Una ripresa solo nei numeri

Il Pil, in Italia, nel 2o trimestre 1994, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ha fatto registrare un incremento del 2,3 per cento e del 1,4 per cento rispetto al primo trimestre del 1994. Più vistosa ancora è stata la crescita della produzione industriale che sembra essersi assestata sulle posizioni del 1990. In agosto si è registrato, infatti, un incremento tendenziale, rispetto al 1993, pari al 16,2 per cento, mentre rispetto al mese precedente la crescita è risultata pari al 4,7 per cento. Ottimi anche i dati relativi alle esportazioni che pur avendo fatto registrare nel terzo trimestre dell'anno in corso una leggera flessione rispetto al primo trimestre, indicano comunque un incremento su base annua pari all'8,7 per cento e la bilancia commerciale, nei primi sette mesi dell'anno, ha presentato un saldo attivo di 21272 miliardi. I dati sono di fonte Istat e dunque vi è da ritenere che siano sufficientemente attendibili. La ripresa c'è ed è consistente, nondimeno affermare che dietro l'angolo vi sia un futuro splendente per tutti è una pura falsità. L'uscita dalla più lunga recessione che l'economia mondiale ha conosciuto in questo secondo dopoguerra, non è, infatti, il frutto dell'apertura di una nuova fase espansiva dell'economia mondiale, ma dei feroci processi di ristrutturazione condotti dalle imprese che hanno mirato unicamente alla riduzione del costo del lavoro mediante una drastica riduzione dei salari e la soppressione di oltre un milioni di posti di lavoro in tre anni. La prima e più tangibile conseguenza di ciò è che a fronte di una vistosa crescita delle esportazioni i consumi interni sono sostanzialmente fermi. Dopo il meno 2,3 per cento registrato nel 1993 la proiezione su base annua dopo i primi sette mesi, dà i consumi interni in crescita di appena il 2,1 per cento, e se il dato viene disaggregato si rileva che la crescita dei consumi dei beni non durevoli, ovvero dei consumi quotidiani, è solo dell'1,1 per cento, come dire che la domanda interna è sostanzialmente ferma ai livelli del 1993.

L'andamento del mercato automobilistico, ovvero del settore tradizionalmente trainante dell'economia italiana, è forse quello che dà meglio l'idea di come stiano andando effettivamente le cose. In settembre il gruppo Fiat-Innocenti ha prodotto in totale 45 mila autovetture, 5.000 in più rispetto al 1993 con incremento dell'11 per cento. La Lancia ne ha prodotto novemila, 1000 in più con un incremento del 10 per cento, ma allo scorso 10 ottobre risultavano immatricolate in Italia 1 milione 252 mila 827 vetture, l'8 per cento in meno rispetto al 1993 che già aveva fatto registrare una calo di circa il trenta per cento rispetto al 1992. I dati dunque evidenziano che il più importante settore dell'industria italiana ha recuperato soltanto grazie alla crescita delle esportazioni. Di più. Poiché il mercato di riferimento è quello europeo e la crescita del mercato automobilistico nei paesi Cee, nei primi nove mesi del 94, è stata pari al 4,6 per cento, se ne deduce che la Fiat è riuscita a sottrarre quote di mercato ai suoi diretti concorrenti. Le condizioni che hanno favorito questo recupero sono essenzialmente tre:

  1. la svalutazione della lira;
  2. la riduzione del numero degli occupati;
  3. l'accordo sul costo del lavoro del luglio 93.

Il disposto combinato di questi tre fattori è stata una drastica riduzione dei salari reali e il conseguente impoverimento dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli.

Lo schema perseguito dalla borghesia per uscire dalla crisi poggia sulla convinzione che la crescita delle esportazioni prima o poi trascinerà con sé anche quella del mercato interno attivando un circolo virtuoso che consentirà il ripristino della situazione precedente la grande recessione. In realtà, questo schema, che ha funzionato nell'immediato dopoguerra e per tutti gli anni sessanta, è definitivamente superato e non c'è santo che possa vivificarlo: i mutamenti che sono intervenuti nell'economia mondiale e nelle tecniche produttive negli ultimi venti anni lo escludono nella maniera più assoluta.

Allora si era all'indomani della più grande guerra mai combattuta dall'umanità. Vi era da ricostruire l'apparato produttivo di tutte le più grandi potenze industriali escluso quello statunitense e, cosa ancora più importante, vi era un settore produttivo che, benché non fosse tecnicamente nuovo in assoluto, prometteva una fase di grande espansione, quello automobilistico. È stata la crescita del settore automobilistico che ha consentito anche a settori maturi e a forte occupazione, quali quello siderurgico, di risalire la china e di svilupparsi ulteriormente, senza contare la miriade di imprese piccole e medie sorte nell'indotto di questi grandi settori produttivi. Oggi la situazione è profondamente mutata. Il ciclo di accumulazione capitalistica, avviatosi con la chiusura della seconda guerra mondiale, è in crisi da più di venti anni e sulla scena delle attività produttive ha fatto la comparsa la microelettronica, una tecnologia che opera in direzione diametralmente opposta a quella in cui ha operato l'industria automobilistica. Questa, benché rappresentasse l'approdo ultimo dello sviluppo tecnologico con alla base la meccanizzazione dei processi produttivi, sviluppandosi e facendo sviluppare altri settori consentiva la crescita in valore assoluto del numero degli occupati in misura tale da compensare la diminuzione relativa conseguente alla crescita del capitale costante investito. Così se per ogni mille lire investite si occupava un solo dipendente anziché due, come per esempio poteva essere prima della guerra, ciò non si traduceva in una perdita secca di posti di lavoro in quanto lo sviluppo complessivo dell'industria creava un numero di posti di lavoro maggiore di quelli distrutti. La caduta tendenziale del saggio medio del profitto veniva di fatto annullata e il sistema poteva espandersi.

La microelettronica distrugge posti di lavoro in tutti i settori e pur aprendo la strada alla più grande rivoluzione tecnologica che l'umanità abbia conosciuto, non produce nuova occupazione essendo essa stessa basata su tecnologie a scarso impiego di manodopera. La conseguenza più vistosa è che la sua espansione produce una diminuzione relativa e assoluta della forza-lavoro impiegata e quindi una permanente tendenza alla riduzione del plusvalore estorcibile e del saggio medio del profitto. La ricerca spasmodica di una compensazione spinge il capitale a intensificare ulteriormente lo sfruttamento della manodopera residua e quindi a fare ricorso a sistemi produttivi sempre più automatizzati.

È questa la ragione per cui anche nelle fasi di ripresa congiunturale l'occupazione ristagna quando addirittura non continua a diminuire.

La Disoccupazione crescente

Negli Stati Uniti, dove la ripresa congiunturale dura da più di un anno, ufficialmente la disoccupazione è diminuita e risulta pari al 5,8 per cento della forza-lavoro disponibile.

Praticamente - scrive Carlo De Benedetti - si è raggiunta una situazione di pieno impiego simile a quella dei primi anni Settanta.

La Repubblica del 12/11/94

Ma una lettura più attenta dei dati dimostra invece che la crescita del numero dei posti di lavoro è frutto esclusivo della crescita spaventosa del cosiddetto bad-job ovvero del lavoro a tempo parziale o saltuario. Nei primi otto mesi del 1993, negli Usa sono stati creati 1,2 milioni di posti di lavoro. Di questi, 730 mila, il 59 per cento, sono posti di lavoro part-time e il rimanente sono posti di lavoro quasi tutti saltuari. Poiché negli Usa basta lavorare anche una sola ora per settimana per essere considerati occupati, la crescita dell'impiego a tempo parziale produce statisticamente tanti posti di lavoro quanti sono i lavoratori che vengono impiegati in una settimana anche se sono utilizzati nello stesso impiego; infatti il ministro del lavoro Robert Reich ha più volte dichiarato che i dati ufficiali sulla disoccupazione sono inesatti e che in effetti il numero vero dei disoccupati è almeno il doppio di quello ufficiale. Se si tiene conto che negli ultimi tre anni gli investimenti produttivi sono cresciuti del 50 per cento risulta evidente che la perdita dei posti di lavoro continua tuttora. In realtà dal 1979 al 1994 gli impieghi manifatturieri sono diminuiti incessantemente passando da 21 a 17,8 milioni con una riduzione del 15 per cento, mentre nello stesso periodo la popolazione attiva è aumentata di 25 milioni di unità.

In Italia, secondo i dati ufficiali, tra il 1992 e il 1993 sono andati perduti poco meno di un milione di posti di lavoro, esattamente 250 mila nel 1992 e poco meno di 700 mila nel 1993. Nel 1994 nonostante la ripresa e l'introduzione di forme molto flessibili di utilizzo della forza-lavoro, secondo l'Istat, non è stato creato neppure un nuovo posto di lavoro; anzi se ne continuano a perdere. Nell'industria, nei primi sette mesi del 1994 l'occupazione è diminuita ancora dello 0,4 per cento e nell'Agricoltura dello 0,5 per cento. Nel settore della chimica è prevista, per il 1994, una riduzione di altre 6.000 unità lavorative pari al 3 per cento della forza-lavoro occupata e per il 1995 è prevista un'ulteriore perdita del 2 per cento pari ad altre 4 mila unità. L'unico dato positivo riguarda la diminuzione del ricorso alla cassa integrazione (-21 per cento).

Anche in Germania nonostante si stia registrando una crescita del Pil solo di poco inferiore a quella italiana, la disoccupazione non viene assorbita e il numero dei disoccupati è sempre di 3 milioni e 500 mila unità pari all'8 per cento della forza-lavoro disponibile nei lander occidentali e al 13,8 in quelli orientali.

Sono cifre inequivocabili: la disoccupazione non è destinata a essere scalfita dalla ripresa congiunturale e già questo dato da solo basterebbe per inficiare ogni seria possibilità che la ripresa possa durare a lungo; ma a esso si aggiunge anche la tendenza a una costante riduzione dei salari reali.

Le modificazioni del mercato del lavoro

L'esigenza di intensificare lo sfruttamento della manodopera residua ha prodotto negli ultimi anni una fortissima spinta alla ricerca di una forsennata mobilità nel tempo e nello spazio della manodopera stessa. I contratti part-time, la licenziabilità in ogni momento, i contratti di formazione - lavoro ecc. sono nati e si stanno sempre più sviluppando proprio perché soddisfano questa esigenza. I contratti a tempo parziale, in particolar modo, servono per evitare che vi siano segmenti della giornata lavorativa in cui gli impianti stiano fermi. Con questi contratti neppure un nano-secondo della giornata lavorativa viene perduto.

Il tempo parziale aggiunge alla separazione del corpo dell'operaio dalla mente prodotta dal taylorismo, la separazione dell'operaio, in quanto accessorio della macchina, dall'uomo biologicamente inteso. Non potendo separare ogni singolo individuo dalla sua biologia, si utilizzano più individui al posto di uno in modo tale che tutte le funzioni biologiche che non sono compatibili con i robot vengano svolte durante il tempo non retribuito. Niente più pause, niente più mensa, niente più rallentamento dei ritmi in relazione all'aumento della stanchezza, in definitiva ogni distinzione fra macchina e uomo è definitivamente sepolta, anzi per la macchina vi è qualche riguardo in più. Difficilmente la macchina, una volta che viene collocata in una determinata fabbrica, viene trasferita in un'altra e sicuramente non con la frequenza con cui invece è costretto (e sempre di più dovrà farlo in futuro) l'operaio moderno. Se il tempo parziale separa l'operaio dal suo essere biologico, la mobilità territoriale ne sancisce la definitiva separazione anche dal suo ambiente. Egli non è più l'operaio che lavora in Fiat, nell'Alfa Romeo, nella Montedison, ma è al servizio ora dell'uno ora dell'altro padrone in relazione all'andamento della congiuntura dei diversi segmenti di mercato. Si offre quotidianamente e comunque per periodi di tempo brevi e, tenuto conto della velocità dei mezzi di trasporti, in un territorio sempre più ampio. Gli economisti borghesi parlano di ciò come dell'unico strumento efficace per risolvere il problema della disoccupazione, ma in realtà gioiscono perché ritengono di aver trovato il sistema per assorbire le conseguenze della introduzione della microlelettronica nei processi produttivi. Grazie alla mobilità territoriale su aree sempre più vaste la classe operaia viene frantumata al suo interno e la contrattazione da collettiva tende a divenire sempre più individuale. Il processo di formazione del prezzo della forza - lavoro dipende così sempre più dal libero gioco della legge della domanda e dell'offerta. Senza la protezione degli strumenti della contrattazione collettiva, che introducendo nella compravendita della forza-lavoro la possibilità della lotta sindacale facevano del mercato del lavoro un mercato di tipo oligopolistico meno sfavorevole all'operaio che sarà sempre più costretto a contrattare il suo salario in un regime di sfrenata libera concorrenza.

Se da un lato, i capitali si concentrano e si centralizzano a scala continentale per incrementare la rendita monopolistica, dall'altro, la classe operaia viene atomizzata. Ogni operaio ha, ormai, per uno stesso posto di lavoro più concorrenti che capelli in testa e poiché la semplificazione delle mansioni consente a chiunque di lavorare ovunque, il mercato del lavoro tenderà a uniformarsi su scala mondiale con la tendenza a un forte livellamento verso il basso del prezzo della forza-lavoro.

Nuova divisione internazionale del lavoro e nuova miseria

Il salario di un operaio francese - ha dichiarato il presidente della fabbrica di jeans Lee Cooper, Marcel Albert - permette di pagare per lo stesso tipo di lavoro 7 operai tunisini, 9 marocchini, 25 tailandesi, 35 cinesi, 65 russi, 70 vietnamiti.

Il Mondo n 46 del 21 nov. 1994

Nella tabella 1 si possono confrontare le differenze, a parità di prestazioni e di qualifica, che esistono fra il reddito di un lavoratore italiano con quello dei lavoratori di altri paesi europei ed extra - europei. Lo spessore di queste differenze è tale da indurre il capitale a disegnare una nuova divisione internazionale del lavoro il cui approdo però non sarà, come altre volte è accaduto in passato, l'ingresso dei paesi dove la manodopera costa meno nell'area del benessere economico, ma l'allineamento delle condizioni di vita di una parte crescente dei lavoratori dei paesi di capitalismo avanzato a quelle dei lavoratori dei paesi più arretrati.

Con 2,7 milioni di occupati diretti in 152 mila aziende sparse su tutto il continente e 2,7 milioni di occupati indiretti, l'industria tessile e dell'abbigliamento, in termini di fatturato (490 mila miliardi di lire all'anno), è la seconda industria della Unione europea. Negli ultimi 15 anni a causa del più basso costo del lavoro esistente nel nord Africa e nell'area asiatica e ai processi di ristrutturazione tecnologica, il settore ha perduto sull'intero continente ben il 40 per cento dei posti di lavoro. (1)

Il processo - ci informa Patrick Itschert, segretario generale del Comitato sindacale europeo del tessile, abbigliamento e cuoio - si è accelerato al di là di ogni previsione a partire dal 1988. Da allora alla fine del 1993 sono stati licenziati altri 600 mila dipendenti. (2)

E nei prossimi dieci anni, gli uffici studi della commissione di Bruxelles prevedono la soppressione da un minimo di 800 mila fino a un massimo di altri 1,5 milioni di posti di lavoro. Né il fenomeno è limitato al solo settore tessile. Negli ultimi cinque anni il settore calzaturiero ha ridotto del 25 per cento la manodopera impiegata e secondo il francese Jean Arthuis, autore di un rapporto redatto per la commissione Finanza del Senato, per le stesse ragioni, in Europa, nell'immediato futuro, si potranno perdere ancora dai 3 ai 5 milioni di posti di lavoro. (3)

Secondo l'economista francese Maurice Lauré, alla concorrenza asiatica, resa possibile dai bassissimi salari può essere attribuito circa l'8 per cento della disoccupazione francese. Con la caduta del muro di Berlino si è affacciato sul mercato del lavoro europeo un altro poderoso esercito di concorrenti comprendente anche manodopera altamente qualificata. La A&t per esempio ha affidato la progettazione per collegare i suoi clienti nell'Europa centrale in possesso di tecnologie di comunicazione diverse, a un ingegnere che ha eseguito il compito per poco più di tre milioni di lire contro qualche centinaio che sarebbe stato necessario per un suo collega dell'Europa occidentale. (4)

In un futuro neppure tanto lontano la ricerca di aree ove la manodopera costa meno sarà sempre più frequente tanto più che già oggi, come sostengono i ricercatori francesi della rivista Futuribles:

I satelliti e le reti di comunicazioni consentono di raggiungere qualunque punto del mondo in una frazione di secondo. Dal punto di vista tecnico non fa alcuna differenza dislocare una lavorazione alla periferia di Parigi, in provincia o a Manila.

L'introduzione della microelettronica nei processi produttivi rendendo possibile la globalizzazione del mercato del lavoro e quindi una nuova divisione internazionale del lavoro ha coniugato alla tendenza alla sostituzione del lavoro vivo con i robot anche quella alla sostituzione dei lavoratori meglio retribuiti con altri sottopagati. Ne è scaturita una miscela devastante che se da un lato ha consentito ai paesi e alle imprese più forti di recuperare competitività e quote di mercato; dall'altro ha mandato in frantumi il modello sul quale è stato costruito, nei paesi più industrializzati, lo sviluppo capitalistico in questo secondo dopo guerra. L'epoca della crescita della base produttiva basata sull'espansione della domanda mediante un'accorta politica di alti salari è definitivamente chiusa e si è aperta quella della conquista dei mercati mediante la riduzione forsennata del costo e dei posti di lavoro.

Gli Stati Uniti sono stati i primi a battere la strada della dislocazione delle imprese nelle aree ricche di manodopera a basso costo. Sono ormai famose le cosiddette "fabbriche cacciavite" disseminate immediatamente a sud della frontiera con il Mexico che sfruttano la quasi totalità degli 11 milioni di bambini che lavorano in questo paese. Sono stati i primi anche nell'utilizzo di manodopera clandestina sottopagata proveniente da un'area contigua sottosviluppata. Primi, infine, anche nel rilancio produttivo; ma quella che era sembrata una grande vittoria ha lasciato sul terreno tanti e tali disastri da far temere anche a osservatori non certo ostili al capitale, che forse il rimedio è stato peggiore del male.

La classe più numerosa - la classe media - scrive ancora De Benedetti, nell'articolo già citato - vive in una situazione di crescente disagio e insofferenza. La ripresa c'è nei numeri, nelle statistiche, ma non nella realtà sociale, soffocata dalla delinquenza dilagante, dal degrado metropolitano, da una pericolosa caduta degli ideali e dei valori morali, dai problemi dell'immigrazione, dei bassi salari, dall'instabilità dei posti di lavoro. Al malessere della classe media si aggiunge il malessere che nasce dalle crescenti disuguaglianze sociali e di reddito e dall'inaccettabile aumento della povertà. Inaccettabile perché quando cresce la ricchezza complessiva di una nazione il numero dei poveri deve diminuire, non crescere.

È come chiedere la botte piena e la moglie ubriaca: il fatto è che soltanto e in quanto la tendenza alla caduta del saggio medio del profitto viene compensata dalla riduzione del prezzo della forza - lavoro, che in qualche modo la produzione si è ripresa.

Negli Stati Uniti - ci informa ancora De Benedetti - secondo uno studio pubblicato dall'Economist:

la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, che tra il 1929 e il 1969 si era progressivamente ridotta, da 25 anni a questa parte ha ripreso ad aumentare, tanto che oggi il 20 per cento delle famiglie più ricche dispone del 45 per cento del reddito nazionale, a fronte del 4 per cento soltanto percepito dal 20 per cento delle famiglie più povere. In pratica, i più ricchi hanno un reddito 11 volte superiore a quello dei più poveri. [...] In Europa la situazione è appena migliore e in generale il rapporto tra il reddito del 20 per cento dei più ricchi e il 20 per cento dei più poveri oscilla tra 5 e 7 (6 per l'Italia).

Le Prospettive

Le contraddizioni strutturali del processo di accumulazione hanno spinto i singoli capitalisti a lanciarsi come panzer impazziti contro il salario nella convinzione che riducendo il costo del lavoro avrebbero riconquistato competitività e profittabilità e hanno invocato la più ampia libertà di manovra per abbattere tutti gli ostacoli giuridici ed economici che si frapponevano a questa folle corsa. Ma se è vero che a Mosca un operaio guadagna 75 volte meno che a Parigi, è anche vero che un moscovita consuma 75 volte meno di un parigino. Che poi questi consumi possano essere più o meno superflui è del tutto irrilevante dal punto di vista della logica capitalista. Quel che conta è che vi sia sempre sul mercato una domanda capace di assorbire l'offerta. Nella società moderna, infatti, intanto si è sviluppata una produzione di massa in quanto contemporaneamente si è sviluppata, grazie all'incremento progressivo della forza-lavoro impiegata, una domanda di massa. Sono gli operai, gli impiegati i pensionati che costituiscono la domanda di massa e non Agnelli e Berlusconi. Per quanto ricchi, per quanto smodati, per quanto golosi costoro possano essere i loro consumi sono una goccia nel mare. La riduzione della forza - lavoro impiegata nei processi e/o quella dei salari reali hanno come inevitabile conseguenza la riduzione della domanda di massa e così la montagna è destinata a partorire un topolino. Si è determinato, infatti, l'assurdo che a fronte di investimenti sempre più grandi per l'acquisizione di tecnologie che innalzano la produttività del lavoro in maniera vertiginosa non corrisponde un restringimento del mercato

Negli Stati Uniti dopo poco più di un anno di ripresa già sono visibili i segni di un deterioramento del quadro economico. Dall'inizio dell'anno è stato necessario, per contenere le spinte inflazionistiche, rialzare il tasso di sconto per ben 7 volte. L'aumento del tasso di sconto, paradossalmente, va a colpire innanzitutto le esportazioni rendendole meno competitive. Gli indicatori statistici segnalano, proprio a causa della diminuzione delle esportazioni, un deficit della bilancia commerciale in costante ascesa tanto che nel 1994 è previsto un passivo di 146 miliardi di dollari.

In Italia già ora le cose non brillano. La borsa è in costante perdita e le quotazioni della lira, proprio per favorire le esportazioni, sono in costante diminuzione. La svalutazione monetaria determina però una tendenza al rialzo dei tassi d'interesse e poiché tra l'Italia e gli altri paesi concorrenti, a causa dell' enorme debito pubblico, esiste già un differenziale nei tassi di circa quattro punti è gioco forza contenere i consumi interni per evitare una ripresa dell'inflazione che rischierebbe di vanificare i vantaggi ottenuti con la svalutazione. Per questa ragione la ripresa italiana, più che altrove, interessa solo le imprese e i settori che operano sul mercato internazionale. Le regioni meridionali le cui imprese operano quasi esclusivamente sul mercato interno sono completamente tagliate fuori e in esse l'unico indice economico in ascesa è quello che rileva la disoccupazione ormai prossimo, come per esempio in Calabria, al 30 per cento della forza - lavoro disponibile.

Esaurita la fase in cui i più forti, grazie alla riduzione dei costi, allargano le loro quote di mercato e le loro posizione di dominio, la tendenza alla stagnazione riprenderà il sopravvento conducendo a recessioni e a crisi sempre più gravi alimentando così quel perverso meccanismo per cui ripresa o recessione portano sempre e solo disoccupazione e miseria.

Città Operaio Special. Manovale Edile Operaio Tessile Ing. Elett/Mecc.
Milano 23,6 / 39 15,9 / 40 18,4 / 39 37,7 / 39
Bangkok 10,7 / 44 2,8 / 50 3,0 / 46 29,0 / 46
Bogotà 22,0 / 48 2,8 / 48 8,3 / 48 31,0 / 40
Bombay 2,3 / 47 1,2 / 47 2,1 / 42 3,5 / 47
Budapest 4,2 / 41 3,0 / 45 2,7 / 41 6,8 / 41
Caracas 2,5 / 40 1,5 / 40 1,7 / 40 13,2 / 48
Città del Mex 11,9 / 48 2,5 / 44 4,9 / 45 32,7 / 51
Giacarta 7,7 / 35 2,8 / 42 1,1 / 39 10,3 / 40
Hong Kong 22,0 / 44 2,1 / 54 17,4 / 44 46,3 / 44
Lagos 1,8 / 40 1,1 / 48 1,2 / 40 2,5 / 40
Manila 5,2 / 48 2,1 / 48 2,6 / 48 10,7 / 40
Nairobi 1,2 / 42 0,3 / 42 0,6 / 42 3,9 / 42
Praga 4,2 / 43 2,7 / 43 1,8 / 43 4,8 / 43
San Paolo 12,4 / 44 7,5 / 44 13,1 / 44 43,0 / 44
Singapore 3,1 / 44 7,5 / 44 13,1 / 44 43,0 / 44
Taipei 34,7 / 48 22,5 / 50 14,9 / 48 32,6 / 44
Tabella n 1 tratta da Il Mondo N. 46 Nov. 94 - Reddito netto / ore di lavoro - Il reddito annuo è calcolato in milioni di lire attuali dall'ufficio studi Unione Banche Svizzere
Giorgio Paolucci

(1) Il Mondo N 46 del 21 novembre 94

(2) Riv. cit.

(3) Riv. cit.

(4) Riv. cit.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.