avanti dal proletariato, non inquinato dal nazionalismo e dal prevalere di stratificazioni subalterne mediate dagli intellettuali.

Punctum saliens del ragionamento del Cerroni è l'accenno, rivelatore di tutta una tematica socialdemocratica, alla Rivoluzione d'Ottobre,

la quale si sarebbe compiuta “violando” due principi consolidati della tradizione “marxista”; quello che la rivoluzione operaia può avvenire soltanto nei paesi capitalisti evoluti e quello che una società socialista non può essere ipotizzata in paesi in cui il capitalismo non si è ancora pienamente sviluppato. (1)

Così si da palesemente ragione a Kautsky contro Lenin per un ritorno nostalgico alla ideologia e alla pratica politica prevalente nella II Internazionale; in una parola è colpa del proletariato russo di essere insorto e di avere prematuramente spazzato via il potere del capitalismo russo.

E allora c'è da chiedersi se i fondamenti teorici, di tattica e strategia rivoluzionaria che Marx ha preso dalla Comune di Parigi e Lenin dalla rivoluzione del 1905 e su cui è sorto il Partito Comunista d'Italia a Livorno; se gli scritti di Lenin l'Imperialismo e Stato e Rivoluzione, se la teoria delle svolte brusche e dell'attacco all'anello più debole dello schieramento imperialista sono da considerarsi come effetto d'una improvvisa e isterica allucinazione o d'un colossale imbroglio ordito dalla diabolica mente di combattenti della statura di Lenin e di Trotsky. È pur vero che in epoca di democrazia parlamentare anche e soprattutto i pigmei fanno storia.

In questo insensato furore iconoclasta non si risparmia neppure Gramsci.

L'essenziale del suo insegnamento, quello di Gramsci, non sta nella sua proposta politica concreta (e quale, poi? [...] il moderno principe o la democrazia provvisoria di un'Assemblea Costituente?) ma invece nell'originale analisi complessiva che egli dà della società staliniana [...] per un'opera di riambientazione storico-nazionale della teoria generale del capitalismo come già aveva fatto Lenin (siamo noi che riassumiamo il pensiero dell'autore con le sue stesse parole) che poté concepire la possibilità, sconosciuta a Marx, di una egemonia operaia della rivoluzione borghese in un Paese arretrato (contadino)!, ripensamento globale e analitico della storia del proprio Paese e sua rifusione critica nella prospettiva dell'emancipazione dei lavoratori. (1)

In una parola svuota, entro una parentesi di tre righe, il contenuto pratico-politico della sua peculiare essenzialità per ridurre la complessa, anche se contraddittoria, tematica gramsciana ad una riambientazione storico-nazionale.

E poiché ogni esame critico deve comunque arrivare ad una conclusione, il tentato accostamento di Gramsci a Lenin, che si dice costretti entrambi a pensare ed operare in modo diverso dal modello ideale scaturito dalla dottrina di Marx, i dati reali e inconfutabili della storia dicono che il partito di Lenin ha indicato alle masse lavoratrici la via dell'insurrezione armata solo quando ha ritenuto risolta l'omogeneità degli operai, soldati e contadiname povero nei Consigli per l'esercizio della dittatura (sintesi di teoria e pratica offerta dalla Comune di Parigi, 1871, e dalla Rivoluzione russa del 1905).

È la strada maestra che può ripugnare agli intellettuali del PCI, ma che rimane la sola possibile e che si conclude con la catastrofica fine del capitalismo imperialista. Il “modo diverso” di Gramsci non ha conclusioni perché tutto il suo mondo è una serie ininterrotta di “modi diversi” e forse la vera grandezza della sua opera sta in questo sforzo di ricerca di un “modo” che gli è sempre sfuggito, nell'ansia, mai placata, del cambiamento.

Allora in che cosa consiste, per Cerroni, Gramsci? Nel battere una strada completamente diversa da quella indicata da Marx nell'avere abbozzato la diagnosi

di una società capitalista italiana nella cui storia vivono stratificati e intrecciati depositi culturali molto diversi e nella quale assume un peculiare significato politico proprio la rivoluzione intellettuale e cioè la capacità di mediare e trasvalutare tutte quelle tradizioni la cui astrattezza fece, sì, la povertà politica dello stato ma anche la potenziale universalità della coscienza civile. (1)

Al limite la genialità di Gramsci consisterebbe in un'opera di studioso che intravede il filo conduttore della storia e lo segue in un processo di stratificazione e di intrecciati depositi culturali che dovrebbero costituire il supporto fondamentale e politico ad una supposta rivoluzione intellettuale di cui non si precisano i contorni ideali, il modo del suo realizzarsi sul piano concreto delle forme economiche e politiche e le forze sociali (forse anche quelle intellettuali?) che ne sarebbero le protagoniste-fantasma. In tutto ciò è evidente il tentativo di piegare e adattare Gramsci e la sua opera più di intellettuale che di politico nel letto angusto del revisionismo controrivoluzionario quale è oggi in atto nel partito che fu anche di Gramsci per quel tanto almeno che gli è dovuto come matrice ideale e politica del “partito nuovo” che si rifà al suo nome e al suo insegnamento. È proprio vero che i tardi discepoli hanno superato anche con la prevaricazione, la lezione appresa. E si precisano fino al loro compimento le responsabilità a cui Gramsci non si può sottrarre per aver dato vita ad un indirizzo teorico-politico che doveva portare il partito di Livorno con tutte le sue implicazioni di teoria e di pratica informate al marxismo rivoluzionario dal terreno originario della classe proletaria a quelle dell'avversario di classe, del capitalismo. Il centro del partito nato a Livorno poteva essere definito con acredine da Togliatti una fureria ma, aggiungiamo noi, fatta di operosità rigidamente marxista e leninista, nel clima formativo della Rivoluzione d'Ottobre che si trasformerà, con il congresso di Lione, in una fucina di degenerazione dottrinaria e politica che culminerà nel compromesso storico che ha per obiettivo fondamentale l'alleanza con forze che hanno per compito, questo sì, storico, di salvare il sistema di produzione basato sullo sfruttamento della forza lavoro contro cui si è battuto e si batte il socialismo tanto nella buona che nella cattiva stagione.

Questo compendio di una stagione politica di mezzo secolo della vita politica italiana non soddisfa un altro intellettuale, Alberto Asor Rosa, l'uomo dalle molte e spericolate esperienze politiche che scrive:

la ripresa della linea Labriola-Croce-Gramsci [in cui, si noti bene, Gramsci recita sempre più la parte del prosecutore, del “disviluppatore” degli elementi ideologici, che gli altri due pensatori avevano in realtà fondato] serve oggi tutt'al più per capire la nostra storia [quella del PCI] e, dunque, quel che siamo [fatto, certo, sempre e assai importante ma, aggiungiamo noi, non più sufficiente] per definire i termini di un rapporto tra il partito e i giovani in una fase di profondo cambiamento, da qui la ricerca di una diversa identità, d'una terza strada che si situi tra il radicalismo (settarismo, massimalismo, estremismo) e il moderatismo, sia pure di ispirazione riformista. (3)

Se è in crisi la linea Labriola-Croce-Gramsci, farsa teorica della politica picista, quale diversa identità dare al partito e quale terza strada da imboccare da un partito preso dalla frenesia ossessiva del gioco parlamentare per entrare nell'area del potere e pronto ad allearsi con chicchessia, fosse anche il diavolo, politicamente vestito di nero, il più qualificato per la difesa, anche armata, delle attuali istituzioni del sistema capitalista?

Basta guardarsi intorno [conclude con una sorta di timorosa prudenza, l'ex esponente operaista, rientrato poi nell'ovile con la elegante levità e disinvoltura, tipica dell'intellettuale che si diverte a giocherellare con le innovazioni da apportare al marxismo che considera ora troppo riformista, ora troppo rivoluzionario a seconda del variare delle situazioni obiettive] per rendersi conto che cresce sempre più a livello di massa (al di là delle distorsioni operate dai piccoli gruppi) il bisogno di capire quale sia la strada che conduce da una percezione puramente materiale dell'esistenza a un progetto di liberazione valido per tutti, o almeno per la parte più grande possibile.
Certamente esiste in questo quadro un problema di riaffermazione e di ridefinizione dell'identità della classe operaia come soggetto fondamentale della lotta politica e ideale del nostro Paese. (3)

Si tratta, è vero, di prese di coscienza ancora del tutto individuali o di gruppo, che esprimono il disagio di militanti che hanno il coraggio di vedere, anche se lo dicono tra i denti, o per semplici e velati accenni, l'esistenza e la vastità della crisi di un quadro teorico e politico, quello del gramscismo, tuttora valido per chi vuole inserire il partito e le masse inconsapevoli che ancora subiscono la suggestione in quanto è pur sempre una grande forza saldamente organizzata, dalla base elettorale, al parlamento e ai maggiori centri di potere periferico, anche se per ora in posizione subalterna, nelle strutture essenziali del sistema capitalistico e concrescere con il loro eventuale rafforzamento fino a divenirne parte integrante e dirigente. Dirigente cioè di un capitalismo in fase putrescente ma tuttavia pur sempre capitalismo per chi vede la situazione in prospettiva e sa che non si esce dalla crisi che sta rodendo le basi del sistema vigente, se non superando dialetticamente le forze politiche che direttamente o indirettamente lo governano. E questo è il compito storico affidato al proletariato rivoluzionario. Se il gramscismo è stato nella sua essenza un esperimento in corpore vili finito in una pratica obiettivamente socialdemocratica, il compromesso storico di berlingueriana memoria, portato alle sue estreme conseguenze, assicura la continuità del potere con i metodi di una burocrazia manageriana di cui gli attuali dirigenti picisti sono maestri impareggiabili.

Sintomi premonitori non mancano: usura del potere centrale e periferico soprattutto negli enti locali, comune, provincia e regione; crescita dell'indigenza generalizzata e della disoccupazione giovanile a cui fa riscontro lo stato fallimentare delle finanze locali lasciato in eredità dalle precedenti amministrazioni democristiane che hanno saputo prosciugare tempestivamente le casse a beneficio del loro partito quando non addirittura della propria personale baronia economico-politica col sostegno di validi e:sicuri nuclei clientelari.

Nessuno può garantire un crescendo nel consenso del corpo elettorale fino al raggiungimento del 50 + 1 e prossime consultazioni elettorali per il rinnovo delle Camere potranno dimostrare al partito della “rivoluzione intellettuale” che il consenso è per sua natura fragile, mobile, temporaneo e sempre aperto alle subitanee insoddisfazioni e alle insospettate mutazioni di umore e di orientamento.

Lo spostamento degli intellettuali? A questo problema Gramsci aveva promosso il meglio dei suoi studi e delle sue speranze politiche ma la storia doveva smentirlo. Nel cuore di una crisi economica senza uscita il ruolo degli intellettuali non è stato quello di forza illuminante di una nuova fase della storia del mondo ma quello di aggregarsi, in quanto intellettuali, al potere, portatori d'una cultura compenetrata di idealismo misticizzante e di rozzo empirismo manageriale che fa da cordone ombelicale tra i due maggiori partiti, la Democrazia Cristiana e il cosiddetto eurocomunismo del PCI, le due forze potenziali in funzione egemonica nell'ipotetico compromesso storico, valide forse per amministrare l'agonia del capitalismo, in nessun caso la fase montante dell'azione di classe del proletariato rivoluzionario il cui compito sarà quello di spazzarli via dalla scena politica inesorabilmente e definitivamente perché sia possibile la realizzazione di una società socialista.

In questo bailamme di intellettuali e di varie culture, intenti tutti ad estremizzare a destra e a sinistra dello schieramento politico internazionale del proletariato, pochi hanno preso la strada dell'approfondimento e della divulgazione della cultura di classe del proletariato con gli strumenti dati dalla dottrina marxista, la sola che riempia di se, del suo insegnamento tutto l'arco storico del capitalismo.

Ancora una volta gli intellettuali e i problemi della cultura sono allo sbando e per il loro destino è sempre valida l'indicazione marxista che prevede le classi medie, catapultate dalla decomposizione delle strutture capitaliste per l'urto violento delle contraddizioni interne, costrette ad essere attratte caoticamente dai due poli opposti del conflitto di classe, dalla conservazione da una parte e dalla rivoluzione dall'altra.

È questa realtà che ha posto in crisi il gramscismo; lo prova ulteriormente, in modo emblematico, la presunzione di Cerroni di non applicare Marx perché, è detto nel sottotitolo dell'articolo citato, a mo' di conclusione, "l'esperienza delle rivoluzioni socialiste [è lecito chiedersi, quali?, n.d.a.] dimostra l'impossibilità di una interpretazione dottrinaria del pensiero dei classici".

Alla presunzione di Cerroni fa seguito quella di Asor Rosa teso alla ricerca di una nuova identità e di una terza strada come se ciò fosse possibile senza il crollo del partito stesso. Che nessuno dell'apparato del partito sia disposto a morire per suicidio, è per lo meno ovvio.

E allora quale la vera strada? Quella che ci viene via via precisata, più che dalle parole, dette o scritte, dal presente cupo disfacimento del sistema dominante, da cui solo l'intervento d'una chirurgia rivoluzionaria potrà liberare l'umanità.

(1) Cerroni, l'Unità del 14 gennaio 1977.

(2) Gramsci, Materialismo Storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino 1948.

(3) Asor Rosa, l'Unità del 19 aprile 1977.