La questione delle guerre di liberazione

Le sperimentazioni tattiche, dopo decenni di ponderose lezioni accademiche di «vera e sana dottrina», portarono in seguito – a quasi trent’anni dalla scissione del 1952 – gli ortodossi bordighisti alla

riesumazione del fronte unico politico intergruppi e all'agitazione di parole d'ordine tipo: governo operaio senza esponenti borghesi, ecc.

Dalle autoconfessioni del Comunista, un altro “gruppo” scissosi da Programma negli anni Ottanta

Le contrastanti imposizioni di linee politiche e indirizzi di attività, pur se in buona parte successivi alla scomparsa fisica di Bordiga, poggiavano chiaramente su una analisi superficiale e spesso opportunistica – come per il conseguente ruolo e la funzione dei sindacati – del quadro imperialistico entro il quale si muove il moderno capitalismo. Così pure è accaduto per l'altra agitata questione delle guerre di liberazione nazionale, considerate come forme di lotta delle aree arretrate e oppresse contro l'imperialismo. Una via ritenuta per anni storicamente ancora aperta nelle prospettive della strategia proletaria, e in netto contrasto con le posizioni sostenute dalla Sinistra italiana. Per Programma comunista la pretesa fase storica si sarebbe poi chiusa improvvisamente, a far data dalla perdita dell'Angola e del Mozambico da parte del Portogallo e senza una minima, chiara ed esauriente analisi critica del perché‚ in quel momento e non prima, si ritenesse concluso il ruolo “progressista” delle rivoluzioni democratico-borghesi. Forse per le difficoltà... organizzative che il “partito mondiale” incontrava nella pratica applicazione delle simpatie politiche espresse dal suo Centro Organico?

Bordiga, che aveva additato Damen e i “battaglisti” come campioni dell’“indifferentismo” (sia rispetto alla questione nazional-coloniale sia a quella sindacale), portava alle estreme conseguenze politiche la sua affermazione riguardante gli Usa da considerarsi il fortilizio “numero uno” da abbattere. Non lo dichiarava apertamente, ma era più che sottinteso il suo parteggiare per il “numero due” e di seguito per i “popoli oppressi”. Anche se questi erano manovrati da governi che mettevano al muro e fucilavano chiunque si proclamasse “comunista”. Naturalmente di stampo diverso dalle “politiche” imperanti a Mosca…

Qualcuno in Programma, ai tempi di Bordiga capo supremo, motivava l’appoggio alle guerre di liberazione nazionale come la condizione necessaria ad una… formazione e concentrazione del proletariato. Un prezzo da pagare per portare a compimento le “rivoluzioni multiple”. In un documento “bordighista” del 1953 si legge che

nell’area asiatica è in pieno corso la rivoluzione contro il feudalesimo, e regimi anche più antichi, condotta da un blocco rivoluzionario di classi borghesi, piccolo borghesi e lavoratrici. (…) Per quei paesi dell’Asia, ove ancora domina l’economia locale agraria di tipi patriarcali e feudali, la lotta anche politica delle “quattro classi” è un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all’imperialismo euroamericano.

E nello scritto “Pressione razziale del contadiname, pressione classista dei popoli colorati”, leggiamo:

... oggi che, dopo il disfattismo degli stalinisti, danno più filo da torcere all’imperialismo di Occidente i moti nelle colonie e semi-colonie che quelli proletari delle metropoli, oggi che istituti tremendamente statici come quelli terrieri e teocratici di Oriente stanno paurosamente crollando in un mareggiare di guerre civili.

Un Bordiga, dunque, che fermo al 1848, nel suo “Tracciato di impostazione” (Prometeo n. 1, 1946) ricordava che nella questione coloniale

i lavoratori di tutti i paesi non possono non combattere a fianco della borghesia per il rovesciamento degli istituti feudali (...). Anche nelle lotte che i giovani regimi capitalistici svolgono per rintuzzare i ritorni reazionari, il proletariato non può rifiutare il proprio appoggio alla borghesia.

Seguiranno gli appoggi “bordighisti” (più o meno dichiarati) alle successive rivoluzioni d’Algeria e del Vietnam, alle ribellioni del Congo e delle colonie portoghesi…

Il progressivismo, nell'esame delle cosiddette rivoluzioni coloniali susseguitesi nel lungo periodo della guerra fredda tra l'imperialismo americano e quello russo, è stato un dato caratterizzante il pensiero ultimo di Bordiga. Sempre presente nelle posizioni di Programma comunista, si è tinto di particolari colorazioni fino a stravolgersi in un vero e proprio opportunismo presso alcuni altri gruppetti bordighisti, che non hanno esitato a inneggiare ai comandi militari della “resistenza” palestinese.

La storia dei programmisti è comunque ricca di appoggi, a volte «critici» e a volte entusiastici,

alle lotte dei popoli coloniali che, vibrando colpi all'imperialismo n. 1_ (ancora alla metà degli anni Settanta! – N.d.R.)_, conducono alla ripresa del moto di classe.

Programma Comunista – 1976

Non solo, ma addirittura esibendosi in partecipazioni fisiche a manifestazioni para-staliniste svoltesi all'insegna delle «lotte popolari di liberazione nazionale» e organizzate dal Pci e suoi alleati. La giustificazione, presentata come di stampo dialettico, recitava che

la presa di coscienza nel proletariato, nonché la sua combattività di classe, passano attraverso la palestra delle lotte di liberazione nazionale.

E per maggior chiarezza si, aggiungeva:

anche se ciò significa che i proletari dovranno scannarsi fra di loro...

ibidem

Con ciò Programma, in perfetta linea col pensiero bordighista, si è sempre ritenuto estraneo a ogni denuncia delle guerre di liberazione nazionale, con l’avvento del “socialismo in un solo paese” e dopo la seconda guerra mondiale, per quello che esse realmente sono state: momenti della politica interimperialista e comunque non “progressive” se non in termini idealistici. E dietro una posizione chiaramente legata alla sopravvalutazione del fattore nazionale, nella fase imperialista di massima internazionalizzazione dei rapporti capitalistici, era evidente la trasposizione acritica – dopo mezzo secolo di degenerazione e di controrivoluzione del Comintern – delle Tesi terzinternazionaliste sull'autodeterminazione dei popoli. Allora motivate se non altro dalla presenza di uno Stato ancora sotto l’influenza della Rivoluzione d’Ottobre.

Lo stesso Lenin, tuttavia, così si pronunciava nel 1916 in Contre le courant:

La distinzione economica tra le colonie e i popoli europei – almeno per la maggioranza di questi ultimi – consisteva un tempo in ciò, che le colonie erano comprese nello scambio delle merci, ma non ancora nella produzione capitalistica. L'imperialismo ha cambiato tutto questo. L'imperialismo è, tra altre cose, l'esportazione del capitale. La produzione capitalistica, sempre più rapidamente, si trapianta nelle colonie. È impossibile strappare queste alla dipendenza là dove si trovano di fronte al capitale finanziario europeo.
Dal punto di vista militare, come dal punto di vista della espansione, la separazione delle colonie dal dominio dei paesi colonialistici non è realizzabile, secondo la regola generale, che con il socialismo; sotto il regime capitalista essa non è possibile che a titolo d'eccezione, o anche a prezzo di numerose rivoluzioni tanto nella colonia che nella metropoli.
In Europa le nazioni indipendenti hanno il loro capitale e delle facilità per costituirlo nelle condizioni più varie. Nelle colonie, il capitale coloniale non esiste o quasi; la colonia non può costituirlo altrimenti che nelle condizioni di subordinazione politica, in funzione del capitale finanziario.

Altrettanto chiara e precisa era la posizione del P.C.Internazionalista dopo il secondo conflitto imperialistico:

Il problema strategico, affidato oggi dalla storia all'avanguardia rivoluzionaria, non consiste nel futile gioco intellettualistico della discriminazione degli imperialismi in lotta, di aiutare e di “tifare” per le giovani forze del più recente capitalismo irrompenti sulla scena del mondo, ciò che non consentirebbe di fare un passo innanzi né alle idee né alle forze della rivoluzione, ma finirebbe, favorendo anche soltanto teoricamente uno dei contendenti, per rafforzare l'imperialismo nel suo complesso. Esso consiste bensì nel lavorare in vista di una concreta iniziativa classista e rivoluzionaria del proletariato internazionale, che convogli sul piano di classe anche le lotte dei popoli di colore, tenendo presente l'ammonimento di Lenin: “In quanto la borghesia della nazione oppressa difende il proprio nazionalismo borghese, noi siamo contro di essa”.

Dallo Schema di mozione presentato dal C.E. al Consiglio Nazionale del P.C.lnternazionalista – 5 e 6 gennaio 1958

La posizione di Bordiga

Le due impostazioni di Bordiga sulla necessità dell’appoggio alle guerre di liberazione nazionale erano:

  1. quella che possiamo definire progressista (unificazione del mercato interno, sviluppo delle forze produttive, nascita e potenziamento di un proletariato nazionale e allora sì che si sarebbe potuto mettere all’ordine del giorno la rivoluzione);
  2. quella dell’anti-imperialismo in base alla quale l’appoggio sarebbe stato giustificato dal fatto che queste guerre – per borghesi che fossero – erano un momento di lotta nei confronti dell’imperialismo, un modo per indebolirlo e, quindi, portatrici di migliori condizioni per il futuro della rivoluzione internazionale.

Entrambe le tesi erano viziate da un errato metodo di analisi. Non si capisce come una borghesia nazionale, una volta prodotto il proprio dominio politico ed economico sul mercato di sua appartenenza, possa favorire di più e meglio la ripresa e la coscienza della lotta di classe. La storia ha drammaticamente dimostrato il contrario: dall’Algeria al Viet Nam, passando trasversalmente ai due continenti, non c’è stata “vittoria” di una borghesia nazionale che non abbia rappresentato, con il suo nazionalismo anti-imperialistico, il miglior involucro per il contenimento e l’amministrazione delle masse proletarie in fieri.

Ogni processo di guerra, nel momento in cui si chiude, concede alle forze politiche che quella guerra hanno dominata di essere dominanti anche nella fase successiva. O la partita, in termini di classe, la si gioca nel momento in cui esplodono tutte le contraddizioni che l’hanno posta in essere, oppure si è inevitabilmente risucchiati all’interno della logica nazional-borghese che si è contribuito a sostenere o, nel migliore dei casi, a cui non si è nemmeno tentato di opporsi, limitandosi a “tifare” per soluzioni che una volta perseguite si sono dimostrate ancora più difficili da scardinare di quelle precedenti. In aggiunta, e in questo caso l’errore di Bordiga è ancora più grave, si fa completa astrazione dal contesto imperialistico nel quale le guerre di liberazione nazionale si sono prodotte. Dopo la seconda guerra mondiale il processo di decolonizzazione non è avvenuto nei termini lineari di una serie di borghesie che, armi in pugno, plagiati i rispettivi proletariati, hanno combattuto contro i vecchi colonialismi per soluzioni nazionalistiche e borghesi come tra le due guerre. In questa ultima fase ogni movimento nazionalista ha dovuto fare i conti con i due grandi imperialismi che si combattevano, senza esclusione di colpi, ai quattro angoli del mondo e che hanno trasformato tutte le guerre di liberazione nazionale in un momento di lotta nei confronti del proprio avversario. A questa logica non si sono sottratte le varie borghesie nazionali che hanno imboccato la strada dell’indipendenza lottando contro i vecchi colonialismi, ma non si sono sottratti nemmeno i vari proletariati che hanno dovuto combattere prima, e sopportare poi, il doppio peso della propria borghesia e dell’imperialismo di riferimento.

Nel periodo storico della guerra fredda, i moti di liberazione nazionale, ben lungi dal rappresentare un aspetto progressista e un momento di lotta anti-imperialistica, sono stati completamente risucchiati all’interno dello scenario imperialistico che, non solo li ha condizionati, ma molto spesso favoriti se non inventati. Senza contare il grave danno politico per quei movimenti che hanno combattuto contro l’imperialismo Usa avendo come imperialismo di riferimento quello sovietico, che ha fatto credere loro di combattere per un comunismo di cui conoscevano soltanto la parodia. Negli anni successivi, di quel falso comunismo hanno conosciuto anche la sostanza e hanno rimpianto la parodia per la quale avevano combattuto fino allo stremo delle forze. Non c’è stato movimento nazionale che non sia stato finanziato, armato, ideologicamente condizionato e politicamente confezionato da uno dei due competitori imperialistici. I due grandi predatori non hanno badato a spese: su ogni piccola o grande crisi internazionale, su ogni tensione nazionalistica hanno tentato di creare il loro potere sottraendosi spazi e zone di influenza.

Come era possibile parlare delle guerre di liberazione nazionale come di episodi di anti-imperialismo che potevano essere appoggiate in attesa di tempi migliori? Nei fatti, le guerre di liberazione nazionale si sono trasformate in momenti di rafforzamento di uno dei fronti dell’imperialismo, sono entrate a far parte delle rispettive aree di competenza, sono uscite dal vecchio giogo del colonialismo per subire, in termini politici, economici e finanziari, l’ancora più pesante oppressione dell’imperialismo sia nella versione numero 1 (americana) che in quella numero 2 (russa).

Una corretta impostazione rivoluzionaria doveva rigettare qualsiasi tipo di appoggio o tifo, doveva denunciare che qualsiasi atteggiamento di astrazione dal contesto imperialistico poteva portare soltanto ad osservare i fenomeni come momenti esterni alla lotta di classe, quindi non suscettibili di analisi e proposte rivoluzionarie, da cui l’appoggio a soluzioni borghesi che a loro volta creavano le condizioni per il rafforzamento di uno dei due fronti imperialistici. Al massimo si vagheggiava come una soluzione imperialistica fosse più favorevole dell’altra, ma senza mai porre la questione in termini di classe, se non individuando nella vittoria dell’imperialismo più debole la condizione migliore perché un domani, provvidenza permettendo, per il proletariato internazionale si aprissero spazi più ampi in cui inserire la propria soluzione. A parte il fatto che non si spiega, nemmeno sul piano della logica formale, come l’imperialismo più debole possa avere la meglio sull’imperialismo più forte. Ma rimanendo all’interno di questa assurda finzione meta-politica, ne deriverebbe che la vittoria dell’imperialismo più debole lo promuoverebbe a più forte, non spostando assolutamente nulla sul terreno del dominio imperialistico nei confronti della lotta di classe, ma soltanto all’interno degli equilibri imperialistici.

Il fatto è che quando il proletariato non si muove perché non esistono le condizioni né nelle metropoli capitalistiche, né nei paesi della periferia, non ci sono indicazioni tattiche o strategiche che tengano. Quando si muove, il restare alla finestra degli avvenimenti, il tifare per una soluzione piuttosto che un’altra o, peggio ancora, lavorare per soluzioni che non siano rivoluzionarie, in nome di un improbabile progressismo economico sociale e di un’altrettanta improbabile autodeterminazione dei popoli, significa boicottare qualsiasi ripresa della lotta di classe, significa dare segnali che vanno in direzione contraria rispetto al cammino delle manifestazioni del proletariato internazionale.

Gli epigoni hanno imparato così bene la lezione che, anche quando hanno definito chiuso il periodo storico delle guerre di liberazione nazionale, e quindi venuta meno la necessità del loro appoggio più o meno critico, hanno riproposto lo stesso metodo di analisi e di atteggiamento nei confronti degli episodi di guerra che si sono prodotti dopo il crollo della Unione Sovietica. Alcuni, non è il caso di Programma, si sono distinti per una analisi rozza e parziale delle cause del crollo dell’Urss, delle dinamiche di ricomposizione imperialistica sullo scenario mondiale. Hanno confuso i momenti di difesa o di accordo con o contro l’imperialismo americano da parte delle piccole borghesie legate alle briciole dello sfruttamento del petrolio, alla rendita petrolifera, ai percorsi finanziari e di controllo delle materie prime o dei mercati della forza lavoro, come istanze anti-imperialistiche degne di essere sostenute. Dalla difesa della borghesia serba durante la fase delle secessioni, a quella irachena nella guerra del Golfo e in quella successiva; da quella cecena a quella kosovara, si sono trovati tutti gli appigli per un atteggiamento di simpatia, se non di appoggio, delle varie istanze micro-borghesi, senza mai porre il problema in termini di classe, anzi invitando i vari proletariati a sostenere le rispettive borghesie.

Nella fase dell’imperialismo maturo, dove le guerre sono il mezzo, l’unico, attraverso il quale si risolvono i problemi economici e di dominio politico, dove lo scontro fisico tra grandi e piccoli imperialismi, tra potenti borghesie e borghesie pezzenti è sinonimo di perpetrazione di sfruttamento, scegliere di stare dalla parte del più debole è un tragico errore. Per le avanguardie rivoluzionarie l’unico strumento di difesa e di offesa politica non risiede nello schierarsi su di un fronte della guerra a difesa di un mini-imperialismo o di una borghesia stracciona solo perché è stata attaccata dall’imperialismo più forte. Se così fosse non si uscirebbe mai dalla logica della guerra, perché l’imperialismo è in grado di riproporre all’infinito situazioni di questo genere. Di fronte alla guerra, la risposta è nella lotta di classe che deve avere il duplice obiettivo di sconfiggere l’imperialismo esterno come la borghesia interna. Non si fa dell’anti-imperialismo resistendo al nemico esterno e sostenendo la propria borghesia, ammantando il tutto con la falsa teorizzazione dell’autodeterminazione dei popoli. Oggi all’ordine del giorno c’è l’autodeterminazione del proletariato internazionale e null’altro.

L’anti-imperialismo passa solo attraverso i tentativi rivoluzionari in quei segmenti di proletariato direttamente sollecitati dall’imperialismo stesso, ma mai attraverso l’appoggio a soluzioni nazional-borghesi comunque vengano giustificate. Né vale il discorso che mancando le condizioni soggettive a queste soluzioni, tanto vale perseguire obiettivi più limitati, perché se quelle condizioni mancano, compito delle avanguardie è contribuire a crearle, e queste non si creano proponendo al proletariato di scendere in armi a favore della sua borghesia e allontanandolo così dalla riacquisizione della coscienza di classe. Se al momento non può valere la critica delle armi, almeno si adoperi l’arma della critica.