Spesa statale e debito pubblico

La crisi scava nella voragine del debito pubblico e mette in luce le ragioni di classe della sua gestione

L'intervento dello Stato italiano nella economia non data dall'unificazione nazionale. Da allora fino agli inizi degli anni '20, la composizione del bilancio pubblico è infatti costituita essenzialmente da tutte quelle voci di spesa indispensabili al mantenimento di una amministrazione statale, di una polizia interna, di un esercito permanente. Con ciò non si vuole negare il ruolo che la spesa pubblica, con il suo disavanzo e con le commesse belliche, ha giocato nel processo di formazione delle grosse strutture bancarie o nello sviluppo dell'industria metallurgica ed estrattiva. Va precisato però che era ancora un ruolo indiretto, non giocato in prima persona.
Di converso, la fase liberista dello sviluppo capitalistico modella lo stesso pensiero borghese sulla funzione statale: la teoria del 'laissez faire' è quella dominante; all'organizzazione statale viene delegato il semplice compito di creare e mantenere le condizioni più idonee dal punto di vista dell'ordine pubblico e della difesa del territorio nazionale, affinché l'accumulazione del capitale possa procedere tranquillamente. Eccezion fatta per la fase del primo conflitto mondiale, con le sue ingenti spese belliche, il monte spese dello Stato per quel periodo si aggira intorno al 14-15 per cento del prodotto interno lordo.
Affinché l'economia italiana trapassasse dalla fase privatistica a quella mista, era necessario che il capitale maturasse fino in fondo le contraddizioni insite nel suo stesso sviluppo: occorreva passare attraverso la grande crisi del '29, e le illusioni riformistiche circa la capacità del processo di accumulazione capitalistico di procedere autonomamente e in modo lineare, dovevano crollare.
Ma dal '29 in poi, non solo una quota sempre più rilevante del reddito interno viene redistribuita in favore di aziende in crisi; non solo lo Stato sottomette direttamente la gestione di attività (ferrovie, telefoni) che, data la mole smisurata dei capitali necessari al loro espletamento, erano divenute inaccessibili al capitale privato (anche se associato) e comunque scarsamente remunerative; parallelamente a tutto ciò si fà strada la convinzione e la pratica che una domanda aggregata, sostenuta con forza da quella pubblica, potesse sviluppare appieno le potenzialità produttive (e con ciò occupazionali) del modo di produrre del capitale.
Il secondo conflitto imperialista doveva demistificare tutto ciò. La militarizzazione della società italiana in preparazione della guerra aveva, sì, ridato fiato alla economia nel suo complesso, ma solo per preparare la più grande distruzione di uomini e beni che la storia ricordi.
Lo stesso sviluppo post-bellico vedrà bruciare i vagheggiati progetti di piena occupazione, dato il divario allargatosi a forbice tra sviluppo della produttività del lavoro e incremento demografico.
Su queste basi, la dilatazione della spesa dello Stato verrà ancora perseguita, ma non più o non solo al fine di creare ulteriore domanda di beni e servizi, magari in funzione anti-ciclica: a fronte delle laceranti contraddizioni che, nonostante la fase ascendente del ciclo, il capitale continuerà a produrre all'interno del tessuto sociale e operaio, ricomporre in qualche modo queste fratture attraverso uno Stato 'legittimato' agli occhi proletari diventerà un compito ben più importante.
L'ultima fase di ricostruzione vede quindi uno sviluppo intensivo ed estensivo di servizi, un tempo gestiti privatamente. I trasferimenti effettuati in favore del settore 'istruzione' passano dal 2 per cento del conto consolidato di spesa del 1915 all'11,1 per cento del 1955, per arrivare al 20 per cento del 1970. Le spese rientranti sotto la voce 'sociali', aggregante assistenza sanitaria, pensioni varie, indennità di disoccupazione, di integrazione guadagni, eccetera, subiscono anch'esse un salto quantitativo, passando dal 13,9 del 1955 al 19 per cento del 1970. Un forte sviluppo lo ha anche il settore dei trasporti e telecomunicazioni, parallelamente al crescere di numerose altre infrastrutture. Con questi presupposti, il settore terziario pubblico è oggetto di un grosso sviluppo anche da un punto di vista occupazionale: dal 1955 al 1975, i dipendenti del settore pubblico sono aumentati dell'87 per cento, contro un aumento dell'occupazione dipendente del 24 per cento.
Parallelamente a tutto questo, l'intervento dello Stato nell'economia si espande. L'aggregato 'Contributi alla produzione', sotto il quale rientrano contributi alle imprese, concezioni creditizie, eccetera, nel ventennio sopra considerato aumenta di circa il 30 per cento. La partecipazione dello Stato alla gestione diretta della economia nelle forme della Partecipazione Statale, dopo la creazione dell'Iri nel 1933, partorisce negli anni '50-'60 numerosi altri Enti di gestione (Eni, Efim, Egam, Eagat, Eagc), al punto che questi nel '75, controllando 965 imprese, coprono il 30 per cento degli investimenti nazionali.
Questa marea di cifre si carica inoltre di un ulteriore valore se si considera che la spesa pubblica deflazionata, dal 33,5 per cento del 1955, passa a coprire il 54,7 per cento del Pil nel 1975.
Se focalizziamo l'aspetto politico della questione, è evidente come il capitale, sviluppando in modo equilibrato nel periodo in questione sia le spese di 'parte corrente' che di 'conto capitale', sia riuscito a realizzare un corposo progetto di pace sociale.
Certamente non tutto ciò che è stato realizzato nel campo delle trasformazioni sociali è stato dettato da questa prospettiva di comando. Basta pensare al ruolo svolto dall'istruzione nella produzione di una forza-lavoro professionalmente preparata ad adeguarsi alle mutanti condizioni tecniche del processo di produzione; o alla funzione di contenimento della sacca di disoccupazione che sempre la scuola ha svolto; o al compito di mobilità territoriale della massa operaia che lo sviluppo dei trasporti ha assolto.
Ciò che comunque, alfine, conta è che, sotto la spinta di una visione strategica del conflitto di classe, o sulla base di tendenze ben più immediate e particolaristiche, il capitale e lo Stato italiani siano riusciti a crearsi per il periodo di ricostruzione post-bellica un grosso piedistallo consensuale.

Da Battaglia comunista n. 13 - 1981

In seguito, la crisi economica del capitalismo internazionale farà venir meno le premesse dell'operazione conservatrice borghese: colpirà cioè le illusioni di una espansione continua del reddito imponibile, e di un proporzionale lievitare della ricchezza reale disponibile per le esigenze di spesa dello Stato. Nella prima metà degli anni '70 il tasso di crescita del Pil è già sceso al 2,2 per cento, dal 5,6 per cento degli anni '60 (successivamente, supererà il 3 per cento soltanto nel 1987 e '88). Siamo in piena crisi: comincia la gestione dei sacrifici del proletariato attorno alla voragine del debito pubblico.

La rendita finanziaria dei titoli di stato

Alimentata dai meccanismi dipendenti dalle contraddizioni strutturali della economia capitalistica, la crescita del debito pubblico si è fatta indipendente dai livelli di spesa reali. Non sono i costi sociali, le pensioni, la sanità o gli stipendi ai pubblici dipendenti (a parte inefficienze, sprechi e corruzione) che fanno crescere il debito, bensì la necessità di mantenere alti i tassi di interesse, di sostenere la rendita finanziaria e i profitti delle imprese. Un circolo vizioso che costringe ogni mese il Tesoro, per coprire il proprio fabbisogno nel pagamento degli interessi sui prestiti ottenuti, a collocare sul mercato titoli (nuovi e riciclati) per decine di migliaia di miliardi. I compratori devono essere necessariamente attirati con l'offerta di tassi appetibili e competitivi sul mercato, ingrassando così banche, compagnie d'assicurazione e industriali, i maggiori clienti beneficiari di tali operazioni. La logica stessa del mercato costringe in definitiva lo Stato a offrire, per i Certificati di Credito, maggiori garanzie rispetto agli investimenti privati e ai rischiosi titoli azionari. Garanzie riguardanti sia il pagamento degli interessi che il rimborso dei prestiti, pena la bancarotta dello Stato.

Quando, a partire dal 1980, i tassi di interesse reale diventano superiori al ritmo di crescita effettivo dei valori economici, il rapporto fra debito e Pil aumenterà in modo incontrollabile. Lasciatesi alle spalle le sacre regole che Banche e Istituti di Credito impongono a qualunque cittadino... nullatenente, l'accumulazione del debito pubblico è proseguita in una crescente progressione e con cifre da capogiro. L'ammontare della spesa per il rimborso degli interessi allarga le dimensioni del deficit complessivo, che viene poi invocato per reclamare balzelli fiscali e tagli alle spese sociali.

Sulle masse salariate viene fatto gravare, direttamente o indirettamente, tutto il peso delle centinaia di migliaia di miliardi raccolti in prestito dallo Stato. Un colossale accumulo di lavoro morto, fissato come denaro che in realtà è gia stato speso dallo Stato; una enorme quantità di capitale consumato che non esiste più, un capitale illusorio fittizio. Il capitale del debito pubblico, nella sua apparenza, è una grandezza puramente negativa; un vero e proprio "feticcio" al quale occorre sacrificare sempre nuovo lavoro vivo, con cui soddisfare la sua parassitaria fame di interesse.

Un capitale immaginario

I titoli di credito del debito pubblico sono, dunque:

duplicati cartacei di capitale distrutto, i quali portano al diffondersi e al rafforzarsi di una classe di creditori di Stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte.

E Marx citava l'economista liberale Sismondi:

I titoli di Stato non sono altro che il capitale immaginario rappresentante la parte determinata del reddito annuo destinata al pagamento dei debiti. Un capitale di pari grandezza è stato sprecato; tale capitale serve da denominatore al prestito, ma non è quello rappresentato dai valori di Stato, poiché esso ormai non esiste più. Frattanto dal lavoro della industria devono sorgere nuove ricchezze; una quota annua di tali ricchezze viene assegnata in anticipo a coloro che avevano prestato quelle ricchezze sprecate; tale quota viene tolta per mezzo delle imposte a coloro che producono le ricchezze per essere distribuita ai creditori dello Stato e, in base al rapporto in uso nel paese fra il capitale e l'interesse, si suppone un capitale immaginario di una grandezza pari a quella del capitale da cui potrebbe derivare la rendita annua che i creditori devono ricevere.

Se si esclude la soluzione di un consolidamento forzato del debito (che porterebbe svalutazione della moneta, rincaro delle importazioni e caduta delle esportazioni, inflazione, eccetera), la solvibilità dello Stato viene garantita di anno in anno nei due modi più tradizionali:

  1. si tengono alti i tassi di interesse dei titoli di credito;
  2. si rastrella quanto più denaro è possibile con imposte e tagli di spesa.

In ogni caso, a pagare è sempre - aveva ragione il liberale Sismondi - chi col proprio lavoro produce la ricchezza della nazione.

L'interesse è una parte del plusvalore

Tutta la irrazionalità e la follia del Capitale, contenuta nella forma del capitale portatore d'interesse, del "denaro che produce denaro", è a questo punto imperante nella duplice oppressione sfruttatrice che il proletariato è costretto a subire. Prima, all'interno di un rapporto economico e sociale che gli spreme sudore e sangue sul posto di lavoro (quando la disoccupazione non lo emargina completamente); poi, taglieggiandolo come "cittadino" nei suoi cosidetti "diritti civili e sociali", e impoverendolo ulteriormente come "consumatore" nelle sue condizioni di vita.

Questo perché in realtà tutto il capitale, nelle sue diverse forme, dipende dal processo di produzione totale (cioè dall'unità del processo di produzione immediato e del processo di circolazione, il quale ultimo permette solo la realizzazione del plusvalore ma non la sua creazione).

Lo stesso tasso di interesse, in apparenza autonomamente derivante dal capitale monetario, è determinato dal processo di produzione del plusvalore. Non è altro che una parte del plusvalore, e quindi è legato al saggio del profitto e al grado di sfruttamento della viva forza-lavoro.

Oltre certi limiti, dunque, ogni variazione dei tassi dell'interesse monetario, così come l'interesse in se stesso, deve presto o tardi fare i conti con l'intensità della produzione e della realizzazione del plusvalore complessivo. Ed è pur vero che l'accumulazione del plusvalore nella forma di capitale monetario (capitale bancario, credito, rendite) diventa una massa di capitale immobilizzato, che si consuma improduttivamente. Non genera valore, bensì devalorizzazione. È uno dei momenti contradditori che nella vita del Capitale contribuiscono alla caduta generale del saggio del profitto. È, per dirla con Marx, una rilevante parte di capitale che viene trasformato in "capitale fisso che non funge da agente della produzione diretta", e che subisce quindi "uno sciupio improduttivo". E non lascia dormire la sinistra borghese, progressista e... produttivista.

Profitto, rendita e interesse: tutto ciò viene strappato alla classe operaia durante il processo di produzione, e successivamente anche dallo stesso salario. Con un unico scopo: mantenere in vita in tutte le loro forme, e riprodurre in continuazione, i rapporti di produzione capitalistici, e con essi la classe borghese e il suo Stato.

La progressione della spesa per interessi

Gli interessi (quasi 180.000 miliardi) che lo Stato paga sui debiti contratti con i privati, costituiscono una quota preponderante della spesa totale (circa 680.000 miliardi contro 520.000 miliardi di entrate). Più di quanto si spende correntemente per i servizi pubblici (155.000 miliardi per personale e materiale di consumo), considerando oltre agli interessi anche i rimborsi alle scadenze dei titoli precedentemente emessi.

La spesa pubblica italiana, in percentuale sul Pil, è oggi valutata attorno al 55 per cento rispetto a una media dei primi dieci paesi europei al 52 per cento. (Era pari al 41,9 per cento nel 1980, al di sotto della media europea, allora al 46 per cento.) Contemporaneamente, la spesa per interessi (nel 1980 pari al 5,4 per cento del Pil, e nel 1990 al 9,6) è giunta al 12 per cento, rispetto a una media europea del 5,5 per cento. Così, dal 1990 al '93, con spese previdenziali solo leggermente aumentate in percentuale del Pil, e con numero e salari stabili dei dipendenti pubblici, il debito pubblico in rapporto al Pil è aumentato dal 97,8 al 115 per cento.

Mentre il debito statale cresce a una media di circa 500 miliardi giornalieri, divorati dagli interessi, la sua consistenza generale (compreso Ferrovie, Monopoli e Telefoni) supera un milione 881.000 miliardi. Uno sguardo all'indietro, nei precedenti bilanci, ci conferma la velocità di espansione e di moltiplicazione del debito stesso. Nel 1983 il totale assommava a 450 mila miliardi, e si raddoppiava in cinque anni, raggiungendo nel 1987 i 900 mila miliardi. Nel settembre del 1988 eravamo già a 1.006.000 miliardi (il 98 per cento del Pil), e il raddoppio era ottimisticamente previsto dall'Ocse a fine secolo.

All'astronomica cifra, quasi tutta costituita dai cosiddetti "debiti sul mercato" (titoli di Stato e raccolta postale), vanno aggiunti i debiti delle amministrazioni pubbliche, anch'essi ormai vicini ai due milioni di miliardi. Precisiamo che cifre e stime ufficialmente messe sul tavolo sono spesso alterate, sotto o sovra stimate secondo le convenienze politiche e i maneggi di Tesoreria. L'arroganza del potere copre, in questi casi, ogni tipo di furbesco strattagemma. All'inefficienza cronica dell'amministrazione pubblica si accompagnano - ben oltre un "comune sospetto" - le manifestazioni di corruzione e omertà tra clan malavitosi di ogni specie, pubblici e privati, specializzatisi in manipolazioni di manovre, legalizzazioni contabili e raggiri di Cassa.

Lo Stato assediato da Buoni e Certificati

Addentriamoci ora nella struttura della tecnica finanziaria, attorno alla quale procede l'espansione del debito e della spesa per interessi. (Citiamo in proposito anche un commento di M. De Cecco, apparso in settembre su Affari & Finanza di Repubblica.)

L'attuale caratterizzazione strutturale del debito è quella di una minor presenza di titoli a prezzo fisso e rendimento indicizzato (i Cct, Certificati di credito del Tesoro), e di un alto numero di titoli a reddito (o cedola) fisso e prezzo variabile, i Btp (Buoni del Tesoro poliennali). Durante il periodo di massima inflazione degli anni '70, le prime massicce emissioni di titoli furono assorbite dalla Banche. In seguito, per non bloccare il sistema finanziario, lo Stato si rivolse ai risparmiatori privati, invogliandoli verso la scelta dei Cct indicizzati, meno rischiosi per un investimento finanziario diretto. Il 70 per cento dell'intero stock del debito pubblico passò nelle mani delle famiglie italiane della grande, media e piccola borghesia.

Solo verso la metà degli anni '80, in vista di un contenimento dei tassi inflazionistici, il mercato dei titoli pubblici si spostò verso i buoni a reddito fisso e prezzo variabile, aprendosi così agli investitori istituzionali e agli intermediari finanziari. Contemporaneamente, e a scala internazionale, si assisteva sia all'aumento dei tassi di interesse praticati dalle Banche centrali, e sia al dilatarsi dell'indebitamento pubblico in quasi tutti i centri statali, Usa in primo piano. Il momentaneo rilancio economico e il surriscaldamento dei mercati attrassero i nuovi Btp italiani prevalentemente nel portafoglio e nei giri d'affari degli investitori stranieri e dei professionisti della Finanza. Bot, e Cct a scadenza pluriennale, continuarono a restare in ...famiglia.

I tagliatori di cedole all'arrembaggio del pubblico bilancio

Attorno ai titoli a reddito fisso, quei Btp sui quali oggi si concentra la metà del debito pubblico, si scatenò ben presto il gioco speculativo degli investitori internazionali, che compravano e vendevano guadagnando sulle continue oscillazioni dei prezzi dei titoli. Prezzi che influenzano il rendimento dei titoli stessi, ed è sufficiente un punto percentuale in più o in meno per provocare variazioni di decine di miliardi nel totale del deficit statale. I governi italiani (ma lo stesso si verificava negli Usa, in Giappone e in Inghilterra) si trovarono - e si trovano tuttora - alle prese con imprevedibili e improvvise variazioni dei rendimenti dei titoli, cadute o aumenti dei loro prezzi, e con incontrollabili ondate di vendite o acquisti.

I Buoni del Tesoro poliennali, infatti, sono quotati e trattati in Borsa. Così pure i Cct, ma non i Bot (Buoni ordinari del Tesoro). Il sù e giù di prezzi e tassi non solo fà aumentare o diminuire la domanda sul mercato finanziario, ma è alla base delle vaste operazioni speculative a cui si dedicano - in piena legittimità borghese - Banche e società finanziarie (Fondi comuni d'investimento) attraverso la compra-vendita dei titoli. L'aumento o la diminuzione dei tassi di sconto (costo del denaro) praticato dalle Banche centrali sul mercato finanziario, influisce in modo inversamente proporzionale sul valore dei titoli, sul loro prezzo, o corso. E quando i titoli pagati, per esempio, 112 lire, scendono a 96 lire, la perdita è disastrosa per chi vi ha investito miliardi.

Sull'entità delle manovre speculative, e dei costi che si ripercuotono sui conteggi annuali del deficit pubblico, basti rimarcare che se nel 1990 ogni punto in più dell'interesse comportava un maggior onere per lo Stato di oltre 7 mila miliardi, oggi siamo a un costo di circa 15 mila miliardi per punto.

I "tagliatori di cedole" premono alle porte della Tesoreria statale, cinta d'assedio da una valanga di titoli e obbligazioni. È evidente, a questo punto, che i governi si vedono costretti a seguire praticamente, e a favorire, le manovre degli speculatori, alzando per lo più i tassi dei prestiti ai quali devono ricorrere per rinnovare continuamente i titoli esistenti. Altrettanto chiaramente, tutto questo non va inteso (come invece si vorrebbe far credere da chi spezza lance nostalgiche in favore del vecchio risparmio famigliare borghese) quale causa della attuale crisi economica capitalistica vera e propria, o delle tendenze operanti negli investimenti di capitale fisso, o delle contraddizioni presenti nel mercato del lavoro. Fa invece parte degli effetti, del dialettico processo di azioni e reazioni fra struttura e sovrastruttura, fra le primarie contraddizioni che si determinano e sviluppano nel concreto processo di produzione, e quelle secondarie provenienti dalla circolazione delle merci e, in questo caso, del denaro.

Nel quadro fondamentale di crisi economica e di instabilità dei mercati monetari e finanziari, nulla è scontato e prevedibile in assoluto, all'infuori del peggioramento degli effetti, sempre più macroscopici, della crisi in generale e della inefficacia di ogni volonteroso quanto rigoroso intervento borghese.

Imposte e tagli alle spese sociali

Il nocciolo della questione riguardante "il pareggio del bilancio della Tesoreria" si riduce sempre e per forza di cose all'aumento del carico fiscale, diretto e indiretto, e al taglio della spesa pubblica, ritenuta superflua e improduttiva.

Due misure che - attraverso la mediazione del consenso politico - costituiscono per la borghesia il massimo punto di sbocco della propria prospettiva di sopravvivenza, lungo il tortuoso percorso della gestione del potere economico, amministrativo-statale. È, in definitiva, l'unico intervento possibile a disposizione dello Stato capitalista, nel tentativo di far quadrare i conti del proprio bilancio. Nella logica economica dominante, non è paradossale il fatto che lo Stato stesso sia il pagatore di ingenti rendite finanziarie a creditori privati in massima parte costituiti da evasori fiscali. Com'è risaputo, infatti, soltanto la metà del reddito nazionale (fra cui però tutto quello salariale) risulta essere nel mirino del fisco, e quindi sottoposto a una imposta diretta.

Scriveva in proposito il vecchio Marx:

Poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato che debbono coprire i pagamenti di interessi, ecc., il sistema tributario moderno è diventato l'integramento necessario del sistema dei prestiti nazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richiedono tuttavia un aumento delle imposte in seguito. D'altra parte, l'aumento delle imposte causato dall'accumularsi di debiti contratti l'uno dopo l'altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando si presentano spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità (quindi dal rincaro di questi) porta perciò in se stesso il germe della progressione automatica. Dunque, il sovraccarico di imposte non è un incidente, ma anzi è il principio.

Il "seguito" diventa un costante ricorso a nuovi e straordinari prelievi forzati dalle tasche dei cittadini, debitamente divisi in tosati e tosatori. Vale a dire dalle tasche dei salariati, gli unici sui quali si riversano immediatamente e inevitabilmente le misure di ricapitalizzazione di ogni azienda, sia essa privata che statale: in questo caso, l'azienda Italia.

La riforma dell'imposta

Contro lo "zoccolo duro" del debito pubblico si infrangono i programmi dei vari riformismi sociali. Ogni reale interesse e concreto bisogno della società (in quanto insieme della specie umana e non divisione e contrapposizione fra classi sfruttate e sfruttatrici) viene sacrificato alla dominante figura rappresentativa del Capitale - "come un automa che si valorizza di per se stesso" (Marx) - e oltre lo stesso concreto processo produttivo di valore. Un ruolo politico di particolare importanza viene poi giocato dalla cosiddetta "opposizione consensuale", che il potere borghese ha storicamente ammaestrato nel compito di frenare, politicamente, e di deviare, ideologicamente, il pur sempre presente contrasto di classe.

Il risanamento delle finanze statali costituisce una delle preoccupazioni fondamentali per tutte le forze social-opportuniste della sinistra borghese, che monopolizzano gli apparati politici e le organizzazioni sindacali pseudo operaie. La "riforma dell'imposta" costituisce il piatto forte del menù "socialista" e radical-borgherse. Possiamo addirittura osservare - sempre in compagnia di Marx - come "dai più antichi borghesi del comune medievale ai moderni fautori del libero scambio, la battaglia principale si muove attorno alle imposte". L'ideale chimerico di tale riforma è naturalmente "l'equa e uniforme distribuzione delle tasse", ferma restando la presenza dei rapporti capitalistici di produzione, e anzi rafforzandone la loro stabilità. Più che evidente, da oltre un secolo, è il fatto che ogni intervento sulle imposte "non eleva il salario ma il profitto". E ciò pure nel caso di un ipotetico aggravio fiscale diretto sul capitale e sulla classe borghese. Il suo peso verrebbe comunque e sempre trasferito sulle classi subalterne, e sul proletariato innanzitutto, in virtù e forza degli attuali rapporti economici e sociali presenti nella società capitalistica.

Se sarà il caso, estremo, potremmo anche avere la "manovra" dell'imposta patrimoniale, ma entro i dovuti e rispettosi termini di compatibilità con gli interessi generali di imprenditori e operatori finanziari ("la parte più lungimirante e produttiva del paese", come recitano la destra e la sinistra borghese). Ben lontani, dunque, - e qui ritorniamo a Marx - da:

una imposta gonfiata a proporzioni colossali che - nella rivoluzione - può servire come una forma dell'assalto contro la proprietà. Ma anche allora, deve spingere a ulteriori misure, nuove e rivoluzionarie, a meno di ricondurre alla fine agli antichi rapporti borghesi.

Per un investimento appetibile

Nell'ottica e nell'interesse complessivo della classe borghese, fin dagli inizi del suo dominio:

l'imposta è la sorgente di vita della burocrazia, dell'esercito, dei preti, e della corte [oggi abbiamo molto di peggio! - ndr]; in breve, di tutto l'apparato del governo esecutivo. Governo forte e imposta forte sono la stessa cosa.

Chiaro per Marx, nel 1850, e altrettanto per noi, oggi. Quanto ai "socialisti buoni" dei nostri giorni, la loro intesa con la logica e la pratica del sistema è sempre stata perfetta.

Il problema della finanza - dichiarava ai suoi tempi il Pci - è problema della sinistra e non della destra...

I binari paralleli sui quali hanno sempre corso la politica fiscale della Confindustria (un fisco più equo e tassare le rendite finanziarie) e quella delle sinistre (preoccupate di "rendere più appetibile l'investimento produttivo rispetto alla rendita finanziaria"), illuminano a sufficienza quali siano in definitiva gli interessi in gioco. E le dispute politiche, tanto plateali quanto innocue, pretenderebbero di approdare a un "rivolgimento del bilancio dello Stato". Esattamente ciò che il nostro ottocentesco Marx denunciava come "impossibile senza un rivolgimento totale dello Stato". Per il momento, l'interesse degli industriali:

consiste indubbiamente nella diminuzione dei costi di produzione, dunque nella diminuzione delle imposte che entrano nella produzione, cioè nella diminuzione dei debiti dello Stato, i cui interessi si trasformano nelle imposte.

Marx

E la politica finanziaria dei governi in carica deve adeguarsi ai "bisogni" del moderno capitalismo: le ristrutturazioni, le produzioni ad alta tecnologia richiedono grandi investimenti con ridotte possibilità di veloci disinvestimenti. Occorrono quindi profitti certi e in periodi sufficienti per il recupero dei capitali investiti.

Il feticcio del debito primario

Abbiamo visto come i principali fattori che determinano il costante aumento del deficit pubblico siano riconducibili agli oneri per interessi passivi e all'evasione fiscale. Diretta beneficiaria di questa situazione è la classe borghese nel suo insieme. Il solo reddito imponibile della grande e nedia borghesia, "sfuggito" al controllo del fisco negli ultimi dieci anni, è ritenuto dagli "esperti" superiore alla stessa cifra dell'attuale debito pubblico, e quindi oltre l'intero Pil attuale. Con un organico di guardie di Finanza fra i più alti in Europa, lo Stato italiano può vantare una evasione annuale di imposte che supera il 15 per cento del Pil, vale a dire una cifra maggiore del deficit del bilancio. E mentre i governi in carica , a parole e nei fatti, riversano la responsabilità delle pubbliche passività sui "privilegi" di cui ancora godrebbero salariati e pensionati, la classe borghese in tutte le sue stratificazioni economiche e sociali accumula ogni genere di benefici, privilegi e condoni, protezioni ed evasioni praticamente incontrollabili. Dagli industriali ai banchieri, dai commercianti ai liberi professionisti, dai servizi privati a quelli per le imprese (l'Italia detiene il primato del più alto numero di partite Iva, oltre 5 milioni, fra tutti i Paesi Ocse).

Il deficit effettivo è quello che conta per calcolare ogni anno la grandezza dei prestiti che lo Stato è costretto a richiedere ai privati. Con l'inizio degli anni '90, dopo la maxistangata da 93 mila miliardi del governo Amato, e dopo l'accordo truffa tra il governo Ciampi e i Sindacati sul costo del lavoro (luglio '93), si cambia tattica. L'attenzione si sposta, e viene propagandata nelle prefigurazioni finanziarie degli economisti di Stato, su un altro disavanzo. Si tratta di quello primario, risultante dalla differenza fra entrate e uscite correnti al netto della spesa per interessi sul debito. E sulla possibilità di raggiungere un attivo primario, oscurando la spesa per interessi, si concentrano tutti gli sforzi, di rigore e austerità, dei vari governi.

In effetti, quale diretta conseguenza delle stangate scaricate sulle spalle del proletariato, il cosidetto fabbisogno primario sta diminuendo costantemente in rapporto al Pil: dal 6,5 per cento nel 1983 al 4 nel 1988, fino a uno sbandierato quanto fittizio pareggio.

Dietro la pubblica "deregulation"

Laceratisi i veli dello "Stato sociale" sotto i colpi della crisi economica, la copertura ideologica delle operazioni in corso - comprese le parziali privatizzazioni - è quella neoliberista, contrapposta a quella keynesiana. A parole viene proclamato il primato del mercato e della iniziativa privata, la fine dell'assistenzialismo pubblico, la diminuzione delle rigidità economiche, eccetera. Il cosiddetto garantismo viene ufficialmente affossato.

In breve, l'inefficienza e l'onerosità dei pubblici servizi vengono risolte ridimensionando le loro prestazioni e sottomettendo la loro gestione alle più redditizie regole del libero mercato. Il filo conduttore è sempre quello: lo Stato si ritira e lascia campo libero ai privati, stanziando migliaia di miliardi a loro favore; le masse salariate, i deboli e i bisognosi coprono a caro prezzo i buchi dei conti statali, e pagano ai capitalisti privati i nuovi servizi.

Abbiamo analizzato in più occasioni i contenuti effettivi di questa "deregulation" dei settori economici controllati dallo Stato, il quale in realtà si limita, dopo aver perfezionato il proprio ruolo di capitalista diretto più potente e accentrato, a intervenire nel vivo delle contraddizioni espresse dalla crisi dei processi di accumulazione. Lo fà finanziando direttamente il profitto attraverso una modificazione della spesa pubblica. Diminuiscono gli investimenti statali nei settori in cui viene stimolata una domanda diretta e indiretta (opere pubbliche, assistenza scolastica, pensionistica e sanitaria), e che caratterizzavano le politiche dell'interventismo keynesiamo. Il sostegno si dirige verso i settori ad alta concentrazione capitalistica e strategicamente fondamentali nella competizione internazionale.

Lo Stato è diventato inoltre il garante dei processi di formazione delle rendite finanziarie. La sua funzione parassitaria e la sua opera di vero e proprio strozzinaggio si sono ampliate e approfondite, accanto alla normale tutela dell'interesse generale del capitale e della repressione di ogni protesta delle classi sfruttate contro l'ordine e la pace sociale. È dunque sulle politiche monetarie, sulle manovre e gli interventi finanziari, che tende a concentrarsi l'intervento statale. Si tenta, cioè, di esercitare il massimo controllo e peso su questo terreno sovrastrutturale, in funzione di un sostegno e di una ripercussione positiva sul terreno della struttura economica produttiva. Una struttura che, come i fatti documentano ampiamente, non è più in grado di dare soddisfacenti risposte - in termini di collocazione delle merci sul mercato e di remunerazioni adeguate - alle sollecitazioni assistenziali che pur continua a ricevere.

L'amministrazione dello sfruttamento di classe

Il taglio delle spese per i servizi sociali potrà forse portare a una diminuzione della spesa pubblica complessiva e quindi del suo defici annuo. Ma non diminuirà affatto il debito complessivo dello Stato. Da anni tutte le spese assistenziali vengono sottoposte a drastici tagli e ciò nonostante, come abbiamo visto, il debito costantemente sale. E poichè il governo della borghesia non può intaccare gli interessi della stessa classe borghese, il problema del debito pubblico continuerà a essere affrontato raschiando quel che rimane sul fondo del barile dell'ex "Welfare State". Con abbondanti razioni di stangate sulla principale componente economico-sociale del popolo sovrano, il proletariato.

Il capitalismo. i suoi bilanci di entrate e uscite, in forma statale o privata, non sopportano vincoli e regole all'infuori della esclusiva valorizzazione del capitale stesso. I suoi comportamenti non seguono valori solidaristici verso chicchessia, norme etiche o... culturali indipendenti dal profitto. L'etica e la cultura politica della borghesia non sono che il prodotto storico del predominio economico di classe, della sopraffazione dei deboli, sfruttati, da parte dei più forti, sfruttatori.

Il potere che la borghesia esprime a ogni livello, economico, sociale, politico e ideologico, va ben al di là degli ipocriti formalismi che lo mistificano (l'interesse generale). Si impone spregiudicatamente e sbrigativamente di fronte alla sua suprema ragion d'essere: il profitto. La realizzazione di esso è una questione di vita o di morte per la classe borghese, e giustifica a ogni livello l'assoggettamento e lo sfruttamento della classe operaia che lo produce. E che paga anche i costi della pubblica gestione e amministrazione del sistema e dei suoi privati interessi.

"I bilanci arrivano alle radici delle classi", sentenziava un altro liberale, G.E. Gladstone, primo ministro dell'Impero britannico negli ultimi decenni dell'800. E dietro le fredde cifre delle entrate e uscite - aggiungiamo - si può mettere a nudo non solo il carattere borghese, burocratico e parassitario oltre che coercitivo, dello strumento di classe, lo Stato, ma anche la condizione di bancarotta totale in cui esso si trascina assieme a un modo di produzione e a una organizzazione sociale che camminano verso la loro inarrestabile decadenza.

Davide Casartelli

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.