Il viaggio dei bordighisti da Marx a Platone

Il Comunista, organo di uno dei partiti comunisti internazionali, venuti fuori dalla diaspora bordighista, dedica nel suo ultimo numero ben tre paginoni alla critica ai nostri punti programmatici caratteristici, presenti nell'ultima pagina del nostro giornale Nell'articolo appare punto per punto la macroscopica differenza che ci separa sul piano non solo teorico, ma anche di metodo dagli epigoni di Bordiga.

La critica al nostro primo "contro" è strumentale, serve solo a mostrare d'essere colti mentre contiene alcuni svarioni come il concetto di mercato come luogo deputato alla trasformazione dei valori d'uso prodotti in valori di scambio, anzichè della realizzazione del valore di scambio prodotto o superficialità come la definizione dei rapporti di produzione comunisti (?) come rapporti socialmente armonici. Non esce comunque niente per togliere validità al nostro primo slogan, che pone sul piano eminentemente politico il rifiuto del sistema capitalistico, il che non va a genio a chi è abituato a un approccio puramente astratto alla critica al capitale.

Anche l'attacco ai nostri secondo e terzo "contro", non ci pone problemi. Mostra solo l'idealismo di chi, come loro, identifica lotta politica e battaglia dottrinaria e ritiene l'opportunismo derivato da una deviazione dal "patrimonio" di partito, anziché materialisticamente dall'influenza su di esso di rapporti di forza sfavorevoli alla classe operaia. Ribadiamo la correttezza dei nostri due slogan che invitano in punti separati prima alla lotta politica contro partiti e sindacati e dopo alla critica teorica alle varie forme di revisionismo, diffusesi nella controrivoluzione. La critica al nostro quarto "contro", per noi molto qualificante, è quella condotta col massimo della falsificazione e necessita di una risposta più approfondita per ribadire con chiarezza la nostra visione del rapporto lotta economica/lotta politica e la nostra posizione sugli organismi di massa.

È chiaro che noi nel nostro slogan rifiutiamo la logica sindacale e non il sostegno alle lotte economiche del proletariato, come fanno intendere i nostri malevoli critici; nella polemica con noi esce invece la loro posizione gradualista ed esoterica. Cosa dicono costoro? Che non siamo in grado di maneggiare la dialettica materialista, la quale prescriverebbe che la classe cresca prima nella lotta tradunionista, per poi accedere al programma rivoluzionario. In realtà sono loro campioni di gradualismo, al pari di tutti i riformisti, perchè negano all'avanguardia il compito di conquistare le masse, naturalmente negli svolti storicamente possibili, alla coscienza politica rivoluzionaria; e si, perché per loro il monopolio di questa deve rimanere al partito prima e dopo la rivoluzione, fino al comunismo, tesi che accomuna i borghesi di tutte le risme, che vogliono che il proletariato permanga alla coscienza tradunionista. Ebbene, senza scomodare Lenin, ribadiamo che il tradunionismo è patrimonio spontaneo delle masse, e che non spetta al partito comunista svilupparlo, anche se esso dovrà sempre essere presente nelle lotte economiche del proletariato. Il compito del partito è però un altro: propagandare in ogni lotta presente il futuro del movimento, la necessità cioè che le masse operaie (non se stesso) distruggano la macchina statale borghese e assumano il potere politico con propri organismi, per liquidare i rapporti di produzione capitalistici. Loro ci rinfacciano di non voler aiutare nella difesa economica la classe, che oggi non fa bene neanche ciò, ma, a parte l'astrattezza, ancora una volta, di chi pensa che una minoranza come loro, come noi, possa aiutare in ciò gli operai, non capiscono che l'attuale difficoltà della classe di difendersi dagli attacchi borghesi non può spingere i comunisti a sostituirsi ad essa con atteggiamenti anarco - sindacalisti o peggio lavorare perchè le masse si organizzino in strutture contrattualistiche, che perpetuino le illusioni nella possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro in una società in crisi e putrescente. Si tratterebbe, quindi, di delegare ai partiti borghesi e operaio-borghesi la gestione delle masse sulle questioni politiche fondamentali (la guerra, il nazionalismo, la democrazia, la politica economica, ecc.), non avendo esse ancora fatto la scuola della lotta economica. Nel criticare il nostro quarto "contro", questi bordighisti, e con loro il Bordiga del dopoguerra, mostrano il loro abbandono della dialettica marxista, applicata al rapporto tra struttura e sovrastruttura e del materialismo nella concezione del partito, in quanto questo non si forgerebbe nella lotta politica contro le linee della classe avversa, ma sarebbe già tutto definito in se stesso, unico depositario della coscienza comunista, a cui le masse delegherebbero nella fase rivoluzionaria i compiti politici, riservando a sè la sola rabbia economica.

.Per quanto riguarda il nostro primo "per", ci viene contestato di non far esplicito riferimento alla dittatura del proletariato come forma del potere; a prima vista una critica nominalista, a cui non dare spago, ma, attenzione, la critica si concentra sul fatto che non dichiariamo chiaramente che il potere del proletariato è il potere del partito comunista, il quale lo esercita "attraverso l'apposita organizzazione dello stato proletario"; quindi sono loro che negano la dittatura del proletariato, affermando la dittatura del partito, in perfetto stile staliniano, e precisando che questo "utilizza" lo stato proletario. Secondo loro durante la rivoluzione si formeranno organismi statali del proletariato, ma gli stessi subito dopo saranno ridotti a meri esecutori della volontà del partito e "vivaio" per utilizzarne le migliori energie. In realtà il nostro slogan, pur non usando la dizione classica, ne interpreta pienamente la sostanza. La conquista del potere è:

  1. rivoluzionaria = violenta, non parlamentare;
  2. internazionale = pur se si rompe in un paese gli interessi in gioco sono del proletariato internazionale;
  3. esclusiva dei proletari = dittatura, cioè sono tolti i diritti ai borghesi e non c'è blocco con alcuna altra classe.

I revisionisti sono loro (e con loro l'ultimo Bordiga), che rifiutano lo stato del proletariato, per affermare, come in tutti i regimi borghesi, anche quelli mascherati da socialismo, il potere di una minoranza illuminata su di una maggioranza, tipo di potere che può andar bene per gestire il massimo di centralizzazione monopolistica del capitale, ma non certo la transizione al comunismo.

L'appunto successivo va nella direzione del precedente: veniamo criticati perchè sosteniamo la pianificazione dal basso, che non può, secondo loro, che risolversi nell'autogestione, mentre la pianificazione socialista ha come scopo prima difendere la rivoluzione, e perciò negare i bisogni dei singoli proletari, e poi nel comunismo di pianificare i bisogni della Specie e quindi ancora negare i bisogni dei singoli per salvaguardare quelli globali della Natura. Nell'un caso e nell'altro (anche nel comunismo maturo), per loro la pianificazione deve essere necessariamente dall'alto per impedire visioni particolaristiche. Niente superamento di un ente separato dalla società civile qual è lo stato, niente distribuzione secondo i bisogni di ciascuno. Siamo nel misticismo platonico: esiste un ente astratto la Specie che si sovraimpone agli individui, una Natura altrettanto astratta che impone le sue regole e un pugno di custodi (il partito) per farle rispettare. La prospettiva esplicitamente non è più, per questi aggiornatori del marxismo, quella degli individui associati che regolano, secondo i loro bisogni, il ricambio con la natura organica e che, non vigendo più la legge del valore, pur affermando se stessi, non entrano in contrasto con il collettivo. In questa concezione non è più la classe operaia che, liberando se stessa, libera l'umanità, cioè fa nascere quella specie che storicamente non è mai esistita in quanto tale, a parte una sua parvenza nella forma tribale preistorica (grave errore di Bordiga aver enfatizzato quest'ultima, anche se francamente non poteva prevedere epigoni così piatti). Il nostro penultimo slogan è ancora una volta sostanzialmente corretto (a parte la lacuna dell'agricoltura), perchè fa riferimento in modo politico, immediatamente propagandabile, all'aspetto fondamentale che ci separa dalla società capitalistica, la necessità di partire dai bisogni concreti della maggioranza per la creazione della ricchezza sociale e non dalla base ristretta della produzione di valori di scambio; e ciò, giustamente affermiamo, può essere fatto solo dal basso, cioè attraverso gli organismi amministrativi e non politici della classe (ed è chiaro che ci riferiamo a un periodo successivo alla guerra civile, dove lo stato operaio ha ancora caratteristiche in prevalenza politiche). Per noi l'eliminazione della legge del valore, passaggio ineludibile, permetterà di giungere alla soddisfazione dei bisogni materiali di tutti (si proprio di tutti gli individui, qualcosa di molto più concreto della metafisica Specie) e su questa base nessuno sarà più costretto dalla necessità (tale è il lavoro salariato oggi) a svolgere per tutta la vita un lavoro ripetitivo e di pura fatica o, se lo si preferisce al positivo, sarà possibile la libera attività creativa. Per chi è duro di orecchie la prossima volta diremo: sarà superato l'inutile consumo della fatica umana misurata in ore erogate a una forza astratta (come la Specie), ma molto più storicamente determinata, il capitale). La critica all'ultimo nostro "per" é piena di falsificazioni delle nostre posizioni, per cui non varrebbe la pena di rispondere, se nell'ultima parte non si parlasse di due concetti, comunità e centralismo organico, su cui è bene fermarsi per far chiarezza. Loro confondono il nostro concetto di comunità con quello dei loro ex compagni di Firenze, che credono di aver superato, ma che, come abbiamo visto, conservano nella concezione del partito, come rappresentante della specie. Per noi comunità significa soltanto la totalità dei militanti, che valorizziamo contro la concezione dei partiti operaio-borghesi, che identificano il partito con i suoi organi dirigenti o addirittura col suo capo, come anche i bordighisti (dopo gli atteggiamenti e le scelte del Bordiga del dopoguerra), solo che loro lo chiamano: centralismo organico. Ma quest'ultimo, nella prima elaborazione di Bordiga, significa unicamente che non va assolutizzato il principio democratico, in quanto solo in un partito saldamente omogeneo può aver senso decidere a maggioranza sulle questioni tattiche. La preoccupazione di Bordiga, non era l'uso tecnico del sistema democratico nel partito, quando era necessario per la vita interna, ma proprio il termine in sé, sputtanato dalla borghesia. È vero che è più importante ai fini della tenuta storica del partito la sua unità organica, rispetto alla forma democratica, ma è ancor più vero da una parte che il formalismo della definizione non garantisce il risultato, come provano le tante scissioni dei partiti che si sono affidati a tale formula, dall'altra che Bordiga nel dopoguerra ha ridotto questo principio al puro divieto della discussione nel partito, compromettendo proprio quel processo di omogeneizzazione teorica e pratica, che permette a tutti i militanti di essere protagonisti della linea (con meno rischi di cadere nella trappola dei continui zig zag della tattica, di staliniana memoria, denunziati per primo proprio da Bordiga). C'è un aspetto della democrazia che interessa i comunisti,che non è la conta delle teste, ma la partecipazione, senza la quale non c'è reale condivisione di programmi, non c'è maturazione dei militanti, c'è solo la cristallizzazione delle posizioni, che spiega la diaspora dei bordighisti, pur in presenza di riferimenti dottrinari comuni.

Ancora una volta il nostro ultimo slogan è corretto, in quanto concepisce il partito come un organismo, ma vivente, che accomuna i militanti intorno al programma rivoluzionario e che utilizza il metodo democratico, cioè il congresso, per la discussione sulla tattica, sulla base dei comuni principi, e per la selezione dei dirigenti, cioè" la centralizzazione in organi collegiali esecutivi". Lo chiamiamo centralismo democratico con Lenin, per distinguerlo dall'organicismo "a fottere" di Menenio Agrippa. E se in un congresso decisivo su cento delegati novantanove votano una piattaforma opportunista? Risposta nello stile di Bordiga: quell'unico fesso sulle posizioni di classe si frega, in quanto il suo non era un partito comunista, ma una banda di parolai. In pratica non ci sono garanzie di tipo formale, statutarie contro le degenerazioni del partito; il glorioso partito bolscevico non ha preso la via opportunista con la direzione staliniana per eccesso di democrazia, né tanto meno per la morte di Lenin, ma sotto la spinta di processi oggettivi, relativi all'evoluzione dei rapporti di forza tra le classi su scala internazionale. Il non aver valorizzato fino in fondo il carattere oggettivo della controrivoluzione, che pur era stato il primo ad analizzare, ha prodotto in Bordiga quell'atteggoiamento psicologico, trasmesso poi come dottrina agli epigoni, che ha preso i nomi di invarianza e di centralismo organico, improbabili antidoti ai rischi di scivolamento opportunista del partito.

Ma non è, compagni, come sosteniamo da decenni, con la chiusura nei confronti dei processi reali e con l'autocrazia, che si risolve il problema.

gl

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.