La mina vagante della disoccupazione

La questione in generale

Di solito chi affronta il problema della disoccupazione, analisti, sociologi, politologi, magari sedicenti marxisti, lo fa in termini statistici recriminando di tanto in tanto sulle nefaste conseguenze sociali, ma puntualmente dimenticandosi del quadro di riferimento economico che lo produce, il capitalismo. Aspetto non secondario, non solo perché sono i rapporti di produzione capitalistici la causa prima della espulsione di forza lavoro dai meccanismi produttivi, ma anche perché solo nel capitalismo si registra una particolare quanto antisociale contraddizione tra le esigenze di produzione della ricchezza e la quantità di forza lavoro necessaria per soddisfarle. Da un punto di vista generale, in qualsiasi organizzazione sociale, la disoccupazione, tralasciando per un attimo la miseria e la disperazione che produce, si configura come spreco di risorse umane. Come è possibile che il 10%-15% della popolazione attiva, molto spesso giovane, non venga impiegata nella produzione di merci e servizi. Per quale motivo una società avanzata o arretrata che sia, non impiega tutta la forza lavoro disponibile per migliorare e aumentare il prodotto sociale e la qualità della vita. Sempre in teoria, nel momento in cui si arrivasse ad avere un eccesso di disponibilità di lavoro in rapporto alle esigenze sociali, dovuto ad una migliore organizzazione del lavoro stesso o a un incremento tecnologico, si aprirebbero due possibilità. La prima consisterebbe nel mantenere immutata la ricchezza sociale, continuare la piena occupazione, abbassare i tempi di lavoro necessari liberando così tempo sociale da dedicare a una migliore qualità della vita, bene perseguibile al pari, se non di più, della disponibilità di beni e servizi. La seconda potrebbe essere impostata ad un incremento della produzione e quindi della ricchezza complessiva lasciando inalterati i tempi di produzione e di impiego della forza lavoro. Ne esisterebbe una terza, mediana rispetto alle due precedenti, consistente nel graduare, a seconda delle necessità e delle scelte complessive, i due parametri riguardanti la richiesta di aumento della ricchezza e di tempo libero. La disoccupazione, ovvero il non impiego o il sotto impiego di forza lavoro, diminuisce sempre e comunque le potenzialità produttive, le penalizza . Risulta una spreco di energie e di risorse che se impiegate non potrebbero che migliorare la disponibilità di beni e la qualità della vita. Quindi la disoccupazione si presenta in prima istanza come un fattore antisociale, antistorico, degradante i livelli di sussistenza di chi la subisce. Una sorta di fabbrica al contrario, che produce fame, miseria, milioni di diseredati là dove le condizioni tecnologiche e di organizzazione del lavoro dovrebbero operare nel segno opposto, quello della ricchezza e della sua godibilità.

Ma cosa impedisce alla disoccupazione di non prodursi, e alla organizzazione economica di comportarsi in modo antistorico e antisociale? Sempre rimanendo nel falso scenario della generalizzazione del fenomeno, come farebbero gli analisti e i sociologi a cui si faceva riferimento all’inizio, una prima risposta potrebbe essere ricercata nella non volontà politica di risolvere il problema per il giusto verso o di mettere in atto inopinatamente quelle politiche economiche che lo determinano. Se così fosse dovremmo ritenere che le moderne società sono amministrate da incompetenti e inetti gestori della cosa pubblica e dei rapporti di produzione. Mai come oggi, infatti, la disoccupazione è diventata un fenomeno generale che investe i paesi avanzati come quelli sottosviluppati, colpisce la grande industria come la piccola e media, l’agricoltura come il terziario. È un fenomeno globale come l’economia che lo determina e addebitare tutto questo alla sola mancanza di volontà politica o al dilettantismo delle classi dominanti è , a dir poco, deviante se non addirittura stupido sul piano dell’analisi.

Il punto fermo da cui si deve partire è che lo scenario economico e politico nel quale si inserisce la disoccupazione è determinato dal capitalismo, dai suoi rapporti di produzione, primo fra tutti dal rapporto tra capitale e forza lavoro. Al di fuori di questo rapporto tutto si confonde, si mischia, sia sul piano delle cause che lo determinerebbero, sia sul terreno delle politiche economiche che dovrebbero risolverlo. In termini capitalistici la produzione della ricchezza è possibile solo quando il rapporto di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale non solo è posto come base della produzione in generale, ma quando garantisce la massa e il saggio del profitto necessari. Il che dipende dalle fasi del ciclo economico, dal livello del saggio del profitto precedenti, dalla sua velocità di caduta, dall’impiego di tecnologia, e dal livello della lotta di classe e, soprattutto dal costo della forza lavoro. In caso contrario, quando queste condizioni non si verificano o si verificano in parte, la produzione della ricchezza diminuisce, gli investimenti calano in assoluto o crescono ad un ritmo inferiore, aumentano i licenziamenti e diminuisce l’occupazione. Questo accade non soltanto perché nelle fasi di crisi si produce di meno e si crea inevitabilmente una eccedenza di forza lavoro, ma anche perché per il capitale non è più conveniente continuare a mantenere la forza lavoro a quei saggi di sfruttamento. In queste condizioni, dettate e imposte dai meccanismi di valorizzazione del capitale, o la forza lavoro subisce drasticamente una decurtazione del salario tale da giustificare la continuazione del suo impiego, cioè della continuazione dello sfruttamento ma a livelli più intensi, o nuovi impianti produttivi ad alto contenuto tecnologico andranno progressivamente sostituendosi alla mano d’opera, e allora l’espulsione dalla produzione diventa un atto necessario.

Per il capitale l’importante è il controllo dei costi di produzione di cui il costo del lavoro è quello su cui più facilmente si possono effettuare pressioni. E se alle crisi si aggiunge l’inevitabile esasperazione della concorrenza, ne consegue che l’aumento delle innovazioni tecnologiche e il riassetto produttivo non sono la causa della disoccupazione, ma con essa vanno considerate delle conseguenze di come si produce ricchezza. Così come non può assurgere a causa primaria la presunta necessità di produrre di meno o a ritmi di incremento minori. Quando mai e per quali motivi una società dovrebbe produrre di meno, non soddisfare quei bisogni che precedentemente soddisfaceva e rinunciare all’apporto di lavoratori in grado di produrre e di aumentare la ricchezza sociale. Più semplicemente succede che nelle fasi di crisi aperta o strisciante, non è più conveniente per il capitale mantenere, al medesimo saggio di sfruttamento della forza lavoro, quei livelli retributivi. In altri termini lo spreco sociale di non utilizzare tutta la forza lavoro teoricamente disponibile è per il capitale un male minore rispetto a quello di continuare a mantenere nei meccanismi produttivi dei lavoratori il cui costo non è più remunerativo per le sue necessità di valorizzazione. Non è una novità che per il capitalismo l’obiettivo ultimo non è rappresentato dal soddisfacimento delle esistenze sociali, dal livello di vivibilità dei rapporti umani, dalla qualità di vita della stragrande maggioranza della popolazione, ma il profitto, il massimo del profitto possibile nelle condizioni economiche date. Quando queste condizioni impongono le ristrutturazioni e la espulsione di lavoratori dalla produzione, la disoccupazione diventa per il capitale non solo una necessità imprescindibile ma anche un obiettivo da raggiungere a qualsiasi costo.

Le presunte ricette contro la disoccupazione

Collocata la questione nel suo condizionato e necessitato contesto, appaiono come contraddittorie e strumentali tutte le dichiarate intenzioni dei governi di turno, italiano ed europei, di mettere mano alla disoccupazione quale problema da risolvere al meglio e in tempi brevi. La contraddizione si sviluppa sul doppio binario, quello economico e quello politico. Da un lato la società capitalistica, in termini di stretta logica economica non può che produrre disoccupazione nei tempi e nei modi dati dallo sviluppo delle sua stessa forma produttiva, dall’altro, sul terreno della amministrazione della pace sociale, deve affrontare il problema da lei stessa creato nel tentativo di dargli una parvenza di soluzione se non altro per mantenere il proprio controllo sul mondo del lavoro senza mettere in forse la pace sociale e con essa i meccanismi di sfruttamento della forza lavoro. La borghesia non si è quasi mai interessata delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato, e quando lo ha fatto è stato perché le condizioni di miseria e di affamamento erano così gravi che prima di passare all’aperta repressione poteva tentare di giocare qualche carta a sussidio dei più diseredati. Oggi il problema della pauperizzazione e della disoccupazione sta toccando vertici impensabili fino a qualche decennio fa, ed è naturale che anche al più disattento dei governanti borghesi ciò appaia chiaramente come una mina vagante la cui esplosione non deve cogliere impreparata la società. Non tanto e non solo perché salterebbe la pace sociale, ovvero la migliore delle condizioni possibili per la perpetrazione dello sfruttamento della forza lavoro, ma anche perché con la pace sociale potrebbero saltare in aria equilibri economici e sociali ben più importanti. Ecco perché le borghesie, e quella italiana in primo luogo, dopo aver creato il problema di milioni di disoccupati, problema tanto vasto e profondo quanto irreversibile, sono costrette a muoversi. Ecco perché sul tavolo del nuovo governo, al primo posto, campeggiano le ricerche per una politica economica che sia in grado aggredire la spinosa questione. Le ricette sono tante, alcune assolutamente obsolete, altre fantasiose. Tre le seconde, possiamo citare quella del governo Prodi, secondo la quale si potrebbero trovare fondi da dedicare alla creazione di nuovi posti di lavoro, attingendo in parte alle riserve in valuta pregiata ( dollari) giacenti presso la Banca Centrale. In termini semplici il ragionamento che sorregge questa ipotesi è questo: Dopo la nascita dell’Euro gli scambi commerciali, i prestiti finanziari come qualsiasi altro tipo di transazione avverrà con la nuova moneta unica europea a spese del dollaro. Ne consegue che tutte le riserve in dollari, in precedenza necessarie agli stati europei per partecipare agli scambi continentali, diverrebbero superflue, per cui se si attingesse in parte a queste risorse per finanziare una politica in favore dell’occupazione sarebbe cosa utile oltre che praticabile senza gravare in modo particolare sui bilanci dello stato. Ma a parte le modalità di impiego di questo capitale che costituiscono il vero problema delle società moderne per quanto riguarda la ridefinizione del rapporto tra capitale e forza lavoro, rimane la sua praticabilità che tale sembrava essere solo per Prodi e i suoi consiglieri economici. A questa proposta, del resto tutta da definire nei modi e nei tempi oltre che nei dettagli operativi, il mondo della finanza è insorto. Prodi ha ricevuto tirate d’orecchie sia all’interno che da parte dell’allora ministro delle Finanze tedesco.

La critica si articolava su tre fronti. Innanzitutto per gli amministratori del capitale finanziario le scorte sono scorte e tali devono rimanere a garanzia della stabilità di ogni paese comunitario. Non ha nessuna importanza che il valore delle scorte, sempre e comunque necessarie, sia espresso in dollari o in qualsiasi divisa internazionale non comunitaria. In seconda istanza le scorte in dollari potrebbero servire per le transazioni commerciali con gli Usa e l’area del dollaro senza doverne comprare altri. Terzo motivo, che era quello più paventato, il rischio di inflazione. Come sappiamo il Governo Prodi è caduto, ma c’è da ritenere che se anche fosse rimasto in piedi difficilmente avrebbe potuto mettere in atto un simile piano.

Di tutt’altro orientamento è la soluzione che è uscita da un summit europeo al quale ha partecipato l’ormai onnipresente ex premio Nobel Modigliani. È sorprendente come le banalità possano assurgere a ponderose teorie economiche. Se l’idea Prodi aveva se non altro il pregio dello sforzo di frugare tra le pieghe del capitalismo, in termini creativi, per trovare la più economica delle soluzioni, al di là della sua praticabilità, quella dei cervelloni europei capeggiati da Modigliani è addirittura sconcertante: posti di lavoro uguale investimenti. Investimenti uguale a basso costo del denaro e del lavoro. Occupazione uguale a basso costo del lavoro. Quale novità signor premio Nobel!! Ciononostante prendiamo in considerazione l’innovativa formula perché ci consente di valutare sia l’impossibilità di risolvere in termini definitivi il problema, sia l’inferno sociale nel quale verrà ulteriormente gettata la forza lavoro nel momento in cui una simile impostazione dovesse percorrere sino in fondo il suo percorso nel quadro capitalistico attuale, percorso peraltro già abbondantemente iniziato. Modigliani in realtà ha fatto il percorso opposto, è partito dalle cause della disoccupazione per poi fornire la ricetta risolutiva. La causa sarebbe la mancanza di investimenti, la soluzione starebbe nel creare le condizioni per allargare la base produttiva, ovvero nel favorire gli investimenti. A parte la veloce considerazione in base alla quale dovrebbe essere chiaro anche a chi fa dei rapporti di produzione capitalistici una sorta di scienza rivelata che gli investimenti calano, o aumentano in maniera insufficiente a sostenere l’occupazione, solo quando i meccanismi di valorizzazione del capitale entrano in crisi. Da cui se ne dovrebbe dedurre che la mancanza o l’inadeguatezza degli investimenti, al pari della disoccupazione, è un effetto delle crisi economiche e che in nessuno caso può stabilire da sola un rapporto di dipendenza causale con la disoccupazione. Entrambi discendono dal medesimo fattore economico che li crea e li condiziona reciprocamente. Il che dovrebbe costringere i Nobel e i parrucconi di turno a legare direttamente la disoccupazione alla crisi dei profitti. L’equazione: meno investimenti meno posti di lavoro è monca e di per sé inspiegabile. L’altra : meno profitti più crisi uguale a meno investimenti più disoccupati è certamente più pertinente. Il problema è che quando si parla, sia a destra che a sinistra, ci si dimentica o si finge di dimenticare che l’ambito all’interno del quale i fattori economici che operano è quello capitalistico. Si sorvola o non si prende in considerazione che il capitalismo si basa sullo sfruttamento della forza lavoro e che il rapporto che lega il capitale al lavoro salariato, pur rimanendo inalterato negli aspetti generali di appropriazione di plus valore, modifica le forme e l’intensità dello sfruttamento a seconda delle crisi e dei saggi del profitto.

Non solo, ma non si è sufficientemente attenti ai modi di essere e di esprimersi del capitalismo di oggi, le cui tensioni e i problemi di accumulazione che le generano, sono profondamente mutati e ingigantiti rispetto a quelli di qualche decennio fa. Il che propone la disoccupazione non più come il solito fenomeno che si genera nelle crisi economiche e che viene riassorbito nelle fasi di sviluppo. Né si è compreso che lo sviluppo economico non significa più automaticamente aumento dei posti di lavoro. Nel capitalismo odierno, che la politologia contemporanea continua a chiamare con un insulso neologismo post industriale, perché possano crearsi nuovi posti di lavoro, stabili, remunerativamente compatibili con un normale tenore di vita, non stravolti nella loro essenza ed esistenza dal precariato, dalla flessibilità e dalla mobilità, occorrerebbe che lo sviluppo economico potesse durare per dieci-quindici anni di fila a tassi di incremento del Pil oltre il 3%. Da vent’anni a questa parte le vicende del capitalismo internazionale e nostrano si sono invece proposte in tutt’altri termini. Le recessioni si inseguono con ritmi sempre più frequenti, le devastazioni economiche sono più vaste e profonde, il Pil, ovvero la ricchezza socialmente prodotta cresce a ritmi minori. Il distacco tra le proiezioni di crescita e le realizzazioni si apre a forbice costringendo gli analisti a correggere il tiro ogni sei mesi e la disoccupazione da fattore legato alle congiunture economiche è diventato endemico.

Il capitalismo oggi

Qualsiasi politica economica che abbia come obiettivo la creazione di nuovi posti di lavoro, ammesso che sia veritiera, non il solito approccio propagandistico in chiave di consenso elettorale, deve fare i conti con l’attuale livello di vita e di competitività del capitalismo. Per cui quei pochi posti di lavoro che eventualmente venissero creati, senza minimamente scalfire il fenomeno nel suo complesso, sarebbero in sintonia con le necessità di super sfruttamento della forza lavoro, a cui verrebbero imposte condizioni di impiego che sino a pochi anni fa erano considerate inammissibili, non degne di un paese civile.

Il capitalismo contemporaneo, dall’area americana a quella giapponese ed europea, Italia compresa, è alle prese con una delle sue maggiori contraddizioni, la caduta dei saggi del profitto. Problema tanto maggiore quanto più precario e difficile rende l’obiettivo ultimo dei rapporti di produzioni capitalistici, la valorizzazione del capitale. Il paradosso è che più aumenta il tasso di sfruttamento della forza lavoro, più aumenta la massa dei profitti realizzati, più il saggio del profitto tende a diminuire. Sempre più rari e brevi sono i momenti in cui la tendenza viene tamponata o invertita, poi il corso della caduta riprende il suo cammino. L’argomento che si presenta lungo e complesso è stato da noi affrontato più volte e non intendiamo riprenderlo in questa occasione, vale solo la pena aggiungere che, in termini pratici, avviene che sempre maggiori quantità di capitale finanziario si investono produttivamente per ottenere saggi del profitto minori creando degli squilibri non soltanto al singolo capitale, piccolo o gigantesco che sia, ma a tutta la organizzazione della società capitalistica. La contrazione del saggio del profitto, certamente fenomeno non nuovo nei meccanismi produttivi capitalistici ma statisticamente intenso come non mai, ha come prima e immediata conseguenza quella di accelerare e intensificare un’altra caratteristica contraddizione, la crisi economica. Più il capitalismo ha problemi di profitti più il suo processo di valorizzazione viene messo in discussione. Le crisi economiche si producono in episodi di profonda devastazione sociale con la creazione di milioni di disoccupati e diseredati, quando le potenzialità produttive e la massa di ricchezza realmente prodotta non ha riscontri nella storia dell’umanità. I loro contorni si dilatano ad aree geo economiche a dimensioni mondiali e i loro tempi di apparizione si concentrano a ritmi strettissimi. La concorrenza viene esasperata dando luogo a episodi di feroce guerra commerciale su tutti i mercati e le necessità di aumentare i ritmi di sfruttamento e di contenere il costo del lavoro è la regola universale che investe di sé tutti i segmenti del capitale mondiale. La stessa globalizzazione, intesa come necessità per i grandi capitali speculativi e produttivi di avere a disposizione aree di intervento sempre più vaste, di decentrare e scomporre il processo produttivo, di controllare strettamente i mercati delle materie prime escludendone l’accesso ai concorrenti, di quelli finanziari, commerciali e di reperimento di forza lavoro a basso costo, è figlia della crisi di valorizzazione del capitale.

Un altro segno di debolezza del capitalismo contemporaneo è rappresentato dal debito pubblico. A parte l’Italia che in questo delicato settore ha una sorta di primato mondiale tra i paesi ad alta industrializzazione pari al 120% del Pil, non c’è economia che non si trascini un deficit pubblico inferiore al 50% della ricchezza socialmente prodotta. Le ragioni che spiegano la nascita e l’esplodere di un simile fenomeno, praticamente inesistente sino a dieci anni fa, stanno tutte nel tentativo dei vari governi di sostenere le rispettive asfittiche economie con crediti agevolati, detassazioni per i grandi capitali, ammortizzatori sociali e tutto quanto fosse funzionale a reggere la concorrenza internazionale. Per ottenere questo risultato lo stato non aveva altro mezzo che indebitarsi con i sottoscrittori nazionali ed esteri emettendo titoli ad alto rendimento pur di entrare in possesso di capitali da riciclare nel mondo produttivo. Non è un caso dunque, né una combinazione cronologica che, quasi contemporaneamente in Europa come negli Usa, il debito pubblico non si è potuto più conciliare con il mantenimento di quel poco di stato sociale che si era andato costruendo in decenni di lotte e di rivendicazioni operaie. Più soldi e agevolazioni alle imprese hanno significato un peso debitorio crescente da parte dello stato, meno previdenza, assistenza sociale e meno salari per i lavoratori. In compenso si è dato il via ad un eccezionale processo di ristrutturazione e concentrazione nella produzione reale come nel settore finanziario. Non si sono creati nuovi posti di lavoro ed è aumentata la disoccupazione sino a diventare una mina vagante la cui pericolosità, al momento solo potenziale, turba le notti degli amministratori borghesi. Un significativo esempio ristretto, limitato all’ambito micro economico di una singola impresa ma che ben riproduce le relazione macro economica che lega strettamente il debito pubblico allo smantellamento dello stato sociale e alla incapacità del sistema di produrre significativi nuovi posti di lavoro, è la rottamazione, piccola metafora dell’essere e del comportarsi iniquo e contraddittorio della società capitalistica. Lo stato agevola il grande capitale industriale pagando di tasca propria l’incentivazione delle vendite (in questo caso la Fiat. Negli anni precedenti il contributo dello stato fu di ben altra portata, l’ultimo è stato di 40 mila miliardi). Gli consente di combattere efficacemente la concorrenza sul mercato interno, di avere un immediato vantaggio da un punto di vista commerciale e dei profitti, di iniziare o completare il processo di ristrutturazione ad alto contenuto tecnologico che non contempla la creazione di nuovi posti di lavoro. Nella fase immediatamente successiva, saturato il mercato, diminuita la produzione si richiede la cassa integrazione o la libertà di licenziare, si invoca ancora lo stato perché crei le condizioni legislative necessarie a diminuire ulteriormente il costo del lavoro e i salari. Il tutto in perfetto stile capitalistico dove la ricchezza prodotta con l’aiuto dello stato non fa altro che esasperare il ciclo economico di crisi-ripresa-crisi che si ritorce contro i lavoratori, formalmente soggetti di produzione ma materialmente oggetti di sfruttamento.

Non atteggiamento politico, dunque, ma scelta economica obbligata è stata quella di smantellare lo stato sociale dopo che il debito pubblico ha raggiunto e superato il livello di guardia. L’atteggiamento dello stato in favore della produzione non poteva conciliarsi con la spesa per la sanità e le pensioni, per i giovani e per la scuola, soprattutto a quei livelli di indebitamento. Ecco perché nel capitalismo attuale la disoccupazione è un fattore ineliminabile, la pauperizzazione è in continuo aumento, l’attacco alla forza lavoro ha raggiunto livelli inimmaginabili, e la crisi del saggio del profitto spiega anche come mai il capitale per sopravvivere se la debba prendere con gli anziani, i malati e i giovani oltre che con i lavoratori in generale, ovvero solo ed esclusivamente con le componente più deboli della società.

Del pari, gli sforzi che la classe imprenditoriale sta compiendo per risparmiare sugli investimenti in conto capitale e sulla svalutazione della forza lavoro rientrano a pieno titolo nel quadro generale di questa crisi. Il capitalismo chiede a gran voce di avere la strada spianata su tutti i fronti degli investimenti. Invoca la diminuzione del tasso ufficiale di sconto perché il danaro costi meno e quindi possa avere più facile accesso al credito e risparmiare sugli investimenti. Invoca la riduzione degli oneri sociali e una diminuzione delle tassazioni sui profitti. Prevede di combattere la concorrenza interna e internazionale attraverso la ristrutturazione tecnologica che finisce per essere un momento di accelerazione della scomparsa di posti di lavoro. Sul fronte interno le nuove tecniche manageriali hanno inventato il concetto economico della fabbrica snella basato sul riordino dei fattori della produzione in termini di assoluto risparmio gestionale. Si è introdotto il just in time nella gestione delle scorte, ovvero l’uso dello stoccaggio delle materie prime e dei semi lavorati solo un momento prima del loro impiego, in modo da risparmiare sui costi dei depositi.

Di ben altro tenore, per intensità, velocità e conseguenze sociali, è il progetto di svalutazione del costo del lavoro, progetto che in buona misura è già stato realizzato dal governo precedente e che aspetta di essere portato a compimento dall’attuale. L’attacco al mondo del lavoro sotto forma di diminuzione del potere d’acquisto del salario diretto (busta paga) e di cancellazione di quello indiretto (assistenza e previdenza), di introduzione di normative contrattuali basate sulla più selvaggia mobilità e flessibilità con un corredo di tagli retributivi sino al 60% sono proporzionali solo alla situazione di crisi del capitale. Non è certo una novità che il capitalismo viva sullo sfruttamento della forza lavoro e che da sempre il capitale abbia perseguito non soltanto il profitto bensì la sua massimizzazione nelle condizioni sociali e tecnologiche e di competitività date, ma attacchi come questo appartengono solo a fasi economiche eccezionali come quelle che precedono le guerre in cui la necessità di svalutazione del capitale costante e di quello variabile, va orientandosi verso la più sbrigativa soluzione della distruzione degli stessi quale migliore condizione per un nuovo ciclo di accumulazione. Certamente le guerre hanno anche altri obiettivi da raggiungere e ben altre conseguenze da produrre sul piano della barbarie e della devastazione, ma in tempi di pace sociale, questo attacco si configura come un vero e proprio atto di guerra contro la forza lavoro. Una guerra intestina, interna ai fattori della produzione, gestita dagli organismi del dominio di classe che vanno dal governo ai sindacati, dai partiti tutti alle istituzioni democratiche, e che ha le sue vittime nei milioni di disoccupati e diseredati, di super sfruttati, di giovani inoccupati, tutti con la prospettiva a breve termine di non avere una pensione e una adeguata copertura sanitaria.

È in questo scenario che vanno collocate le politiche occupazionali di cui tanto si parla in questo periodo, e di questo scenario è bene tenere conto se si vuole capire quali prospettive si aprono alle speranze di creazione di eventuali nuovi posti di lavoro e a quali condizioni. Ad ogni quadro di riferimento economico non può corrispondere che una politica per l’occupazione, sempre che sia messa in atto, ed è quella che meglio soddisfa la continuità della perpetrazione dello sfruttamento nella situazione capitalistica data. E queste condizioni sono drammatiche. Oggi, per tornare a Modigliani e compagni, ma il discorso potrebbe essere allargato al nuovo governo D’Alema - Cossutta - Cossiga e un domani, anche se poco probabile, ad un governo spostato più a sinistra con Bertinotti a fungere da nocchiere, la politica per l’occupazione non può che comprimere il costo del lavoro ai livelli di mera sussistenza, se non al di sotto. Questa, e non altra, è la condizione perché qualche posto di lavoro veda la luce. Se in termini capitalistici è valida l’asserzione che l’occupazione è possibile solo attraverso un incremento degli investimenti, soprattutto la dove la disoccupazione ha raggiunto livelli allarmanti, il problema diventa: a quali condizioni il capitale è oggi disposto a investire e dove. La risposta è drammaticamente semplice. O il capitale ha la garanzia economica e giuridica di avere a disposizione una forza lavoro a bassissimo costo, mobile, flessibile, da utilizzare solo nei momenti più opportuni per poi gettarla nell’inferno della disoccupazione quando il mercato e i tassi di sfruttamento la rendono superflua, oppure di investimenti non se ne parla. Buona parte di queste condizioni legislative sono già state approntate dal primo governo di centro sinistra di Prodi, al loro completamento ci penserà il nuovo governo di centro sinistra di D'Alema. Il capitale può infatti fare conto sul lavoro in affitto, sui contratti a termine, sui patti territoriali e sui contratti d’area. Contratti che prevedono salari inferiori a quelli che precedentemente venivano corrisposti per le medesime mansioni sino al 60%, con l’ulteriore prerogativa di essere a termine, quindi senza nemmeno la sicurezza di una continuità occupazionale. Ma al capitale questo non basta. Si vorrebbe, sempre in nome della occupazione, che questi contratti venissero estesi a tutto il territorio nazionale e non fossero limitati soltanto alle aree economicamente depresse. Si vorrebbe fare del mercato del lavoro una sorta di pozzo di S. Patrizio nel quale attingere come e quando si vuole, a costi di saldo. L’obiettivo è quello di spogliare la forza lavoro di qualsiasi potere contrattuale, ridurla ad una preda inerme pronta ad essere addentata dalle sempre più voraci fauci del capitale. Altrimenti scatta la perfida minaccia di decentrare la produzione all’estero, in altri mercati dove il costo della forza lavoro è nettamente inferiore. Il ricatto è perentorio, lo abbiamo sentito più volte per bocca di Fossa, Agnelli, Tronchetti Provera e compagni: O ci garantite costi del lavoro bassi, e allora noi investiremo al sud al nord non importa dove, favorendo una politica della occupazione, oppure i nostri investimenti andranno all’estero dove con due cento, tre cento mila lire al mese si trovano masse di diseredati pronti a lavorare otto - dieci ore al giorno senza fiatare. L’altra irrinunciabile condizione in base alla quale gli investimenti si orientino verso la solita politica per l’occupazione è rappresentata dalla flessibilità in entrata che in uscita. C’è da dire che il vocabolario borghese riesce a trovare dei termini delicati, quasi leziosi per dire le cose più tremende. Per flessibilità in entrata si intende che il proletario che ha la straordinaria opportunità di trovare un posto di lavoro, deve accettare tutti i condizionamenti normativi di cui si accennava precedentemente, ovvero il lavoro interinale usa e getta, i contratti a termine, i patti territoriali e i conseguenti contratti d’area. La mobilità interna ed esterna. Salari inferiori sino al 60%, l’obbligatorietà degli straordinari, formula con la quale si rallenta la stessa creazione di nuovi posti di lavoro. In più con la prospettiva, lavorando qualche mese se non qualche settimana all’anno, di non costruirsi una carriera previdenziale se non dopo 60 anni di contributi. Di accedere sempre di meno ai consumi sociali e con una copertura sanitaria irrisoria. Fuori da qualsiasi parvenza di stato sociale, senza futuro se non quello della miseria per se e per la propria famiglia. Per mobilità esterna si intende che il solito nostro lavoratore, una volta superate le forche caudine dell’occupazione a condizioni normative e di lavoro semi feudali, può essere licenziato in qualsiasi momento senza che intervengano nemmeno le più semplici ed elementari norme sindacali a sostegno del lavoratore e dell’uomo che ci sta dentro, sempre più compresso e stretto... Stretto di soldi, misero nei consumi, stritolato dai ritmi di lavoro e poi, puntuale come la morte, può arrivare il licenziamento senza appello. Questo è il futuro che l’attuale società capitalistica sta preparando per i lavoratori. Se ci saranno, quindi, la volontà politica, un periodo di lungo sviluppo, e adeguati investimenti, sì ci sarà occupazione ma avrà le stimmate del capitalismo di oggi. Sarà in nome della flessibilità, della assoluta precarietà del posto di lavoro, della mobilità, dei bassi salari, del super sfruttamento e della mancanza di stato assistenziale e previdenziale. Sarà una specie di barbarie sociale dove, paradossalmente, coloro i quali avessero la fortuna di avere un posto di lavoro alle condizioni che abbiamo visto, verrebbero considerati dei privilegiati nei confronti dei precari di lungo periodo, dei lavoratori saltuari e dei disoccupati, consentendo così alla borghesia di compiere l’infame rituale di dividere i lavoratori per meglio dominarli e per ulteriori e più favorevoli condizioni di sottomissione al capitale.

Ma queste non sono politiche per l’occupazione. La mina vagante della disoccupazione che dovrebbe essere disinnescata grazie a interventi in grado di creare posti di lavoro e quindi di allentare la tensione sociale, lo spauracchio che la borghesia vorrebbe esorcizzare, in realtà finisce per avere ulteriori motivi di deflagrazione. Tutte le misure che si sono sin qui prese e quelle che entreranno in vigore, altro non sono che aiuti per il capitale, per i suoi problemi di profitto e di valorizzazione pagati a caro prezzo dai proletari. Invece di parlare di politiche per l’occupazione sarebbe più corretto parlare di politiche a sostegno delle necessità concorrenziali della macchina produttiva capitalistica che è tanto più efficace e competitiva quanto più ha a disposizione una forza lavoro sottopagata e non tutelata. Non sono gli investimenti che vanno verso il mondo del lavoro per tentare di risolvere il problema della disoccupazione ma il contrario. Sono le peggiorate condizioni salariali e contrattuali che vanno incontro alle pressanti necessità del capitale che solo a queste condizioni di drastico abbattimento del costo della forza lavoro considera interessanti gli investimenti. Questo è il dato obiettivo, l’unico possibile all’interno degli attuali rapporti di produzione capitalistici, indipendentemente dalle preoccupazioni borghesi per la conservazione della pace sociale o dalla volontà politica, ammesso che ci sia, di favorire in qualche modo l’occupazione per alleviare la piaga umana e sociale della disoccupazione. In entrambi i casi, sia che si tratti di carità pelosa o di gestione preventiva delle tensioni sociali, ogni politica economica che abbia come obiettivo la creazione di nuovi posti di lavoro dovrà tenere conto del quadro capitalistico nel quale si inserisce. Ogni altra ipotesi è fantasiosa, idealistica nella migliore delle ipotesi, ipocrita in tutti gli altri casi. Hanno fatto tremare le buone intenzioni del nuovo governo del neo presidente D’Alema quando, nel suo discorso d’insediamento, poi ribadito nel programma di governo, ha dichiarato che la questione occupazione è in cima ai pensieri dei nuovi amministratori e che lo sforzo sarà quello di creare le condizioni per una nuova impresa che sappia produrre nella economia della globalizzazione. Che occorre creare nuova occupazione perché si possa produrre nuova ricchezza. La nuova impresa è quella che investirà solo a condizione che il costo del danaro sia basso, che abbia gli sgravi fiscali e l’abbassamento degli oneri sociali e soprattutto un vero e proprio abbattimento del costo del lavoro. La nuova occupazione, sempre che si produca, sarà caratterizzata da salari dimezzati, precarietà del posto di lavoro, dalla flessibilità e dalla mobilità, ovvero dalla assoluta sottomissione della forza lavoro ai bisogni e ai voleri del capitale, con sempre meno diritti e garanzie. La nuova ricchezza à quella che verrà prodotta secondo le nuove vessatorie norme dello sfruttamento dei lavoratori e con le coperture assistenziali e previdenziali ridotte ai minimi termini. Se questo, e solo questo, è il futuro che il capitalismo è in grado di garantire sono maturi i tempi perché un simile sistema sociale cessi di produrre le sue nefaste contraddizioni, perché l’economia e la politica che la sorregge siano strappate dalle mani di un capitale sempre più cattivo, sempre più arrogante, ma questo è un altro discorso.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.