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Home ›Imola e Livorno: la fase della costruzione del partito
Imola e Livorno
Allora la frazione astensionista del Partito Socialista era indubbiamente, data la forte caratterizzazione impressa alla sua piattaforma teorica e la efficiente ramificazione dei suoi gruppi su scala nazionale, l'organizzazione più viva e operante in opposizione alla linea politica della Direzione del Partito e poteva già considerarsi, in embrione, un partito nel partito. Tuttavia Bordiga, nel momento più acuto della esperienza del primo stato proletario uscito dalla rivoluzione d'ottobre, se da un lato aveva sentito più d'ogni altro la necessità della presenza d'un partito concretamente rivoluzionario, dall'altro aveva chiara la coscienza dei limiti della possibilità di affermazione, della frazione astensionistica come partito della classe operaia. Anche se si fosse avuta la scissione al Congresso di Bologna (1919) la frazione astensionistica come tale non avrebbe obiettivamente potuto dar corpo ad un partito adeguato alla situazione e ai compiti della rivoluzione incombente. Se alla frazione astensionista fosse stata attribuita questa possibilità di affermazione il non aver scissionato a Bologna sarebbe stato errore di tali proporzioni da compromettere per sempre l'impostazione teorica della frazione la sua organizzazione e il nome del suo maggiore animatore.
Ecco perché Imola è stato praticamente il convegno del compromesso, una anticipazione pratica del “blocco storico” gramsciano in funzione delle forze di sinistra nel partito socialista, un centro insomma, di convergenze, di correnti di formazioni diverse e tra loro in contrasto su molti problemi anche d'importanza fondamentale.
Questa convergenza di forze, per la verità, non ebbe come centro la frazione astensionista anche se questa rappresentava il nucleo di maggiore rilievo, ma il pensiero di Lenin, il fascino della rivoluzione d'ottobre e le esigenze organizzative dell'Internazionale Comunista.
Del resto tutto ciò avveniva non in contrasto col pensiero e le posizioni della frazione astensionista ma in perfetta armonia coi suoi stessi deliberati; si ricordi in proposito la mozione conclusiva della Conferenza Nazionale della frazione tenutasi a Firenze (8-9 maggio 1920) accapo 3, che dava mandato al Comitato Centrale:
di convocare immediatamente dopo il congresso internazionale, il congresso costituente del Partito Comunista, invitando ad aderirvi tutti i gruppi che sono sul terreno del programma comunista, dentro e fuori del Partito Socialista Italiano.
Soltanto che Imola e Livorno daranno poco dopo a tale direttiva tattica una traduzione teorico-organizzativa assai peggiorata.
Ecco i gruppi e le correnti che aderiranno in condizioni di parità al Congresso di Imola e formeranno l'ossatura del partito di Livorno.
- La frazione astensionista di cui abbiamo fatto cenno più sopra e che merita una trattazione a parte per quel che ha rappresentato di positivo in questa fase di preparazione del partito e per quel che ha rappresentato di negativo per il suo eclettismo tanto nella formulazione come nell'applicazione sul piano della politica attiva delle sue tesi sull'astensionismo.
Nella frase pre-Livorno, il problema essenziale era quello della formazione del partito rivoluzionario e non quello dell'astensionismo, e non era storicamente possibile costituire tale partito su una base programmatica in cui l'ideologia astensionista avesse una parte preminente. - II gruppo dell'Ordine Nuovo. Per la natura della sua composizione sociale e soprattutto intellettuale questo gruppo appariva come una anticipazione della tendenza, che poi si farà strada, che attribuisce agli intellettuali il ruolo primordiale o in connessione a quello giocato dagli operai tanto nell'ambito della fabbrica come nel più vasto quadro dell'azione rivoluzionaria.
Influenzato dal neoidealismo allora prevalente nel mondo della cultura borghese, il gruppo tendeva al marxismo, ma ad un marxismo filtrato nel setaccio dell'idealismo in contrasto con gli schemi tradizionali del socialismo e della stessa sinistra socialista.
Infatti mentre la frazione di sinistra pensava che la rivoluzione è subordinata alla esistenza del partito e mira alla conquista dei suoi organi dirigenti per imprimere loro una volontà e una direzione rivoluzionaria seguendo in ciò la linea tradizionale del partito di classe, gli ordinovisti credevano meno a questo ruolo fondamentale del partito e spostavano la loro attenzione verso la fabbrica capitalista che consideravano:
come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come “territorio nazionale” dell'antagonismo operaio.
Per questi compagni, a differenza del partito e del sindacato, il Consiglio:
si sviluppa non aritmeticamente, ma morfologicamente e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell'apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto.
Gramsci, L'Ordine Nuovo, n. 18 del settembre 1919
L'urgere di questa nuova fioritura di poteri [l'organizzazione dei consigli - nda] che sale irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l'urto violento delle due classi e l'affermarsi della dittatura proletaria. Se non si gettano le basi del processo rivoluzionario nell'intimità della vita produttiva, la rivoluzione rimarrà uno sterile appello alla volontà [...].
Il contrasto tra le due correnti si precisa perciò nell'idea centrale partito e Consigli; il partito trova il suo ambiente storico nella struttura territoriale e negli organismi politico-amministrativi dati dallo sviluppo del capitalismo, mentre i Consigli incarnano lo slancio vitale, il ritmo di progresso della società comunista; nel partito si condensa la forma più alta della coscienza del proletariato, la sua dottrina e la teoria della sua rivoluzione di classe, mentre nei Consigli la solidarietà operaia:
è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale [...], è un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che [...] afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia.
Gramsci, L'Ordine Nuovo, n. 21 ottobre 1919
Si può quindi concludere che queste due correnti, le maggiori che formarono il Partito Comunista, potevano avere in comune la visione dello sbocco finale dell'azione rivoluzionaria ma erano quanto mai lontane nei motivi originari, nei metodi e nel modo stesso di sentire il marxismo facendo gli uni professione di ortodossia e di integralismo, inclinando gli altri verso concezioni sindacaliste rivoluzionarie alla De Leon a cui si riallacciano oggi le tendenze operaiste.
La cerchia della confusione teorica e tattica dei gruppi che confluirono al Convegno di Imola si allargherebbe ulteriormente se prendessimo in esame correnti minori e adesioni individuali, dalla mozione-passerella di Graziadei-Marabini, al massimalismo elettoralistico dei molti deputati presenti o di aspiranti tali e alla adesione di giovani combattenti rivoluzionari saldamente ancorati al marxismo tuttavia non inquadrabili in nessuna particolare scuola o tendenza.
Bisognerà ritornare all'esperienza di Imola nel riproporre il problema della ricostruzione del partito là dove l'opportunismo parlamentare, la corruzione del carrierismo e il prevalere di interessi della classe avversa ne hanno spento il vigore della lotta, ne hanno offuscato gli obiettivi dopo averne corrotto il patrimonio ideale. Partendo da questa conoscenza critica si capirà il perché dei limiti, delle insufficienze e delle contraddizioni che accompagnarono la formazione del Partito Comunista d'Italia.
Noi rimaniamo del parere che più che agli accorgimenti organizzativi e alle disposizioni statutarie, oltre che al dissolvimento dei gruppi, in quanto gruppi, si debba porre l'accento sul dissolvimento delle loro ideologie per quel tanto che hanno in sé di estraneo al marxismo per trovare l'unità non solo negli aspetti del tutto formali dell'organizzazione (scioglimento dei gruppi, adesioni individuali, candidatura, ecc.) ma sull'adesione incondizionata e integrale ad una piattaforma teorico-pratica da cui scaturisca quella disciplina consapevole che cementa le forze, ne attenua progressivamente i contrasti e garantisce la continuità della lotta rivoluzionaria.
Il partito
Abbiamo già accennato al problema centrale del partito ma per ciò che concerne la corrente degli ordinovisti, creazione del tutto gramsciana, è doveroso aggiungere qualche considerazione che precisi di più il ruolo giocato da questa corrente negli anni '19 e '20 e la sua reale importanza.
Dopo la rivolta operaia di Torino del '17 contro la guerra e il crescente profondo disagio economico-sociale da questa imposto, che Gramsci considerava come validi tentativi di penetrazione nel dispositivo ancora saldo di difesa dell'avversario di classe e dopo soprattutto la fine disastrosa della lotta operaia scatenata con l'occupazione delle fabbriche con tutti i mezzi a sua disposizione meno quello d'una direzione a indirizzo rivoluzionario, finita con la capitolazione del sindacato e del PSI di fronte al governo di Giolitti, artefice impareggiabile di tutte le pastette di questo difficilissimo primo dopoguerra, riuscite soprattutto per la connivenza aperta o segreta del gruppo parlamentare socialista in cui imperava il riformismo turatiano, era ormai evidente, anche agli affetti da miopia cronica, che non esisteva una organizzazione del proletariato rivoluzionario che rispondesse, in toto, alle sue aspirazioni contingenti e tanto meno ai suoi compiti storici. Nella fase culmine del dopoguerra la rivoluzione proletaria non aveva avuto il suo partito e da questi una organizzazione e una direzione adeguate a tale prospettiva, né l'opposizione, del resto assai viva nel PSI, era in grado di sostituirlo in questo compito dato che i gruppi che facevano capo al Soviet di Napoli avevano esaurito la loro capacità d'iniziativa in una azione infeconda basata sull'astensionismo politicamente troppo unilaterale, angusto e scarsamente sentito dalle masse, e i gruppi torinesi degli ordinovisti, chiusi nella città della grande industria, erano caduti in una fase di scetticismo; falliti i Consigli nella grande prova come organi autosufficienti del proletariato, erano stati abituati a credere ancora, nonostante tutto, nel partito socialista e non nella necessità storica della formazione del partito rivoluzionario.
Soltanto dopo il Congresso di Bologna, troppo tardi ormai, si impose la necessità di unire le forze per la creazione del partito rivoluzionario.
Gramsci aveva già attenuato l'esclusivismo totalizzante dei Consigli e tornava a dare credito al Partito Socialista, come organo politico catalizzatore delle forze rivoluzionarie soprattutto dopo lo strepitoso successo elettorale del '19 che aveva portato alla camera una nutritissima schiera, almeno dal punto di vista del numero, di deputati socialisti.
Entrare nel processo produttivo capitalistico, soprattutto nelle strutture del settore più avanzato, quello della metallurgica, fattore determinante ed essenziale della produzione significava per lui entrare negli ingranaggi di tutto il sistema e quindi nel tessuto dello stato, da qui la visione d'una organizzazione dei Consigli connaturata con quella dello stato, non limitabile certamente al solo fattore produttivo.
Poi, indicato dal vertice moscovita, assurgerà alla funzione di dirigente del partito, ciò che determinerà una caduta di credibilità, di autorità e di prestigio dello stesso centro del partito, posto di fronte alla necessità di risolvere problemi di radicali trasformazioni strutturali e di allargamenti frontisti assai più grandi delle sue reali possibilità e per l'incapacità di valutare una realtà obiettiva di riflusso e di ritirata non solo delle masse operaie ma dello stesso partito, accecati dalla illusione di essere in fase di ascesa e di avere davanti a sé spazio sufficiente per farsi le ossa e divenire maggioranza di fatto. E la cecità politica è stata tale e tanta che allo scioglimento del partito imposto dalle leggi eccezionali, una caricatura di Ufficio primo, occhio sempre vigile su tutto e su tutti e strumento d'azione illegale, non è stato in grado di presentire nulla lasciando gli organismi centrali e periferici in balia dell'avversario di classe fino al punto che persino il capo del partito, Gramsci, cadesse nelle mani della sbirraglia fascista.
Errori di analisi della situazione, errori di prospettiva con conseguente sfascio della organizzazione è il punto terminale della curva della esperienza politica gramsciana. Esperienza che aveva preso inizio da una sua azione corrosiva contro la sinistra incentrata in un ripensamento critico sulla natura e sulle proporzioni del taglio operato a Livorno, che apriva così e ufficilamente la crisi nel partito con un aperto dissenso sulla tattica e strategia sui punti cioè fondamentali della politica su cui si era formato il partito, crisi che coverà fino all'esplosione del Comitato di Intesa.
A Livorno, secondo Gramsci, si era effettuato il taglio troppo a sinistra, e questa constatazione conteneva in sé la certezza e lo sviluppo inevitabile di un corso nuovo nella politica del partito da condurre senza indugio e con tutti i mezzi.
La caratterizzazione della posizione gramsciana non si ebbe come è noto né al Convegno di Imola, né a Livorno (1921) né al Congresso di Roma (1922) ma dopo l'esperienza russa e viennese. Tale premessa partiva da una valutazione della scissione di Livorno, considerata il “più grande trionfo della reazione” perché aveva significato "il distacco della maggioranza del proletariato italiano dall'Internazionale Comunista". (Gramsci La questione meridionale a cura di Franco De Felice e V. Parlato). Nell’Ordine Nuovo III serie n. 2 - 15 marzo 1924, Gramsci torna sull'argomento con un articolo Contro il pessimismo il cui contenuto ha tutta l'aria d'un accorato mea culpa in cui è evidente il senso di colpa per avere accettato supinamente la politica di sinistra, sostenuta con l'autorità e la competenza di Bordiga ma soprattutto vi domina l'intenzione di sferrare una prima bordata contro lo stesso Bordiga, che è quanto dire contro la “sinistra italiana” che rappresentava la stragrande maggioranza del partito.
Vi si legge:
II Congresso di Livorno, la scissione avvenuta al Congresso di Livorno, furono riallacciati al II Congresso, alle sue 21 condizioni, furono presentati come una conclusione necessaria delle deliberazioni “formali” del II Congresso.
Fu questo un errore e oggi possiamo valutarne tutta l'estensione per le conseguenze che esso ha avuto. In verità le deliberazioni del II Congresso erano l'interpretazione viva della situazione italiana, come di tutta la situazione mondiale ma noi, per una serie di ragioni, non muovemmo, per la nostra azione, da ciò che succedeva in Italia, dai fatti italiani che davano ragione al II Congresso, che erano una parte e delle più importanti della sostanza politica che animava le decisioni e le misure organizzative prese dal II Congresso: noi, però, ci limitammo a battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque noi avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati.
Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costruttivi del PSI, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile ad ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20: non abbiamo saputo dopo Livorno porre il problema del perché il Congresso avesse avuto quella conclusione, non abbiamo saputo porre il problema praticamente, in modo da trovarne la soluzione, in modo da continuare nella nostra specifica missione che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato. Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana, diventata un crogiuolo incandescente dove tutte le tradizioni, tutte le formazioni politiche, tutte le idee prevalenti si fondevano qualche volta senza residuo: avevamo una consolazione, alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di avere previsto matematicamente il cataclisma, quando gli altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni.
Siamo entrati, dopo la scissione di Livorno, in uno stato di necessità. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno; la necessità che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, del dilemma di vita o di morte.
Come si vede, Gramsci nell'assumere la responsabilità della direzione del partito era tormentato da una duplice preoccupazione, quella di aprire le porte del partito a nuclei ed elementi del PSI che poi si ridusse all'entrata dei “terzini” (qualche caporale e pochi soldati) che non si assimilarono, se non formalmente, alle idee, ai metodi e soprattutto alla dura disciplina del partito, e l'altra, ancora inconfessata, di sradicare il sistema di organizzazione territoriale che gli impediva una seria e, per la sua politica, indispensabile penetrazione alla base dell'organizzazione tuttora legata politicamente e sentimentalmente alle posizioni della sinistra.
Spezzare l'ossatura monolitica e fortemente accentrata del partito della classe proletaria voleva dire ridurla ad un aggregato di cellule aperte al processo molecolare delle categorie socio-economiche; viveva in ciò e si sostanziava la stridente contraddizione che fa da filo conduttore a tutta la problematica gramsciana basata sul concetto di una egemonia che include in sé, contraddittoriamente, le tendenze al pluralismo che nella pratica postulano supporti, alleanze, compromessi per il puerile timore di sentirsi soli di fronte ad un nemico di classe che sopravvalutava, insomma un Gramsci tattico imbrigliato tra egemonia e il suo contrario.
Non aveva già definito che:
il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione [della dittatura del proletariato - nda] che realizza l'unità della classe lavoratrice, dà alle masse una coesione e una forma che sono della stessa natura della coesione e della forma che la massa assume nella organizzazione generale della società [...] un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che [...] afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice della storia. [?]
Gramsci, L'Ordine Nuovo, n. 21 ottobre 1919
Nell'organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle super-strutture politiche e nei suoi ingranaggi generali.
Questo riferimento ad una egemonia ideologica e politica dei Consigli, o meglio del futuro Stato dei Consigli, che non si piega ad alcun condizionamento tattico, nella I serie dell'Ordine Nuovo (1919-1920) trova la sua più ampia e originale manifestazione. La fase, certo, del Gramsci migliore pur con le sue remore e le influenze soreliane (1) che ne inficiano la chiarezza e la fedeltà rispetto alla ideologia rivoluzionaria del marxismo.
(1) Le influenze del pensiero di George Sorel.
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