Una gabbia per la classe operaia

Editoriale

Nell’Italia percorsa dalla crisi economica stanno accadendo cose nuove ed eccezionali. La Polizia arresta e con solerzia la Magistratura condanna. Con un ritardo sospetto e con una evidente documentalità è emerso il patto scellerato tra la più corrotta delle classi politiche europee e la malavita organizzata. Solo ora si getta in pasto all’opinione pubblica italiana, più sconcertata che incredula, i nomi di personaggi eccellenti. Si serrano i polsi di capi mafiosi dalle latitanze a dir poco equivoche, vengono tradotti in giudizio eminenti, quanto fino a ieri intoccabili, uomini politici dei quali tutti sospettavano gli enormi poteri di corruzione e di concussione. Nello spazio di pochi mesi un intero sistema economico-politico è stato messo sotto inchiesta con la più infamante delle accuse.

Si sono ripuliti i vertici dei Servizi Segreti, persino il nuovo governo ha voluto vestire un abito pulito per l’eccezionalità della circostanza. Che cosa sta succedendo? Forse che il capitalismo italiano ha avuto una crisi di mistica deontologia, oppure, finito il ricatto della guerra fredda si è aperta una lotta senza esclusione di colpi tra il mondo del capitale finanziario e della grande imprenditoria e quello di una vecchia e imbelle partitocrazia, più dedita al perseguimento dei propri loschi interessi che al soddisfacimento di quelli dell’economia reale per i quali era stata pagata, protetta, coperta sino all’inverosimile? Per la grande borghesia nazionale era tempo che quella classe politica, quei partiti lasciassero il campo a nuove forze che avessero chiari tutti i termini delle necessità dell’economia italiana nel bel mezzo di una recessione internazionale. Sul tavolo problemi vecchi e nuovi: la diminuzione del costo del denaro, una diversa politica degli oneri sociali, l’annullamento di qualsiasi recupero salariale e, soprattutto, la ristrutturazione del salario e l’introduzione delle gabbie salariali.

Detto e fatto. Sia il nuovo governo, presieduto dal vecchio Governatore della Banca d’Italia, che Fazio, il suo successore ai vertici del mondo finanziario nazionale, si sono immediatamente messi all’opera per la materia e per gli ambiti di loro competenza. Il neo Governatore, ad esempio, ha tenuto a precisare che

“vanno ricercati i principi e le regole atti a evitare eccessi di conflittualità, assicurare flessibilità nell’impiego e nel costo del lavoro, in relazione alle condizioni generali dell’economia, allo stato delle imprese, alle situazioni regionali. Una diversificazione dei costi del lavoro non necessariamente implica nelle aree meno favorite, dato il più basso costo della vita, un minore reddito reale rispetto al resto del Paese.”

Ecco una prima risposta ai tanti quesiti sul perché di questi sconvolgimenti e dei relativi mutamenti di uomini e apparati. Cambiare perché tutto sia come prima? No. Cambiare perché tutto sia peggio di prima per la classe operaia. La questione delle gabbie salariali è solo un aspetto di ciò che la borghesia nazionale va preparando a danno dei produttori di plusvalore, forse non è nemmeno l’attacco più pesante se rapportato ai problemi relativi alla ristrutturazione del salario in funzione della redditività aziendale, ciò non di meno è rappresentativa di un tragico scenario all’interno del quale si vuole costringere il già abbondantemente penalizzato mondo del lavoro salariato. Il pronunciamento di Fazio non si limita a questo. In perfetta sintonia con le reiterate richieste della Confindustria enuncia una sorta di sillogismo del profitto, nel quale le gabbie delle aree meno sviluppate (sud), fungerebbero da premessa maggiore. In termini correnti ciò significa che se al sud il costo del lavoro diminuisse sensibilmente faciliterebbe gli investimenti in oca e più investimenti significherebbero più occupazione eliminando così una delle piaghe della società meridionale senza peraltro intaccare di fatto il potere di acquisto dei salari del sud rispetto a quelli del nord in quanto relativi a un minore costo della vita. Proseguendo sulla strada di un simile sillogismo si potrebbe concludere con una perversa teoria della “giustizia” distributiva dei redditi in base alla quale le gabbie salariali si giustificherebbero come necessario momento di perequazione dei redditi tra aree e diverso costo della vita. Come dire che in aree socio-economiche ad alto costo della vita i salari rimangono inalterati mentre in quelle a più basso costo i salari diminuiscono per pareggiare il potere di acquisto della classe lavoratrice.

A parte il fatto che con i salari medi che ci sono in circolazione dovrebbe valere il ragionamento opposto, e cioè che la soglia della vivibilità sociale, ben lungi dall’essere raggiungibile per le classi lavoratrici all’interno dei meccanismi produttivi capitalistici, dovrebbe eventualmente suggerire un innalzamento dei salari al nord e non un abbassamento di quelli del sud. E senza contare il fatto che se passasse una simile ipotesi sarebbe comunque un disastro politico, oltre che economico per la già precaria unità della classe operaia.

A parte il fatto che la borghesia imprenditoriale non ha nessun titolo per parlare di giustizia distributiva se non nell’unico senso che le compete: quello dell’uso della forza dei rapporti tra le classi, dove il giusto è quello che le conviene e nel momento in cui ne ha bisogno lo impone con le buone o le cattive.

È giusto solo ciò che è funzionale al saggio del profitto, alle inderogabili necessità di ristrutturazione dell’apparato produttivo, alle leggi della competitività all’interno del mercato nazionale e internazionale. E giusto, oltre che necessario, che le “nuove” forze politiche e di governo creino tutte quelle condizioni che permettano all’azienda Italia di sopravvivere nelle difficili condizioni imposte dalla recessione internazionale. Ma perché tutto ciò abbia qualche possibilità di successo occorrono due cose. Innanzitutto che l’Esecutivo trasformi in termini di legge, con il solito avvallo di quello che resta della Triplice sindacale, la diminuzione del costo del denaro, la ristrutturazione del salario, e l’introduzione delle gabbie salariali, al fine di incentivare sì gli investimenti, ma contemporaneamente di renderli altamente remunerativi. Poi di convincere la classe operaia, che tutto questo paga in termini di decurtazione del potere d’acquisto dei salari, di cancellazione di qualsiasi forma di recupero nei confronti dell’inflazione, di cassa integrazione e licenziamenti e di maggiore sfruttamento per chi ha la “fortuna” di restare al suo posto di lavoro, che occorre fare di necessità virtù e che l’ennesima politica dei sacrifici non comporta perdite reali né in termini di salario né di posti di lavoro.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.