La borghesia, inquieta, si interroga sul suo futuro

Il crollo dell’impero sovietico e la crisi della sinistra borghese

La crisi economica dell’Unione sovietica si era manifestata da tempo. I tassi di accumulazione da qualche decennio decrescevano progressivamente e con questi, decresceva la capacità dell’apparato industriale e finanziario di reggere competitivamente lo scontro imperialistico con l’occidente finché, repentinamente, si sono messe in moto le forze di quel sommovimento politico che ha portato letteralmente alla disintegrazione dell’impero e al crollo verticale dell’economia fino all’attuale caos. Non ci addentriamo nella disamina approfondita di questo processo ma richiamiamo soltanto alcuni dei punti cardine della nostra analisi.

  1. Non si trattava di socialismo e tanto meno di socialismo reale.
  2. Quell’esperienza andava riferita interamente al modo di produzione capitalistico dopo che il processo rivoluzionario bolscevico era stato sconfitto, fin dai primi anni, dall’isolamento internazionale e dall’arretratezza economica.
  3. La forma specifica di capitalismo sorta dalla sconfitta della rivoluzione é stata il capitalismo di stato cioè un capitalismo totalmente accentrato nelle mani dello stato in cui la proprietà privata tradizionalmente intesa era stata praticamente eliminata.
  4. Il capitalismo di stato doveva soggiacere alle stesse leggi indicate da Marx per il capitalismo privatistico e quindi soggiacere alle crisi economiche e ad un progressivo declino come forma produttiva.
  5. La concentrazione del capitale, la più avanzata del mondo, non poteva che spingere le contraddizioni economiche al punto più elevato mettendo in moto rivolgimenti sociali e conflitti di enorme portata.

Certo solo oggi é possibile constatare il percorso e l’intensità, davvero imprevedibili, di questi rivolgimenti. Mentre ci si poteva aspettare un’accelerazione del livello di scontro con l’imperialismo occidentale, dettato dalla necessità di conquistare il dominio di ulteriori aree economiche che avrebbero dato ossigeno all’asfittica economia sovietica, il corso reale degli eventi ha confermato invece l’imprevedibilità dell’evolversi delle situazioni quando, per la spinta materiale della crisi, si mettono in movimento le classi sociali. In Unione sovietica più che uno scontro tra borghesia e proletariato é avvenuta una lotta all’interno del medesimo fronte borghese tra la frazione che, forte dei suoi privilegi, mirava alla conservazione brutale dell’esistente e quella, più lungimirante e sensibile ai pericoli del declino, che aspirava al rinnovo delle forme di gestione capitalistiche per meglio reggere lo scontro con gli Usa. La variabile nazionalista ha inferto una svolta decisiva a questa lotta mettendo in luce la precarietà della costruzione federale dello stato sovietico e facendo prevalere l’interesse delle borghesie locali rispetto all’interesse della borghesia che fino a quel momento aveva centralizzato totalmente il potere economico e politico. Il risultato é stato la disintegrazione dell’impero sovietico, l’affermarsi di precarissimi stati in gravi difficoltà economiche e, spesso, in conflitto militare e l’imporsi sulla scena mondiale di un unico polo imperialista americano. Per l’Urss é stato un disastro senza precedenti storici, un disastro di una tale portata che ha determinato conseguenze ma scala planetaria con pesanti ripercussioni anche nei paesi occidentali. È vero, anche noi siamo stati colti di sorpresa di fronte a tale crollo ma, a differenza di altri, si é trattato solo di aggiustare l’analisi rispetto ai risultati di un processo di crisi economica che avevamo descritto ed annunciato. Ben presente era infatti lo svilupparsi di una crisi che imputavamo interamente al capitalismo di stato e che non ci sorprendeva per la sua gravità. Per noi si trattava della piena conferma di quelle leggi economiche delineate da Marx già un secolo prima. Non era dunque il tonfo del socialismo, la smentita della teoria marxista, il naufragare dell’applicazione della teoria comunista alla realtà sociale bensì la conferma della contraddittorietà e dei limiti del modo di produzione capitalistico. Ben altro é accaduto tra le file della sinistra socialdemocratica più o meno estrema. Pur con delle critiche, pur con delle riserve, pur avvertendo i limiti pesanti di quella esperienza, essa ha continuato fino all’ultimo a guardare l’Unione sovietica e gli altri stati che si auto appellavano socialisti come un qualcosa di diverso, un qualcosa che comunque aveva rotto con il modo di produzione capitalistico e come un qualcosa che, anche se da correggere, rappresentava ancora un punto di riferimento politico e un modello a cui riferirsi imprescindibilmente per delineare qualsiasi nuovo progetto di società futura. Di conseguenza, per la sinistra socialdemocratica il crollo dell’Unione sovietica ha significato il totale disorientamento politico perché insieme a quel crollo é avvenuto quello, altrettanto pesante, dei suoi modelli e riferimenti teorici. Tutto questo é ben evidente, ad esempio, in Rifondazione comunista. Questa organizzazione critica formalmente il capitalismo (molto, molto limitatamente dobbiamo dire) e ritenendo che l’esperienza del cosiddetto socialismo reale non sia più ripercorribile, quando si tratta di indicare un modello di società a cui aspirare, non indica assolutamente nulla se non formule assolutamente generiche ed evanescenti, prive di qualsiasi significato politico. Scomparso il presunto modello socialista di riferimento, non avendo compreso il carattere capitalistico dell'Unione sovietica, Rifondazione non può che essere alla mercé del più totale sbandamento teorico, vittima del naufragare delle sue stesse illusioni, totalmente incapace di spiegare gli avvenimenti e di definire una prospettiva politica alternativa al capitalismo.

La crisi economica occidentale

La crisi ha percorso nei due blocchi imperialistici strade parallele. Sebbene con modalità ed intensità differenti, essa si é espressa già da tempo anche nelle economie occidentali. Richiamiamo brevemente le sue tappe più significative. In Europa, dopo la fase della ricostruzione post-bellica, finanziata principalmente dagli Usa, e il periodo del boom economico degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta, si avvertono gli iniziali segnali dell’incepparsi del meccanismo dell’accumulazione. In Italia, ad esempio, nel 1963-64 si manifesta una grave recessione che sancisce la fine del periodo di alti tassi di sviluppo dell’economia. Certo si tratta di crisi di assestamento ma preludono già successivi e più intensi sconquassi economici. Nel 1971 gli Usa dichiarano unilateralmente l’inconvertibilità del dollaro e con questo sono costretti a rendere evidente la crisi della loro economia , drogata da un flusso enorme di moneta cartacea non più corrispondente a valori reali esistenti nella produzione materiale. Da questo momento il capitalismo vive fasi di espansione seguite sempre da fasi di intensa recessione sulle quali si innesta una competizione sempre più marcata tra gli Usa e i partner europei. Ricordiamo le due crisi petrolifere degli anni settanta e i violenti processi inflattivi che vi seguono per evidenziare la violenza con cui la potenza americana cerca di scaricare sull’Europa e sul Giappone i costi della propria crisi.

Gli anni ottanta si caratterizzano con un processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale senza precedenti. Gli Usa cercano di assurgere, dato l’inarrestabile declino del loro apparato industriale, a potenza dominante principalmente sul piano finanziario e militare mentre europei e giapponesi, forti delle massicce ristrutturazioni industriali avviate alla fine degli anni settanta, rafforzano decisamente le loro posizioni nel commercio mondiale. In questi anni si assiste a una ondata speculativa senza precedenti. Gli Usa ovviamente la trainano con una spregiudicata politica finanziaria basata sugli alti tassi di sconto. Di conseguenza enormi quantità di denaro giungono negli Usa. Però si tratta esclusivamente dell’avvitarsi su se stessa della speculazione finanziaria dato che l’economia reale, quella della produzione, permane ormai da anni in uno stato di stagnazione. La cosiddetta bolla speculativa svanisce nel 1992 quando la più grave recessione del dopoguerra attanaglia l’economia mondiale. L’economia americana é la prima a bloccarsi, seguono poi quella europea e giapponese. In alcuni casi si tratta di una vera e propria depressione dato che gli indici della crescita della produzione industriale assumono valori negativi.

A questo punto le crisi economiche dell’est e dell’ovest si incontrano e si influenzano reciprocamente anche attraverso le ripercussioni politiche della disgregazione dell’impero sovietico. In occidente non erano ancora terminati i festeggiamenti per l’abbattimento del muro di Berlino e per il presunto trionfo del capitalismo sul comunismo, che già si avvertiva il vento gelido della depressione che si abbatteva sulla economia americana e, di conseguenza, su tutto il mondo. La stessa riunificazione tedesca, resasi possibile solo dopo il tonfo dell’Unione sovietica, doveva trasformarsi in soli due anni in uno dei fattori aggravanti la crisi economica mondiale. Intanto, sparita l’Unione sovietica dalla scena dello scontro imperialistico, si delineavano nuovi ed altrettanto potenti fattori di contesa tra la Germania e il Giappone da una parte, nuovi giganti dell’economia mondiale, e gli Usa dall’altra. Soprattutto la Germania, affamata di capitali per l’ingente sforzo finanziario della riunificazione, ingaggiava con gli Usa una decisa competizione finanziaria attraverso la politica dell’alto tasso di sconto. È il colpo di grazia all’economia europea intera costretta ad inseguire la politica tedesca con dei tassi di sconto che strozzano ancora di più ogni attività produttiva.

Sembrava, fino a soli due anni fa, così come ci veniva detto dalla stampa, l’inizio di una nuova epoca di pace e di prosperità. Siamo piombati invece repentinamente nella più grave crisi economica del dopoguerra senza che i tradizionali strumenti di stimolo dell’economia possano essere impiegati. La grave recessione si caratterizza per gli enormi debiti accumulati dagli stati che impediscono il ricorso alla politica del deficit spending fin qui usata. Anzi gli stati sono impegnati a contrarre le spese per ridurre i debiti introducendo così degli ulteriori freni all’avvio della ripresa. Poi vi é la mancanza di nuovi settori economici da sviluppare capaci di rappresentare uno sbocco per gli investimenti e l’avvio di produzioni alternative sostitutive di quelle ormai mature. Questo determina un processo di vera e propria deindustrializzazione dell’occidente dato che nelle produzioni tradizionali si stanno affermando le economie del sud est asiatico, capaci di vantare dei costi di produzione molto più bassi. Nell’immediato ciò comporta per l’Europa anche un confronto con livelli di produttività e di retribuzione della forza lavoro tipici di aree arretrate, difficilmente accettabili, almeno nell’immediato, dalla manodopera occidentale. Infine, ma stiamo citando solo i principali problemi, l’esplodere della disoccupazione in concomitanza al venir meno della possibilità di usare i tradizionali ammortizzatori sociali data la politica di riduzione delle spese di cui sopra.

Si tratta di una situazione decisamente nuova che si discosta dalle crisi precedenti e le cui soluzioni, come meglio vedremo, stentano a delinearsi.

Il caso italiano

Il malgoverno e la corruzione sono per l’Italia solo dei problemi in più e non certo le cause della crisi economica. Gli ingredienti della crisi mondiale sono tutti presenti aggravati da un fortissimo debito pubblico, da una pubblica amministrazione inefficiente e quindi incapace di erogare servizi adeguati alla produzione e, non meno importante, da una struttura industriale debole, ancora caratterizzata dal permanere della piccola e media industria. La borghesia italiana sta però dimostrando una vitalità ed una capacità reattiva che non ci si sarebbe aspettati fino a poco tempo fa. Innanzi tutto con l’attacco frontale al sistema di interessi costituitosi nel periodo precedente e che ormai avvolgeva l’economia con una ragnatela di vincoli e di costi (tangenti) tali da comprometterne il vitale funzionamento. Poi con il deciso ricorso alla politica di deregulation secondo la migliore tradizione anglosassone: l’avvio della privatizzazione dei settori pubblici, la ristrutturazione della spesa pubblica e lo smantellamento del welfare state, la ristrutturazione del salario e del mercato del lavoro secondo i criteri della completa flessibilità. Sulla stampa tale processo, ben lungi dall’essersi concluso, é stato definito un autentico terremoto, addirittura una rivoluzione. Certo si tratta di un grande cambiamento che viene osservato con interesse addirittura da altri paesi alle prese con gli stessi problemi. Ma la borghesia italiana, e non solo questa, si trova di fronte a problemi certamente non facili da risolvere, tipici di questa fase storica, e per i quali risultano improponibili le soluzioni adottate nelle crisi precedenti tanto che un dibattito ed una riflessione sono stati avviati nel tentativo di affrontarli. Considereremo alcuni aspetti di questo dibattito per evidenziare le difficoltà che la borghesia incontra nel definire una linea di condotta per far fronte ai gravi problemi che essa stessa ha prodotto.

Sviluppo ed occupazione: sono possibili?

Ecco il dilemma attorno al quale si é avviato il dibattito verso la fine dell’estate 1993. I più importanti quotidiani hanno riportato innumerevoli articoli ed interventi di economisti, studiosi, imprenditori nel tentativo di rispondere ai pressanti interrogativi posti dalla crisi economica. I toni usati nel dibattito sono inconsueti, spesso improntati, come vedremo, ad uno sconsolato pessimismo e tradiscono l’inquietudine di chi si accorge di individuare i problemi senza avere a disposizione le soluzioni per affrontarli.

In un articolo apparso sul Corriere della sera del 25 agosto, Ugo Stille si interroga sui mali della crisi e sui suoi rimedi mettendo ben in evidenza il repentino cambiamento del clima economico e politico avvenuto in Europa nel volgere di un brevissimo tempo:

il processo integrativo che dopo l’accordo di Maastricht doveva registrare un’accelerazione ha subito una brusca battuta d’arresto: il crollo dello Sme (il sistema monetario europeo) ha rivelato la debolezza economica dell’Europa, la guerra in Bosnia ne ha messo a nudo l’impotenza politica... Questo bilancio disastroso contrasta con le previsioni ottimistiche che ancora all’inizio del 1992 indicavano nell’Europa comunitaria un protagonista centrale dell’assetto mondiale del dopoguerra-fredda, un concorrente temibile per gli Stati Uniti e per il Giappone, un centro di forza autonomo sul piano geopolitico.

Dopo questa sconsolata constatazione Stille va al cuore del problema:

come uscire dalla crisi? [...] I problemi maggiori da risolvere sono adesso due. Il primo é l’adozione di una strategia di stimolo espansivo. L’impossibilità di usare a tale scopo lo strumento classico della riduzione fiscale, a causa dei massicci deficit di bilancio, lascia aperta solo la strada di un ribasso dei tassi di interesse... Una accelerazione [della discesa dei tassi - ndr] é possibile solo se la Bundesbank deciderà finalmente di ribassare i tassi tedeschi. Ma questo rimane un fattore d’incertezza e adesso si aggiunge anche il dubbio, espresso da diversi esperti, secondo cui la manovra sui tassi costituirebbe uno stimolo insufficiente alla ripresa. Ma si tratta dell’unica arma oggi disponibile ed occorre accettare il giudizio di Rudiger Dornbush, economista del Mit: "Il calo dei tassi significa volare con un’ala, ma questo é sempre meglio che non volare affatto".

Come si vede, i problemi sono ben individuati e altrettanto ben individuata é la mancanza di soluzioni ad essi. Stille passa poi ad analizzare un altro problema ma, come vedremo, i risultati sono gli stessi:

Il secondo grosso problema da affrontare é quello della occupazione... La difficoltà di trovare rimedi efficaci sta nel fatto che la disoccupazione ha due componenti diverse, una congiunturale ed una strutturale. La prima potrà venire assorbita, sia pure parzialmente, se e quando si metterà in moto la ripresa economica. Nei confronti della seconda, invece, la manovra economica non vale ed occorre andare al fondo delle cause strutturali. Tra queste vi é da un lato l’impatto delle nuove tecnologie e dall’altro l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro. Una strategia del rilancio dell’occupazione deve quindi da un lato procedere alla ristrutturazione industriale e ad una riqualificazione della manodopera alla luce degli sviluppi tecnologici ed introdurre dall’altro lato maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

La povertà della conclusione é evidente dato che Stille arriva a contraddirsi in poche righe affermando che la causa strutturale della disoccupazione sono la nuove tecnologie e il rimedio ad essa sono ancora le nuove tecnologie, quelle che verrebbero impiegate nella ristrutturazione. Quanto sia inesistente la possibilità di riqualificare la manodopera lo dimostrano le liste degli operai in mobilità che si ingrossano sempre più dato che di riqualificazione e di ricollocamento in altre aziende non se ne é mai fatto nulla. Il problema é sempre lo stesso di prima, manca cioè la ripresa e senza questa gli investimenti non si fanno e non si creano nuovi posti di lavoro. Vedremo più avanti come il problema dello sviluppo, e con questo quello degli investimenti, é ben più grave di quanto Stille evidenzia nel suo articolo. Egli stesso comunque é costretto alla fine ad ammettere, riguardo il problema della flessibilità del mercato del lavoro, i pericoli insiti nell’applicazione ad esso della deregulation dato che é ben consapevole di cosa si celi dietro questa parola:

ma qui viene fuori il nodo critico: occorre trovare un equilibrio tra la flessibilità del mercato del lavoro e il sistema di protezione sociale... elaborare una formula non sarà facile.

Stille si rende ben conto delle tensioni sociali che potrebbero nascere dall’applicazione di questa ricetta dato che deregulation significa, al di là della retorica e della demagogia, solo licenziamenti, salari più bassi, lavoro a tempo e senza alcuna tutela. Ma evidentemente non ha altro da proporre.

Dicevamo prima della gravità del problema dello sviluppo e, in effetti, siamo di fronte ad una svolta storica nonché drammatica che incute molto, molto timore a tutti. Sentiamo una delle più brillanti menti del celebre Mit, l’istituto economico più prestigioso del mondo. È Lester Thurow che parla:

Non vedo un motore capace di tirare fuori l’economia mondiale dalla stagnazione degli ultimi cinque anni. Stiamo pagando le conseguenze della bolla speculativa degli anni '80. C’è un eccesso di capacità produttiva in tutto il mondo. L’unica cosa che potrebbe fare da scintilla é un’innovazione tecnologica di portata comparabile alla costruzione delle ferrovie o alla nascita dell’industria automobilistica. Ma non c’è in giro nulla di simile, almeno quanto a dimensioni...

Il sole 24 ore del 16 settembre

Qui il problema é evidenziato nella sua drammaticità. Non esistono settori produttivi tali da consentire alcun sviluppo e i vecchi settori produttivi sono sovradimensionati. Thurow non dice che il sovradimensionamento é rispetto a mercati che sono ben lungi dal soddisfare i propri bisogni e che sono asfittici solo per lo scarso potere d’acquisto dei salari complessivamente intesi, ovvero per la povertà a cui sono stati condannati la maggior parte degli uomini. Ovviamente queste non sono le preoccupazioni degli economisti del Mit i quali inorridiscono solo di fronte al fatto dell’incepparsi dell’accumulazione e al pericolo della esasperata concorrenza che si sta scatenando tra i produttori mondiali a causa del surplus di potenziale produttivo. Come si vede siamo di fronte ai classici problemi del capitalismo ben evidenziati da Marx oltre un secolo fa quando illustrava la storicità di questo modo di produzione. Dunque, parlare oggi di sviluppo significa solo fare un atto di fede; non riuscire a delineare una strada veramente percorribile per far ripartire il processo di accumulazione del capitale é l’elemento di novità di questa crisi. Per questo siamo di fronte ad una fase della vita del capitalismo veramente nuova. L’informatica, l’ultimo fuoco di paglia dello sviluppo capitalistico , ha esaurito la sua funzione di stimolo dell’economia. È lo stesso Thurow che l’afferma:

l’intreccio tra telecomunicazioni, computer e media, per esempio, sta beneficiando alcuni settori, come quello dei semiconduttori, ma non ha il peso sufficiente a smuovere tutta l’economia.

Mancando nuovi settori da sviluppare, salta lo schema sul quale si é retta in precedenza la competizione tra paesi capitalisticamente avanzati e arretrati. Mentre i primi si avvantaggiavano nella divisione del lavoro a scala mondiale occupando i settori produttivi avanzati, quelli per intenderci capaci di garantire la supremazia sui mercati e il dominio imperialistico, i secondi, spesso per l’effetto dell’esportazione di capitale dagli stessi paesi avanzati, sviluppavano i settori maturi del capitalismo, quelli ad alto impiego di manodopera, grazie al basso costo della loro forza lavoro di cui disponevano. Ora difficilmente ciò si potrà ripetere e di conseguenza si scatenerà, ma già sta accadendo, la competizione nei principali settori produttivi come l’elettronica, la meccanica, l’automobilistico, il tessile, eccetera. Questo pone all’occidente problemi nuovi e complessi perché esso deve imporre alla propria forza lavoro condizioni,ritmi produttivi e salari che devono competere con quelli dei paesi arretrati. Ciò significa l’avvio di politiche di attacco alla classe operaia e al proletariato, ben più decise di quelle dei periodi precedenti, che potrebbero innescare forti tensioni sociali.

Con la mancanza di significativi settori produttivi da sviluppare é inevitabile che la concorrenza si faccia più forte nelle produzioni tradizionali, sia tra i paesi avanzati, sia tra queti ultimi e quelli di recente industrializzazione (ad esempio i paesi del sud-est asiatico). Gli economisti già avvertono che la domanda interna nei paesi avanzati, per la caduta occupazionale e del livello salariale, non tornerà più ai livelli degli anni scorsi e pertanto qualsiasi sviluppo della produzione dovrà trovare il corrispondente mercato fuori dai confini nazionali. Questo comporterà un accentuarsi dei conflitti commerciali, già oggi molto forti, e un pericolosissimo scivolamento delle politiche degli stati verso il protezionismo come unico mezzo per garantire la sopravvivenza della propria economia. Che questa non sia solo un’ipotesi lo dimostrano le difficoltà in cui versano gli accordi internazionali per il libero scambio delle merci, primo fra tutti il Gatt. Lo spettro di una incontrollabile guerra commerciale, con tutte le conseguenze politiche che essa comporta, già aleggia nel mondo e si mostra attraverso la rinascita delle più esasperate ideologie nazionaliste.

Consideriamo ora l’aspetto complementare a quello degli investimenti: l’occupazione. Èun problema che preoccupa non poco la borghesia perché l’attuale recessione si colloca in un contesto completamente differente dai precedenti. I tradizionali ammortizzatori sociali ai licenziamenti sono molto meno utilizzabili di prima a causa del debito pubblico accumulato dagli stati e alle conseguenti politiche di smantellamento del welfare state. Oggi si tratta veramente di licenziare forza lavoro senza dare a questa alcuna prospettiva di reimpiego; l’assistenza salariale poi é limitata nel tempo; in Italia, ad esempio, é al massimo di due anni. Pertanto si pone il problema della gestione di masse di lavoratori che vengono private anche degli elementari mezzi di sussistenza È un problema davvero esplosivo che preoccupa non poco. Ecco cosa si legge su "Il sole 24 ore" del 13 settembre a pagina 31:

i politici si trovano ovunque ad affrontare una situazione difficile: creare nuovi posti di lavoro in un periodo di crisi economica. D’altra parte basta osservare la tendenza dal 1970 a questa parte per capire che un alternarsi di crisi e periodi di crescita economica hanno portato in ogni caso ad un calo dell’occupazione. Insomma, un Pil in aumento non significa necessariamente nuovi posti di lavoro. Ecco solo qualche esempio: in Spagna, dal 1970 al '92, mentre le dimensioni dell’economia sono all’incirca raddoppiate l’occupazione si é ridotta del 2%. Sempre nello stesso periodo, queste due grandezze sono aumentate rispettivamente del 70 e dell’8% in Germania, del 75 e del 7% in Francia, dell’84 e dell’8% in Italia, del 52 e del 3% in Regno Unito. Il risultato é sotto gli occhi di tutti: la Spagna arriverà ad un tasso di disoccupazione del 22,5% alla fine di quest’anno ma anche per gli altri paesi europei la situazione é sempre più grave.

Ancora una volta la sconsolata constatazione della tendenza del capitalismo, nonostante il progredire dell’accumulazione, a pauperizzare strati sempre maggiori della popolazione e la desolante conclusione che oggi esistono solo dei palliativi al problema e non delle soluzioni. Ciò é ben messo in evidenza in un articolo di Giorgio Lunghini, economista della sinistra socialdemocratica, apparso sul Corriere della Sera il 7 settembre 1993:

nuovi investimenti sono condizione sufficiente per generare nuova occupazione? [...] Il capitalismo non depone più uova d’oro. Non é vero che minor salario reale e maggiore "flessibilità" sul mercato del lavoro si traducono necessariamente in maggiore occupazione, questa in maggiore produzione, questa in maggiori profitti, questi in nuovi investimenti e così via: in maggior benessere generale. Soprattutto c’è una novità: si é stabilita una nuova e perversa relazione fra produzione di merci e occupazione dei lavoratori. È vero che se la produzione cala con essa cala l’occupazione. Ma non si può più sperare, come voleva e faceva la politica fordista-keynesiana, che se la produzione riprende riprenderà anche l’occupazione. Al fondo della crisi la disoccupazione viene cristallizzata mediante ristrutturazione tecnologiche e organizzative. È questo l’aspetto strutturale della flessibilità capitalistica dell’occupazione: la forza lavoro é una merce la cui quantità domandata é flessibile soltanto verso il basso. Con preoccupanti conseguenze economiche e politiche.

Lunghini mette proprio il dito nella piaga e, anche se non azzarda a definire alcuna terapia nonostante la sua precisa diagnosi, almeno denuncia in modo inequivoco il carattere limitato del capitalismo come sistema di produzione incapace di soddisfare i bisogni generali della società. Di più non fa.

Le ricette che oggi vengono adottate per tentare di rivitalizzare il mercato del lavoro in Europa vanno tutte nella direzione di una deregulation sfrenata che mira a fare della forza lavoro una merce "usa e getta" priva di alcuna tutela e diritto. Retribuzioni più basse per coloro che tentano di entrare nel mercato del lavoro (queste persone hanno un’età anagrafica sempre più alta), lavoro a tempo determinato, lavoro in affitto collocato presso le aziende da apposite agenzie, manodopera che passa essere messa in mobilità in qualsiasi momento e secondo le esigenze delle aziende, sono questi i principali provvedimenti che vengono presi, si dice, per stimolare le assunzioni di personale. In realtà essi produrranno esclusivamente una nuova fisionomia di lavoratore: un individuo senza nessuna protezione sociale, completamente subordinato al ciclo economico ed alle esigenze dell’azienda, un individuo male pagato e privato di una sufficiente assistenza sanitaria e previdenziale, un individuo, in breve, la cui esistenza sarà caratterizzata dalla totale precarietà. Quando si parla di nuovi investimenti per favorire il rilancio economico e l’occupazione, si vede chiaramente la sproporzione tra i problemi da risolvere e le soluzioni adottate. Clinton negli Usa ha annunciato il piano di totale informatizzazione della pubblica amministrazione quale mezzo per rilanciare gli investimenti; le previsioni annunciano però che tale piano produrrà nella stessa pubblica amministrazione 250.000 licenziamenti di impiegati amministrativi che non serviranno più. In Italia, il governo ha annunciato l’avvio del piano ferroviario per i treni ad alta velocità con investimenti per 50.000 miliardi in tre anni. Ammesso e non concesso che il piano vada in porto, esso creerebbe 50.000 posti di lavoro. Le statistiche più ottimistiche hanno segnalato la perdita di 200.000 posti di lavoro nel 1993 (altre statistiche innalzano la cifra a 500.000); inoltre per il 1994 esse prevedono ulteriori perdite di occupazione. Come si vede rimane spaventoso il divario tra creazione di posti di lavoro e contemporanea espulsione di lavoratori dal processo produttivo.

Il problema della creazione dei posti di lavoro é irresolubile. Quando la ripresa economica, una ripresa che le previsioni collocano ormai alla fine del 1994 e caratterizzano come lenta e di modesta entità, farà sentire i suoi effetti sulle imprese, sui lavoratori del mondo occidentale graverà la pesante eredità dell’attuale recessione: il tasso di disoccupazione sarà mediamente aumentato di un paio di punti percentuali e sarà ormai un dato strutturale dell’economia. Tanto é vero che già oggi alcuni economisti incentrano la loro riflessione non più su come riassorbire la disoccupazione ma su come gestirla. Èuna esplicita ammissione che il sistema economico non riesce a garantire più, neanche nelle aree in cui il suo sviluppo si é espresso ai massimi livelli, la possibilità di reddito soddisfacente a fasce ormai consistenti della popolazione.

Il dibattito sul capitalismo, la proposta di Monti e le prime risposte della sinistra riformista

Le gravi difficoltà del sistema economico e la mancanza sul piano teorico di modelli di riferimento capaci di affrontare adeguatamente il problema dello sviluppo hanno sollecitato un ripensamento generale da parte degli economisti della borghesia sulle strategie politiche da adottare. Come abbiamo visto, alcuni di essi, già hanno messo in luce l’irresolubilità del problema principe dell’economia, quello dell’accumulazione del capitale e del suo ulteriore sviluppo. Altri, meno preoccupati di riflettere sui massimi sistemi e molto più pragmaticamente impegnati a dare risposte ai problemi immediati della crisi, si sforzano di definire un modello a cui ispirarsi per la gestione della prossima fase della vita del capitalismo. In Italia, la riflessione su questo tema é stata avviata da Mario Monti, rettore dell’università Bocconi di Milano, che dalle pagine del Corriere della Sera del 3 settembre sferza i colleghi ad aprire un dibattito sull’economia:

in un periodo di così intenso rivolgimento politico e civile, colpisce l’assenza di un dibattito su come dovrà essere organizzata e gestita l’economia dei prossimi anni.. Sembra quasi che non venga percepita la necessità di una svolta radicale rispetto al tradizionale metodo di governo dell’economia seguito in Italia...

Questo richiamo é un altro segnale del disagio in cui versa il pensiero economico ufficiale. Monti poi esplicita il presupposto della sua analisi:

se respingiamo l’idea di voler competere con quei Paesi [paesi europei avanzati, del Nord America e dell’Asia che stanno ristrutturandosi per avere più efficienza - ndr], perché non siamo disposti ad inseguire troppo l’efficienza a scapito della solidarietà, senza volerlo prepariamo l’Italia a un futuro di disoccupazione. Se invece abbandoniamo gli obiettivi di solidarietà, rinunciamo a valori che (benché spesso non realizzati in concreto) sono parte importante del nostro patrimonio culturale. Ma non occorre abbandonare quei valori. Basta affidarne l’attuazione a strumenti che non ostacolino troppo l’efficienza del sistema produttivo.

Monti afferma che non bisogna abbandonare l’idea della solidarietà dopo aver appena ammesso che essa in concreto non esiste. È questa una implicita ammissione del vizio di fondo del ragionamento. Non abbandonare i valori della solidarietà significa solo non abbandonare la retorica sulla solidarietà e, di conseguenza, impegnarsi esclusivamente sul perseguimento di un sistema economico più efficiente. Fatta questa prima considerazione vediamo i punti salienti della nuova politica economica che Monti propone. Essa si articolerebbe in sette punti

  1. Disciplina di bilancio: lo stato dovrebbe non avere disavanzo corrente.
  2. La Banca d'Italia dovrebbe avere totale autonomia dal governo e perseguire la stabilità monetaria.
  3. Abolizione del consociativismo dei partiti e compartecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese.
  4. Eliminazione degli impieghi improduttivi di capitale e lavoro.
  5. Deregulation dei mercati e privatizzazione del settore pubblico.
  6. Solidarietà vera da realizzarsi con la politica fiscale.
  7. Tutela del capitale umano, economico, ambientale.

Come si vede é la trasposizione in uno schema organico di quanto la borghesia italiana (non solo questa) ha iniziato a realizzare nell'ultimo anno. In pratica é la ricetta neoliberista di scuola anglosassone edulcorata con pretese solidaristiche di impossibile attuazione. Lo dimostrano quei paesi, gli Usa sono l’esempio più eclatante, che hanno percorso questa strada da un decennio. Quanto la solidarietà sia estranea a questo programma lo dimostrano anche tutti i provvedimenti che in Italia sono stati adottati nell'ultimo anno: si é quasi completamente smantellata ogni forma di assistenza sociale, il carico fiscale é aumentato soprattutto per le categorie sociali più deboli, si é allargato il divario di reddito tra i ricchi e i poveri, la disoccupazione é aumentata e le tradizionali forme di assistenza a chi perdeva il lavoro sono state molto ridimensionate. La parte reale del programma economico di Monti é quella dei primi cinque punti. È un tentativo di amministrare la crisi del sistema, senza risolverla, imponendo alla maggior parte della società sacrifici pesantissimi.

Torniamo ora a Lunghini e al suo già citato articolo. Egli rivolge al programma una critica radicale:

il programma evocato da Mario Monti é essenzialmente un programma redistributivo che implica la solidità di questa catena: un mercato efficiente e saggiamente regolato del lavoro, del capitale e dei prodotti) assicurerà alle imprese, se capaci di reggere alla concorrenza internazionale, profitti che se investiti genereranno nuova occupazione. Se ciò nonostante le condizioni materiali dei labouring poors non risulteranno soddisfacenti, esse potranno essere migliorate mediante la tassazione... Ciò che va messo in discussione é la solidità della catena argomentativa che mi pare implicita: un mercato regolato é condizione sufficiente per la realizzazione di profitti positivi? Profitti positivi sono condizione sufficiente per l'intrapresa di nuovi investimenti? Nuovi investimenti sono condizione sufficiente per generare nuova occupazione?

Dopo aver affermato l’inattualità dello schema argomentativo da cui muove Monti, Lunghini conclude:

se le cose stanno così, e ci sono dati statistici e ragioni teoriche sufficienti a farci pensare che le cose così stanno [ci si riferisce all’impossibilità del capitalismo di assicurare lavoro, redistribuzione del reddito e quindi solidarietà - ndr], che cosa fare? [...] Se questa macchina economica non ce la fa più a risolvere i problemi della società civile, che macchina non é bensì il complesso dei rapporti materiali dell’esistenza, l’insieme di persone piene di bisogni che questa macchina non soddisfa e non può soddisfare, non dovremmo forse pensare a qualcosa di più radicale?

La vaga terminologia marxiana di Lunghini non deve ingannare. È tipico del moderno pensiero socialdemocratico attingere ecletticamente alle categorie d’analisi di diverse scuole di pensiero anche se antitetiche. Tanto bravo nel mettere in evidenza il limite storico del capitalismo, quanto inconcludente, addirittura evanescente, nelle proposte. Il qualcosa di più radicale che risolverebbe i problemi non viene ovviamente specificato. Sappiamo dove arrivano questi pensatori quando si tratta di fare delle proposte concrete. Consideriamo, ad esempio, il problema dell’occupazione che, l’abbiamo visto, assume oggi connotati drammatici. Che cosa ha elaborato la sinistra socialdemocratica quando ha dovuto formulare la sua proposta? Cercando di conciliare le esigenze dei lavoratori con quelle del capitalismo ha elaborato la formula del "lavorare meno, lavorare tutti". Oggi questa formula, nello stato di crisi in cui si trovano la maggior parte delle aziende, inizia a trovare concreta applicazione evitando in qualche caso i licenziamenti ma suddividendo tra i lavoratori il monte salari che l’azienda erogherebbe dopo la riduzione di personale col risultato di un abbassamento del salario individuale. Sono altre demagogiche proposte che crollano mostrando l’inadeguatezza dei programmi politici riformisti e sono ulteriori segnali delle difficoltà in cui versa il pensiero teorico borghese. Il pensiero riformista oggi é totalmente disorientato. Il modello a cui esso ha sempre fatto riferimento, il socialismo reale, é crollato; il capitalismo nella sua forma privatistica é in fortissima crisi; ogni parvenza di possibilità di riforma del capitalismo in senso progressista é stata spazzata via dalla stessa crisi; su queste macerie al riformismo non rimane altro che proporre una inconcludente critica al capitalismo senza riuscire a proporre assolutamente nulla. Lunghini ne é un chiaro esempio.

Seguendo ulteriormente il dibattito che si é sviluppato sulla crisi del capitalismo possiamo scorgere le difficoltà anche tra i pensatori che si ispirano al tradizionale pensiero liberale. Fabio Ranchetti sul Corriere della Sera del 28 settembre dice, a riguardo del mercato efficiente proposto da Monti, quanto segue:

il pensiero economico moderno ha elaborato una teoria scientifica, con tutti i titoli ritenuti necessari, e quindi formulata nel linguaggio rigoroso della matematica, di che cosa é un mercato efficiente, e di come funziona. Il guaio é che si tratta di una bellissima idea di un mercato perfetto... che proprio perciò non esiste. Non solo. La teoria economica moderna non é affatto in grado di dimostrare che se, per caso o per miracolo, il mercato non si trovi già nel suo stato di equilibrio e quindi di efficienza, qualcuno o qualcosa ve lo conduca, a meno di ammettere delle ipotesi del tutto particolari e, di nuovo, economicamente poco o per nulla significative... La situazione sembra dunque poco promettente. Da questa impasse si può tuttavia provare ad uscire argomentando così: ma non é proprio il compito della scienza economica quello di darci delle, per così dire, idee regolative, sulla cui base tentare di organizzare e riorganizzare l’(imperfetto) esistente?... La teoria ci dice che le più importanti condizioni per l’efficienza del mercato (e dell’impresa) sono (1) che i partecipanti al gioco seguano regole da tutti riconosciute e a tutti note (la famosa "trasparenza di cui si parla tanto"), (2) che le carte siano distribuite a tutti e in maniera non troppo diseguale. In altri termini... un mercato efficiente non é compatibile con la presenza di pochi grandi proprietari... È questo - una società costituita da produttori e consumatori, tutti piccoli proprietari, nessuno con grande potere di mercato - il modello di società a cui aspiriamo?

Dopo aver smontato teoricamente la possibilità di mercato efficiente così come é stato proposto da Monti, Ranchetti si spinge oltre nella critica:

vengo a un’ultima questione. Non é affatto certo che una redistribuzione del reddito, una volta prodotto, così come suggerito da Mario Monti, sia una condizione sufficiente a garantire maggiore benessere sociale. Molti teorici del mercato di parte liberale, da Walras a Frank Hahn, hanno convincentemente sostenuto che condizione necessaria non solo per una migliore uguaglianza sociale ma, ecco il punto veramente interessante, per il funzionamento efficiente del mercato stesso, sia una redistribuzione della ricchezza, cioè delle condizioni iniziali di produzione del reddito. Di qui (la necessità di) programmi di riforma della proprietà, dalla nazionalizzazione della terra all’abolizione del diritto di eredità. Ma seppure per dare efficienza al mercato, siamo disposti a politiche di questo tipo? E se lo fossimo sarebbe il governo in grado di imporre siffatte redistribuzioni della proprietà? E chi, e in base a quali regole, deciderebbe come redistribuire ricchezza e reddito?

Tutto questo arzigogolato argomentare per affermare ciò che Lenin aveva semplicemente detto a proposito del monopolio, cioè della forma economica capitalistica dominante in questo secolo, quando metteva in evidenza il potente freno che esso costituiva, per la sua posizione di dominio del mercato, ad un ulteriore sviluppo delle forze produttive. Anche partendo da un punto di vista completamente differente pare che la critica a Monti sia ugualmente radicale. Naturalmente, finita la critica, si pongono non pochi problemi come si vede dalle domande che vengono poste da Ranchetti e, in pratica, non si va oltre.

Conclusioni

Ci pare di aver sufficientemente evidenziato l’inquietudine che serpeggia nel mondo accademico ufficiale. È, indubbiamente, il riflesso della nuova fase che sta vivendo la crisi del capitalismo, una fase del tutto originale che pone problemi di non facile soluzione. Si tratta delle difficoltà del capitale a proseguire il ciclo di accumulazione secondo le sue necessità di valorizzazione e di tutte le conseguenze che ciò comporta nella società nel momento in cui le attuali tecnologie allontanano definitivamente dai processi produttivi e dal circuito economico strati consistenti di forza lavoro generando, anche nei paesi capitalisticamente più avanzati, la diffusione della povertà. Le proposte, come abbiamo visto, non risolvono questi problemi nodali, si limitano invece al massimo a indicare gli interventi per gestire l’immediato sotto la spinta dell’urgente necessità di tamponare la crisi. Mancano infatti delle proposte di ampio respiro che possano consentire la gestione della crisi secondo orizzonti non limitati all’oggi mentre il dibattito tra economisti evidenzia solo le spaventose contraddizioni che si sono accumulate nell’ultimo ventennio. La teoria economica borghese é in evidente difficoltà incapace com'è di dare delle risposte ai problemi che si affacciano nella società; essa, per bocca dei suoi pensatori si contorce, contraddicendosi continuamente, su se stessa evidenziando tutta l’impotenza del pensiero che del mercato e delle sue leggi fa un feticcio.

Se abbiamo riportato i tratti essenziali del dibattito suscitato da Monti é per cogliere le difficoltà che oggi esistono nello stesso fronte borghese. Indubbiamente vi é preoccupazione quando ci si trova di fronte ad una macchina produttiva che storicamente non si é mai presentata così potente e, nel contempo, ci si trova di fronte all’impossibilità di soddisfare i bisogni elementari degli uomini che per vivere devono lavorare. Come si é visto, non si riesce ad andare oltre l’evidenziazione dei problemi o la definizione di misure che solamente aggravano questi stessi problemi. Preoccupano anche le tensioni sociali che si stanno accumulando nella società e che incominciano ad esplodere senza che ci siano a disposizione i tradizionali mezzi per fronteggiarle. Di conseguenza la borghesia si interroga, inquieta, sul suo futuro come mai ha fatto prima. Vuol proprio dire che la crisi economica ha fatto un salto di qualità e pone, anche nei paesi che sinora avevano goduto del cosiddetto benessere, problemi del tutto nuovi.

Carlo Lozito

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.