Una svolta storica - L'Euro è l'unica strada che il capitalismo del vecchio continente può seguire

Tra gli sfrenati entusiasmi amplificati ad arte dai mass-media e gli scetticismi di una gran parte della sinistra più o meno antagonista, l'Europa dell'Euro è venuta alla luce. Comunque lo si voglia giudicare, è indubbiamente un fatto di portata storica, perché costituisce un fondamentale momento di svolta nel tormentato processo di costruzione di un polo imperialista europeo in grado di tener testa prima e fronteggiare poi, sotto ogni punto di vista, gli imperialismi americano e giapponese. Non ci addentriamo negli aspetti "tecnici" della questione Euro (di cui si dà conto in questo numero del giornale) ma è sotto gli occhi di tutti l'ondata di fusioni, accorpamenti, acquisizioni che interessano alcune tra le più grandi imprese del mondo, quale segno inequivocabile di questa lotta feroce.

Quando parliamo di capitale europeo, non pensiamo affatto ad una realtà omogenea, priva di contrasti e contraddizioni, al contrario!, a cominciare dalle tensioni più o meno sotterranee tra le aspirazioni egemoniche della Germania, vera "locomotiva" dell'Unione Europea, e i restanti partners, in primo luogo la Francia. Tanto per citarne una, il governo tedesco preme affinché sia ridotta la sua quota - di gran lunga maggioritaria - di contributi al bilancio comunitario, per liberare capitali da destinare alla ulteriore conquista dello "spazio vitale" che si stende oltre le sue frontiere orientali. L'antico sogno pangermanico ossia l'irrisolta necessità del capitalismo tedesco di rompere gli angusti limiti entro cui la storia lo ha collocato, troverebbe così la soluzione in una grande Europa a indiscussa egemonia "teutonica". Male fanno, dunque, quelli che liquidano quasi con sarcasmo la nascita dell'Euro, esasperando gli indubbi limiti di questo neonato e mettendone in ombra gli aspetti di novità, giustificando la loro posizione con l'assenza - a loro dire - di precedenti storici. Ora, è senz'altro corretto affermare che una vera politica imperiale non si può fare senza un vero stato, uno stato che possa vantare una coesione ben maggiore di quanto non possa offrirla il parlamento di Strasburgo; uno stato, insomma, che disponga di un apparato politico, giudiziario e - soprattutto - militare in grado di competere su questo terreno con gli imperialismi rivali, ma ricordiamo, a costo di annoiare il lettore, che siamo in presenza di un processo ancora in corso, anzi, per molti aspetti, appena iniziato. È superfluo sottolineare come fino a ieri la Germania fosse letteralmente smembrata e occupata dalle potenze imperialiste vincitrici della seconda guerra mondiale o come ancora oggi il continente europeo e le isole giapponesi siano presidiati da una massiccia presenza delle armate yankee. È evidente, allora, che nella prospettiva di uno scontro militare, la borghesia europea (o una parte di essa) dovrà affrontare anche questo problema, ma ora è impossibile prevederne i tempi e i modi, non escluso un rimescolamento degli schieramenti. Inoltre, cercare acriticamente sicurezze nel passato per paura di affrontare ciò che la dialettica della vita (del capitale) continuamente ci sbatte in faccia, oltre che antimaterialista è non di rado fuorviante. Non tutte le nazioni hanno percorso il cammino classico di Francia e Gran Bretagna nel processo di unificazione nazionale. Proprio la storia tedesca ci mostra che l'unificazione politica è stata preceduta da decenni di integrazione economica. Nel 1834, infatti, su iniziativa della Prussia, venne realizzata l'Unione doganale tedesca (Deutscher Zollverein) avente per l'appunto lo scopo di abbattere le mille frontiere e le mille dogane che ostacolavano fortemente lo sviluppo del capitalismo; occorsero più di trent'anni e, certamente, la guerra per portare a compimento il processo di unificazione politica, ma l'integrazione economica fra i vari stati e staterelli tedeschi era già un fatto compiuto. Altrettanto anomala fu la nascita degli Stati Uniti d'America. Infatti, le 13 colonie che nel 1776 si ribellarono all'Inghilterra avevano interessi economici (dunque politici) non solo diversi, ma addirittura opposti e per almeno una decina d'anni ogni singolo stato della confederazione aveva legami molto allentati con l'autorità centrale, la quale, a sua volta, disponeva di ben scarsi poteri. Per esempio, il potere di imposizione fiscale era molto limitato, inoltre ogni singolo stato poteva emettere propri titoli di debito pubblico, stipulare trattati commerciali con paesi esteri senza l'approvazione del congresso e stampare carta moneta a volontà, in mancanza di una banca centrale. Dunque, in questo caso l'unificazione politica precedette l'integrazione economica, la quale si compì per opera e a vantaggio del capitale industrial-finanziario del Nord solo novant'anni dopo la proclamazione dell'indipendenza e a costo di una guerra sanguinosissima. Le vie che portano il capitale alla concentrazione e alla centralizzazione - secondo quanto gli impone la sua propria natura - non saranno infinite come quelle del signore, ma non sono nemmeno a senso unico, anche se tutte sono necessariamente segnate dalla violenza in tutti i suoi gradi, fino alla guerra. Sarà forse un caso, ma negli stessi giorni in cui nasceva l'Eurone, Clinton annunciava un sostanzioso aumento delle spese militari, il più alto dall'epoca di Reagan. Sarà forse un caso, ma da un po' di tempo la superpotenza "culturale" hollywoodiana sforna prodotti, visti da milioni e milioni di persone, che tendono a ridicolizzare o a mettere in cattiva luce i concorrenti europei nel campo dello spettacolo oppure rispolvera l'immagine del tedesco nemico assoluto contrapposto all'americano buono, difensore della civiltà contro la barbarie. Anche la propaganda è uno strumento di guerra.

Purtroppo, in questo grande "gioco" planetario la borghesia continua tranquillamente a fare i suoi conti senza l'oste proletario. Anche in questo caso, il proletariato occupato, disoccupato, precario, che avrà tutto da rimetterci con l'Euro, in quanto la borghesia, non potendo aggirare le sue difficoltà con le manovre sui tassi di cambio ecc., farà della compressione del "costo del lavoro" la sua valvola di sfogo, il proletariato - si diceva - non dà (e sono anni) segnali di vita, se non in maniera sporadica e scoordinata, agevolando in tal modo i piani dei suoi sfruttatori. Infatti, contrariamente a quello che pensa il radical-riformismo di certa sinistra, non è la lotta degli operai - "massa" o "sociali" - a innescare la crisi del capitale, ma è certo che la totale paralisi della classe operaia lascia completamente libera di agire una delle principali controtendenze alla caduta del saggio medio del profitto, cioè l'aumento esasperato dello sfruttamento della forza-lavoro. Fino a quando durerà questo stato di cose? Nessuno può saperlo, ma la storia della lotta di classe di questo secolo ci ha abituati alle svolte improvvise e se l'intellettualità borghese meno rozza evoca lo spettro di un nuovo 1914 o, inquieta, rispolvera il Lenin de "L'imperialismo" (il Manifesto, 3-1-'99) è segno che la borghesia per prima non crede ai suoi slogan urlati sulla morte del comunismo e degli antagonismi di classe. Le classi, coi loro interessi mortalmente contrapposti, sono sempre lì e l'Europa dell'Euro, invece di ricomporli, li esaspererà: sta a noi, per quanto ci consentono le nostre debolissime forze, saper interpretare correttamente i segnali non sempre limpidi che ci vengono dal mondo del capitale per la migliore definizione della tattica e della strategia rivoluzionarie.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.