Nuove strategie di sfruttamento

Flessibilità del salario e dell’occupazione

Viviamo un periodo storico di intensi e complessi cambiamenti risultanti dal lungo processo avviato nei primi anni settanta, che ha visto il dispiegarsi per tappe successive di un’articolata strategia di destrutturazione e ricomposizione della sfera salariale e di riduzione e flessibilizzazione dell’occupazione.

In questo articolo ci proponiamo di ripercorrere i passaggi essenziali di questo processo, soffermandoci in modo particolare sugli avvenimenti dell’ultimo decennio e sulle prospettive che aprono.

Il salario può essere scomposto, schematicamente, in tre fasce:

  1. Retribuzione di base.
  2. Retribuzione professionale.
  3. Retribuzione di produttività.

La retribuzione di base è la frazione stabilita dai contratti collettivi di categoria ed è direttamente collegata alla riproduzione del valore d’uso della forza lavoro. Nata come elemento di tutela del potere d’acquisto dei salari di fronte a fattori esterni alla produzione come l’aumento del costo della vita, spese di trasporto o dei servizi sociali, proprio in virtù del ruolo centrale che svolge, è stata, nel tempo, la parte di salario più attaccata e progressivamente marginalizzata.

La retribuzione professionale corrisponde al minimo tabellare e al livello di categoria e dovrebbe remunerare la capacità professionale dei lavoratori, ma nel sistema di fabbrica, scomparsa ormai qualsiasi traccia di vera professionalità, è di fatto legata, sotto varie forme, a parametri di efficienza e di produttività individuali (rapidità di esecuzione di singole operazioni, efficienza nel controllo di più macchine ecc.).

La retribuzione di produttività è il risultato di una parziale ridistribuzione degli incrementi di produttività comunque realizzati che può essere erogata collettivamente (cottimo di gruppo, premi collettivi legati all’utile o altre forme) o individualmente (incentivi, premi di obiettivo o di produttività).

Questo modello si struttura e consolida nell’arco di tempo che va dal dopoguerra alla metà degli anni ’70. In questi anni, leggi e contratti vengono concepiti con il duplice scopo di dare una certa regolarità al rapporto di lavoro, fissando alcune regole di tutela minima normativa per controllare più razionalmente la piaga diffusa del lavoro nero e della sottoccupazione e nel contempo controllare rigidamente la dinamica dei salari per favorire il processo di consolidamento e riorganizzazione industriale.

In questa logica, vengono varate diverse leggi come la L. Erga omnes del 1959 che sancisce l’obbligatorietà dell’applicazione dei contratti nazionali di categoria e fissa però i tetti massimi salariali penalizzando così i lavoratori, la L. 1369/1960 sugli appalti che stabilisce il parziale divieto di utilizzare lavoratori precari, la L. 230/1962 sui contratti di lavoro a tempo indeterminato, e ancora, l’istituzione della CIG ordinaria e straordinaria a copertura di crisi occupazionali conseguenti ad interventi di ristrutturazione e riconversione produttiva. Coerentemente, la contrattazione normativa e salariale ha un carattere fortemente accentrato. Gli stessi sindacati impediscono in tutti i modi ai lavoratori di avanzare rivendicazioni aziendali o mettere in discussione le odiose differenze di salario presenti in tutto il territorio (gabbie salariali). Solo alla fine degli anni 1950, sulla spinta del cosiddetto miracolo economico e dei conflitti che lo caratterizzano, viene introdotta la contrattazione articolata, peraltro sempre strettamente controllata e diretta dalle centrali sindacali.

Sempre con lo scopo di attenuare le oscillazioni salariali e la conflittualità operaia, viene introdotto e perfezionato nel tempo un complesso sistema di parziale adeguamento automatico dei salari al variare del costo della vita (scala mobile).

Il meccanismo è nettamente insufficiente a coprire l’erosione del potere di acquisto dei salari dall’inflazione, è fortemente sperequativo e soddisfa egregiamente lo scopo per cui è stato concepito, ma, paradossalmente, dalla metà degli anni 1970 fino alla sua definitiva soppressione nel 1991 sarà l’unica difesa reale, anche se sempre più debole, dei redditi dei lavoratori.

Nelle fabbriche, la produzione è organizzata, in massima parte, secondo i rigidi principi del fordismo, le cui caratteristiche principali sono:

  1. flusso continuo del prodotto lungo le linee di produzione organizzate per stazioni fisse in cui i lavoratori svolgono una serie di operazioni pianificate e predeterminate;
  2. scomposizione/semplificazione del lavoro in operazioni elementari, uniformi e poi in semplici movimenti consecutivi;
  3. forte standardizzazione del prodotto finale orientato a un mercato che assorbe prodotti indifferenziati a basso costo.

A questo sistema corrisponde una vasta stratificazione di livelli salariali legati alla produttività, determinati da punteggi assegnati alle diverse mansioni ed operazioni svolte lungo le postazioni del ciclo produttivo.

Le grandi lotte del 1967/73 tentano invano di aprirsi nuovi spazi di contrattazione sul salario, sui ritmi, sulle pause. Per un breve periodo tende ad affermarsi il concetto che il salario non deve essere legato ad una precisa prestazione lavorativa quanto a ciò che è necessario alla forza lavoro per riprodursi e mantenersi. La struttura sindacale, dapprima subisce l’iniziativa operaia, poi si mobilita per contenerla e ingabbiarla. Le rivendicazioni egualitarie vengono rapidamente soffocate, mentre la critica all’inquadramento in rigide e artificiose qualifiche viene utilizzata come leva per reintrodurre in fabbrica il concetto di professionalità. Ormai completamente svuotato dalle nuove metodologie produttive caratterizzate da una progressiva semplificazione e standardizzazione delle lavorazioni e da un’elevata intercambiabilità della manodopera, la professionalità non è che un nuovo pretesto per legare i salari alla produttività e alla mobilità interna.

Con i contratti collettivi del 1972-73 infatti, chiusa ormai la stagione delle lotte, viene introdotta una nuova scala parametrale (Inquadramento unico I.U.) nella quale i lavoratori vengono inquadrati in una classificazione unica articolata su sette categorie professionali e otto livelli retributivi ai quali corrispondono eguali valori minimi tabellari mensili. A dimostrazione di quanto detto, nel settore metalmeccanico, il 70/80% dei lavoratori sono inquadrati ancora oggi nel 3° livello (operai generici).

In estrema sintesi dunque, alla metà degli anni 1970, le principali voci che costituiscono i salari sono le seguenti.

Retribuzione base

  • Minimi tabellari: e’ legata al tempo della prestazione di lavoro ed è indipendente dalla quantità e qualità di produzione resa dal lavoratore.
  • Contingenza: sistema di parziale copertura automatica dei salari dall’inflazione;
    * 1945-46 istituzione della scala mobile;
    * 1951-69 definizione dell’indice e del valore del punto;
    * 1975 istituzione del punto unico e ridefinizione della base indice del costo della vita.
  • Scatti di anzianità: aumenti periodici legati alla permanenza nel luogo di lavoro.
  • Assegni familiari: integrazione salariale fissata per legge per il carico familiare.

Retribuzione professionale

  • Qualifiche: sistema di classificazione legato alla organizzazione del lavoro e diviso per categorie e mansioni. Dal 1972-73 viene introdotto l’inquadramento unico (UI) nel quale è prevalente la della 3° categoria (operaio comune).

Retribuzione di produttività

Incrementi retributivi erogati in rapporto a obiettivi produttivi:

  • premio di produzione: incentivo erogato collettivamente e contrattato periodicamente;
  • cottimi: incremento di salario erogato per la produzione che eccede da quella standard o per le frazioni di tempo risparmiate sul normale tempo di lavoro.

Salario differito

  • Tfr: parte di salario che l’azienda corrisponde al lavoratore alla fine del rapporto di lavoro.
  • Pensioni di vecchiaia: quota di salario accantonata dai lavoratori per garantirsi un reddito durante la vecchiaia.

Pensioni e TFR, non sono dunque elargizioni assistenziali ma una parte salario gestite dai padroni e dallo stato.


Questo quadro cambia rapidamente con l’esplodere della crisi economica che diventerà un fattore permanente dell’economia internazionale.

La crisi, nel suo svolgersi tortuoso, ha come effetto immediatamente visibile una difficoltà crescente al collocamento sui mercati mondiali degli alti volumi di produzione e quindi una forte concorrenzialità tra le imprese. L’imperativo diventa quindi ridurre tutti i costi di produzione operando principalmente su due variabili: la produzione (razionalizzazione dei cicli produttivi per modulare e differenziare il più possibile la produzione, delocalizzazione di unità produttive più vicino possibile ai mercati di sbocco, decentramento produttivo); il salario.

L’offensiva su questo fronte, in modo particolare, si articola in tre direzioni:

  • riduzione del monte salari generale (tagli all’occupazione, cassa integrazione, dimissioni incentivate);
  • riduzione del salario individuale (taglio degli automatismi, del TFR, delle pensioni, contenimento degli aumenti contrattuali, salari di ingresso);
  • modifica delle normative del lavoro, in tutte le sue forme, per rendere disponibile ed asservire la forza lavoro alle condizioni di utilizzo che la ristrutturazione richiede.

La modulazione della produzione e la riduzione dell’occupazione sono state possibili grazie alla continua ristrutturazione degli impianti accompagnata al complesso sistema dei cosiddetti ammortizzatori sociali. In particolare, la cassa integrazione, assieme alle altre normative di sostegno ad essa collegate, è lo strumento principale utilizzato per liberarsi in maniera indolore e graduale delle eccedenze di manodopera, impedire una risposta operaia organizzata e gestire in modo elastico la produzione.

Tutti i provvedimenti adottati in questa anni, gli accordi e i contratti sono completamente subordinati alla politica dei sacrifici in nome della produttività e della competitività delle imprese:

  • 1976-77, nasce la politica sindacale del "controllo degli investimenti e della produzione" (prima parte dei contratti) che diventerà sempre più pesante nei successivi accordi del ‘79, dell' ‘82, ecc., fino a sfociare nella cosiddetta codeterminazione degli anni 90. La contingenza è esclusa dal calcolo TFR.
  • 1982-83, lunga trattativa sul "costo del lavoro" che porterà alla riduzione delle voci del paniere per il calcolo del costo della vita ed alla riduzione del valore del punto (accordo Scotti). La copertura della scala mobile scende così dal 73% al 63%. Nello stesso accordo Scotti vengono per la prima volta fissati i limiti entro i quali dovrà crescere il salario negli anni successivi. Questi limiti saranno applicati a tutti i contratti di categoria.
  • 1984, accordo di S. Valentino che rallenta ulteriormente la contingenza mediante la "predeterminazione del tasso di inflazione".
  • 1984, Legge 863, che, introducendo sia i contratti di formazione lavoro che permettono alle imprese di assumere forza lavoro a salari più bassi e il part time, rompe il vincolo delle assunzioni a tempo indeterminato
  • 1985, accordo interconfederale, poi trasformato in legge, che riforma nuovamente la contingenza, portandola a cadenza semestrale e riducendo le fasce di indicizzazione. La copertura della scala mobile scende dal 63% al 50%.
  • 1987, applicazione per la prima volta di una norma (L. 56/87) che introduce in modo esplicito il lavoro a tempo determinato.
  • 1991, la Confindustria disdetta definitivamente la scala mobile. L'accordo del 31/7/1992 ne decreta infine l'annullamento definitivo. Nello stesso anno è varata la legge (L. 223/91) che sancisce la fine della collocazione per chiamata numerica e la riforma della cassa integrazione, la cui durata è ridotta a due soli anni prorogabili a tre con il conseguente passaggio dei lavoratori eccedenti ad una lista di mobilità per un periodo di due anni per poi essere di fatto licenziati.
  • 1992-93, accordi tra padroni, governo e sindacati che gettano le basi per la completa riforma del salario e del mercato del lavoro.
  • 1995-96, viene realizzato un pesante taglio del salario differito con l’abolizione delle pensioni d’anzianità, l’eliminazione del metodo di calcolo retributivo e la generalizzazione di quello contributivo.

All’inizio degli anni 1990 il salario si è dunque notevolmente alleggerito, la retribuzione netta è stata drasticamente tagliata con l’eliminazione degli automatismi e con l’introduzione di retribuzioni ridotte (salario d’ingresso, contratti di formazione lavoro), le dinamiche rivendicative sono state compresse (tetti programmati d’inflazione), è stata ridotta l’occupazione.

Ma le risposte del capitale orientate all’efficienza complessiva del sistema produttivo attraverso l’automazione spinta e la compressione degli organici non hanno risolto i problemi produttivi.

La tecnologia, per quanto sofisticata, non garantisce infatti la necessaria flessibilità e affidabilità delle varie fasi del ciclo produttivo.

Il processo di internazionalizzazione degli scambi impone alle imprese l’attuazione di nuove strategie di flessibilizzazione della produzione e di controllo e integrazione delle fasi di lavorazione in grado di far crescere produttività e profitti in un contesto di crescita lenta e irregolare.

La ristrutturazione non dà origine a un modello organico e uniforme, ma a una serie di soluzioni tecnico organizzative adattabili alle diverse realtà produttive.

L’obiettivo della fabbrica flessibile è la realizzazione della produttività totale intervenendo selettivamente in tutte le variabili del ciclo produttivo:

  1. minimizzazione degli immobilizzi necessari alla produzione attraverso la riduzione del magazzino materie prime e del magazzino prodotti finiti (Stockless production);
  2. eliminazione delle scorte polmone;
  3. minimizzazione dei tempi di attraversamento di materie prime e semilavorati nelle linee;
  4. eliminazione degli sprechi;
  5. interventi in linea per eliminare i difetti e rapido recupero dei ritmi di produzione;
  6. produzione esclusivamente su ordine (Just in time);
  7. ampia diversificazione dei modelli prodotti.

A rendere possibili questi obiettivi concorrono due fattori determinanti: la coniugazione tra automazione e flessibilità, che permette di gestire quantità e variabilità della produzione, e la possibilità di scaricare sui lavoratori tutti i problemi di variazione della produzione attraverso la liberalizzazione della gestione della manodopera.

Con la nuova organizzazione produttiva il capitale ha dunque bisogno di liberarsi di tutti i costi diretti e indiretti e quindi si scaglia prima di tutto contro l’intero sistema di norme che erano state utilissimi nella fase precedente, ma che ora rappresentano un peso economico e un ostacolo alla completa liberalizzazione dell’uso della forza lavoro.

Ma anche all’assunzione non deve corrispondere il diritto ad un posto di lavoro fisso. Il lavoro deve essere inteso come una condizione momentanea da cui si esce dopo un certo periodo, variabile, di tempo. L'impresa non deve accollarsi l'onere di garantire una stabilità occupazionale, ma solo fornire occasioni momentanee e compatibili con le proprie esigenze produttive.

Gli accordi quadro sul costo del lavoro del 1992-93 e gli innumerevoli contratti integrativi e i contratti collettivi che sono stati stipulati in questi anni vanno tutti questa direzione.

Mercato del lavoro

Con il primo accordo quadro sul costo del lavoro del luglio 1992 vengono riviste le norme sulla cassa integrazione snellendone le procedure di concessione ed elevati i limiti di età dei contratti di formazione lavoro, consentendo in più alle aziende di inquadrare i nuovi assunti in livelli nettamente inferiori rispetto a quelli contrattuali. Ma soprattutto, con questo accordo, viene legalizzato il lavoro in affitto, aprendo la strada al precariato diffuso.

Nell’aprile di quest’anno, sindacati e Confindustria hanno concluso un accordo interconfederale che regola i modi con i quali le aziende potranno affittare lavoratori da agenzie private di collocamento. Si tratta di un ulteriore sviluppo della normativa introdotta dall’accordo del 1992 e confermata dal cosiddetto Pacchetto Treu del 1997, che prevede l’utilizzazione del lavoro in affitto nei casi di sostituzione di lavoratori assenti e di professionalità non presenti nell’assetto produttivo aziendale.

L’accordo sindacale allarga in modo generalizzato la possibilità dell’uso di lavoratori affittati, dando così alle aziende la possibilità di usufruire in piena discrezionalità del lavoro in affitto per punte di più intensa attività, determinate da acquisizione di commesse, lancio di nuovi prodotti, necessità di professionalità diverse da quelle impiegate in azienda o carenti sul piano locale.

Questo, in pratica, significa che i padroni potranno mantenere occupati solo il numero di lavoratori strettamente necessari, affittando di volta in volta quelli che si rendono utili, in qualunque mansione.

Contrattazione

Con l’accordo del luglio 1993 la contrattazione è stata riorganizzata su due livelli:

  • il primo livello, di categoria, avrà una durata quadriennale per gli aspetti normativi e biennale per quelli retributivi.
  • il secondo livello contrattuale, a carattere aziendale, sempre di durata quadriennale riguarderà però esclusivamente materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli propri del contratto nazionale e potrà essere rinnovato solo una volta ogni quattro anni.

I padroni hanno ottenuto così due risultati importanti, la contrattazione della paga a incentivo viene effettuata una sola volta ogni quattro anni, mentre la gestione dei processi di ristrutturazione potrà avvenire liberamente in qualsiasi momento.

Orario di lavoro

La gestione del regime degli orari riveste per le aziende un’importanza determinante, perché permette loro di contenere i livelli occupazionali e nello stesso tempo di aumentare la produttività dilatando gli orari della forza lavoro occupata. In questi anni, i sistemi di sfruttamento basati sugli orari, si sono notevolmente raffinati e arricchiti di una complessa articolazione. Sono nate svariate combinazioni di orari elastici, nuovi turni di lavoro (fine settimana lavorativi, estensione del turno di notte, orari verticali e a scorrimento ecc.) ed è aumentato il ricorso al lavoro straordinario come strumento di modulazione strutturale della produzione.

Con gli ultimi contratti collettivi dei chimici e metalmeccanici, poi, l’intera normativa è stata riorganizzata attorno ad un orario di riferimento annuale. L’orario giornaliero e settimanale sono diventati così elastici e le aziende avranno la possibilità di utilizzare discrezionalmente moduli d'orario variabili da 32 a 48 ore settimanali. Si costringono in pratica i lavoratori ad essere disponibili a nuovi regimi di orario, a maggiore flessibilità ed intensità di lavoro, senza neppure una contropartita salariale.

Salari: retribuzione di base

Come abbiamo visto, tutti i meccanismi di incremento automatico dei salari sono stati cancellati o drasticamente tagliati. L’eliminazione degli automatismi ha tolto così ogni protezione alla retribuzione di base, si è spostato fortemente il rapporto tra la quota di salario fisso, che tende decrescere progressivamente, e la quota di salario incentivante e individuale, che invece diventa prevalente. Nei prossimi contratti questa tendenza si accentuerà.

Il fatto poi che il potere di acquisto dei salari sia sempre più basso, che i lavoratori per recarsi sul posto di lavoro sostengano dei costi (viaggiare e mangiare), è un problema che non riguarda l’impresa, per la quale la forza lavoro è utile solo dal lato del suo consumo e non della sua riproduzione.

Retribuzione professionale

Le modificazioni intervenute in questi anni nel mondo della produzione hanno reso necessaria la revisione del sistema di inquadramento, rendendolo più aderente a un ciclo produttivo flessibile.

Il contratto dei chimici del ’94 introduce due elementi di novità dagli effetti decisivi sul salario e sulla organizzazione del lavoro. Si tratta della modifica dell’inquadramento professionale e della precisazione dei criteri di erogazione degli incrementi retributivi a livello aziendale.

La nuova scala, adeguandosi alla fabbrica flessibile, spezza la rigidità della vecchia classificazione basata su 10 gradini retributivi e mansionari vincolanti, sostituendola con tre livelli di classificazione. Il primo livello indica la qualifica separando in modo netto impiegati, tecnici, equiparati e operai generici; il secondo livello, generale, definisce la categoria di appartenenza; il terzo, specifico e flessibile, precisa le diverse posizioni organizzative modulate alle specificità del ciclo produttivo. D’ora in avanti, tutti gli aumenti retributivi saranno agganciati esclusivamente alla posizione organizzativa, quindi, di fatto, tutto il salario, sia quello contrattato a livello di categoria sia quello di fabbrica, sarà legato al rendimento e alla responsabilità individuali oltre che al rendimento della fabbrica nel suo complesso.

L’infernale meccanismo non lascia scampo, perché gli aumenti contrattuali che dovrebbero compensare almeno parzialmente la perdita del potere di acquisto, non solo vengono contrattati ogni due anni e scaglionati nell’arco del biennio successivo, ma vengono pure differenziati in base alla posizione organizzativa in modo da allargare ulteriormente le differenze retributive.

L’introduzione della indennità di posizione (IPO) permette, indipendentemente dal percorso di carriera professionale stabilito nella scala classificatoria, di avere a livello aziendale una scala salariale di remunerazione di posto e mansione, nella quale si può salire (con relativo aumento salariale) ma anche scendere (con relativa riduzione salariale) secondo la mansione ricoperta in quel momento. Certo ci sono ancora limiti oltre i quali non si può scendere, ma il principio è affermato. L’azienda può dare o togliere questa indennità, semplicemente modificando la posizione o la mansione, e, questo, nell’ambito dello stesso livello professionale. L’azienda, quindi, nell’ambito della stessa categoria professionale, remunera diversamente le varie posizioni di lavoro, utilizzando questa indennità come incentivo alla mobilità interna di posto e di mansione o, di contro, come penalizzazione delle rigidità.

Salario di produttività

Agli aumenti retributivi riparametrati sui livelli di categoria, si sono sostituiti i premi di produttività o di partecipazione, individuali o di azienda.

La contrattazione è orientata esclusivamente alla individuazione di "obiettivi" e di "parametri oggettivi"come criterio di calcolo di quote di produttività, più o meno consistenti a seconda dell’apporto al risultato da parte di singoli reparti o funzioni e singoli lavoratori. Questi parametri possono essere di tipo fisico (volumi produttivi, tempo d’attraversamento delle materie prime e semilavorati nei reparti, valutazione degli scarti ecc.) o qualitativi (efficienza del processo, partecipazione agli utili, risparmio dei costi di gestione). Così l’incremento di produttività diventa obiettivo da realizzare, scatenante di diffusa concorrenzialità tra reparti e singoli lavoratori, I quali, così, meglio si sottomettono alle nuove forme di sfruttamento ed agli obiettivi che queste si prefiggono.

L’affermarsi di sistemi flessibili di produzione ha generato profondi mutamenti che si riflettono nel rapporto di lavoro.

Il segno comune dei cambiamenti in corso è il generalizzarsi di una pluralità dei modelli organizzativi, all'interno dei quali si articolano ulteriormente le singole prestazioni di lavoro.

Nel tradizionale modello fordista, il tempo, i ritmi e i carichi di lavoro erano il parametro principale per la determinazione delle retribuzioni, l'aggiustamento al ciclo economico si basava principalmente sugli orari di fatto e sull'occupazione. Tempo e prezzo del lavoro oggi tendono, invece, a divaricarsi ed intrecciarsi in moduli diversi. La fabbrica flessibile vede, infatti, la diffusione di nuove figure contrattuali, nuovi regimi d’orari che s’intersecano e convivono assieme aprendo nuove contraddizioni.

Alla tradizionale figura del lavoratore assunto a tempo indeterminato si sostituiscono forme differenziate di lavoro precario, così in una stessa fabbrica o gruppo di produzione è possibile che convivano fianco a fianco, diverse figure contrattuali o inquadrate in fasce salariali diverse: lavoratori assunti con contratti d’apprendistato, con il salario d’ingresso o con il contratto di formazione lavoro, lavoratori ad orario ridotto o con un contratto per il week end, o gruppo di produzione o presi in affitto per un periodo prestabilito.

Anche la struttura produttiva si è modificata adattandosi alle nuove esigenze del mercato. Molti grandi complessi industriali si sono ridimensionati, altri hanno delocalizzato le proprie unità produttive dove minori sono i costi di produzione, dalla manodopera alle materie prime ecc. Altre ancora hanno diversificato la produzione o hanno portato all’esterno o appaltato intere fasi del ciclo produttivo come per esempio la commercializzazione, la progettazione, la produzione/assemblaggio di semilavorati ecc. In molti i settori, la flessibilità si è realizzata soprattutto dal lato organizzativo e non solo tecnologico attraverso una molteplicità di opzioni strategiche nei confronti delle imprese subfornitrici e della manodopera.

Questi processi rappresentano l’elemento dominante dei distretti industriali specializzati nella produzione di merci la cui produzione è facilmente scomponibile in diverse fasi produttive.

Nell’indotto della grande industria è avvenuta, nel tempo, una profonda diversificazione che ha trasformato molti fornitori in produttori per conto terzi. Questo processo, indotto dalle grandi aziende, spesso solo assemblatrici di prodotti finali, ha portato cambiamenti nella divisione e nell’organizzazione del lavoro a vari livelli.

Il primo livello è rappresentato dalle imprese più grandi, che hanno decentrato all’esterno la produzione di componenti, parte dell’amministrazione e della progettazione ecc. Nelle linee di produzione e di assemblaggio di queste aziende, la vecchia organizzazione del lavoro è stata sostituita da un ventaglio di nuovi sistemi flessibili. Il sistema tayloristico però, a differenza di quanto sostengono i teorici del post-fordismo, non è stato superato, è stato invece adattato alle nuove esigenze produttive. Alcune mansioni sono state ricomposte ed accorpate ed ora gli operai, mentre lavorano in linea, devono badare anche alla qualità del prodotto e tenere sotto controllo il flusso produttivo. Gran parte delle operazioni di montaggio, inoltre, è ancora svolta da operai generici con l’ausilio di strumenti elementari. Fatica, nocività, bassi salari e dilatazione degli orari di lavoro sono la condizione quotidiana a cui vengono sottoposti i lavoratori.

Il secondo livello è invece rappresentato dai componentisti che realizzano un prodotto che arriva collaudato e che negli stabilimenti finali, le carrozzerie o le meccaniche, è solo assemblato. In queste imprese, la compresenza di lavoro stabile e lavoro a tempo è ormai la normalità, raggiungendo in alcuni periodi dell'anno la proporzione di uno a uno tra lavoratori interni ed esterni. Il risultato è un lavoro precario, con orari estremamente flessibili e salari diversi per lavoratori accomunati dalla stessa condizione.

Il terzo livello è rappresentato infine dalle microimprese, dove una parte di lavoro più povero, a basso valore aggiunto è stato decentrato dalla componentistica alla subfornitura composta da una miriade di piccole aziende, di cooperative, di artigiani, spesso ex lavoratori delle stesse imprese più grandi, costretti a mettersi in proprio. Tutti questi lavoratori, per guadagnare un salario da fame, devono sottostare ad ogni ricatto salariale, di orario, di condizione di lavoro.

Salari, contratti e rapporti di lavoro tendono dunque a modellarsi alle diverse realtà produttive fino a individualizzarsi e a diventare sempre più precari. Il salario variabile e l’incertezza della durata del lavoro diventano le condizioni permanenti di un sistema di sfruttamento che, per continuare a fare profitti, deve essere il più possibile versatile, in grado di seguire le fluttuazioni del mercato. Questo spiega perfettamente la continua pressione dei padroni per la compressione/flessibilizzazione dei salari e per l’allentamento delle regole del mercato del lavoro.

In questa logica, si delineano dunque in modo chiaro gli assi portanti su cui dovranno modellarsi sia i salari che il rapporto di lavoro:

Salari

Eliminati gli automatismi, si è spostato decisamente il rapporto tra la quota di salario fisso, che tende a decrescere, e la quota di salario incentivante e individuale, che invece diventa prevalente.

Nei prossimi contratti questa tendenza è destinata a crescere. Tutti gli aumenti retributivi saranno legati alla produttività in varie forme:

  • come indennità di posizione organizzativa agganciata all’inquadramento professionale;
  • come premi di partecipazione a obiettivo;
  • come incentivi individuali legati ai ritmi, al controllo di qualità del prodotto, alla disponibilità ad accettare regimi di orario e turnazioni flessibili.

Orario di lavoro

I regimi di orario e il lavoro straordinario rappresentano il modo più efficace per gestire la produzione e aumentare la produttività. Tutti i prossimi contratti di categoria e gli accordi di fabbrica dovranno aprirsi alla sperimentazione di nuovi moduli organizzativi all’insegna della flessibilità.

Mercato del lavoro

Il ventaglio dei cosiddetti contratti atipici è destinato ad ampliarsi ulteriormente per rispondere alle diverse esigenze delle aziende nella gestione della manodopera.

La precarietà del lavoro in tutte le sue forme sarà, dunque, sempre più la caratteristica principale del mercato del lavoro, perché funzionale a un sistema economico capace di sfruttare ogni opportunità per continuare ad accumulare ricchezza.

Lodovico Pellegrini

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.