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La tragedia del proletariato palestinese è destinata a non finire mai finché rimane all'interno delle strategie borghesi
È una guerra, non dichiarata, a bassa intensità, ma è una guerra. In campo non ci sono due eserciti che si confrontano, ma un solo esercito che reprime la rabbia di una popolazione stanca di sopportare l'insopportabile. Carri armati contro sassi, soldati contro ragazzini, mentre repressione - terrorismo - repressione s'inseguono in una spirale perversa che sembra non avere mai fine. In gioco la solita posta: i due nazionalismi si contendono la stessa terra ma da posizioni diverse. Lo stato di Israele non è disposto a concedere pressoché nulla, timoroso di dover dare il via a una serie di concessioni che finirebbero per rafforzare ulteriormente le aspirazioni nazionalistiche palestinesi che potrebbero andare al di là delle attuali rivendicazioni sui territori occupati. La borghesia palestinese, quella che si identifica nell'Olp di Arafat, ha rinunciato a tutto il vecchio programma politico pur di arrivare ad avere un brandello di terra su cui piantare il vessillo nazionale.
Dietro questo scenario si muovono ben altri interessi e forze che finiscono per interferire pesantemente sulla travagliata questione palestinese. In primo luogo la lunga mano dell'imperialismo americano. Dopo la guerra del Golfo, per tutti gli otto anni dell'amministrazione Clinton, la questione palestinese è stata all'ordine del giorno delle attenzioni Usa. La preoccupazione di Clinton era che, la decennale vertenza tra palestinesi e lo stato di Israele non degenerasse in un conflitto aperto, con l'eventuale intervento di altri paesi arabi, perché questo avrebbe comportato il rischio di mettere in discussione la rete di alleanze politiche, legate al petrolio, nate appunto dopo la guerra del Golfo. Ciò ha reso meno strategica, anche se sempre importante, l'alleanza tra il governo Usa e quello israeliano. Fu Clinton ad imporre a Rabin gli "storici" accordi di Oslo nel tentativo di pacificare un focolaio di tensioni che avrebbe potuto avere conseguenze negative nella gestione non solo del petrolio ma anche della rendita petrolifera di tutta l'area medio orientale. La stessa amministrazione Bush, più legata agli apparati reazionari, all'ambiente guerrafondaio che li ispira, ha dovuto condannare come eccessiva la reazione israeliana agli atti di terrorismo suicida di alcune fazioni palestinesi non controllate dall'Olp. L'Europa timidamente, dato il suo piccolo peso politico e l'inesistenza di un apparato militare, ma con strisciante determinazione, mostra di schierarsi in difesa del mondo arabo, nella speranza di avere un domani migliori accessi al petrolio medio orientale, senza dover sopportare le conseguenze di un allineamento alla strategie di Washington che sembrano non aver mai fine. In questo cuneo si muove l'iniziativa dell'Olp. Arafat è conscio del contrasto Eu - Usa sulla questione petrolifera, intuisce la minore importanza strategica dello stato d' Israele nei piani americani, usa l'arma del ricatto pan arabo e pan islamico tra i popoli "fratelli" e sa che la sua partita nazionalistica la può giocare adesso o mai più
Ma c'è un altro scenario che deve essere preso in considerazione, ed è quello del popolo palestinese con la sua componente proletaria. Da decenni gli si chiede di pagare pegno, in termini di fame, di miseria e di sangue, per interessi ed obiettivi che non gli appartengono. In primo luogo deve pagare pegno, e che pegno, alla borghesia israeliana che non è disposta a concedergli nulla, né sul terreno delle prospettive, né su quello della quotidianità. Con l'arrivo di Sharon le cose sono peggiorate. Dall'uso dell'acqua per scopi agricoli e alimentari ai posti di lavoro in territorio israeliano, dalle libertà di movimento all'interno dei territori ai salari, per i palestinesi il calvario è l'unico pane quotidiano. Ogni sussulto è represso nel sangue, ogni pretesa rifiutata. La violenta reazione alla nuova intifada, ogni giorno, miete vittime tra ragazzi e bambini.
Un secondo tributo il proletariato palestinese lo paga alla propria borghesia. Sia la piccola, che vive nei territori occupati, sia la "grande", quella commerciale e finanziaria che opera all'estero, in termini diversi per prospettive politiche e metodi di lotta, non possono che fare riferimento alla misera popolazione palestinese e all'ancora più misero proletariato per raggiungere i rispettivi obiettivi nazionalistici. La prima ricorre al proletariato palestinese, in chiave di scontro diretto con il nemico sionista, nella prospettiva di avere un proprio stato nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza, che non sia soltanto una finzione autonomistica da un punto di vista meramente amministrativo. La seconda, meno interessata allo stato territoriale e più a quello politico, si accontenterebbe anche di meno pur di essere riconosciuta, e l'uso che fa del proletariato palestinese è quello di averlo come massa di manovra politica, come deterrente da usare in sede negoziale, con o senza intifada, a seconda delle esigenze e delle circostanze.
Il terzo tributo che è costretto a pagare è in favore di quelle borghesie internazionali che, sul petrolio e con il petrolio, intendono stabile uno dei pilastri del loro potere economico. Certamente Usa ed Europa, ma anche gli stati arabi dell'area fanno della questione palestinese uno strumento d' interesse economico e di strategia politica. Arabia Saudita, Kuwait e gli altri governi della Lega araba legati al petrolio, tengono i piedi in più paia di scarpe. In linea di principio si dichiarano pronti a sostenere la causa palestinese, ovviamente quella moderata dell'Olp. Nell'ultima riunione della Lega hanno deciso di stanziare 200 milioni di $ a favore di Arafat e della borghesia che rappresenta. Contemporaneamente si dichiarano allineati in tutto e per tutto ai progetti americani nell'area e, per quanto possibile, strizzano l'occhio alle proposte europee stando bene attenti a non suscitare la reazione di Washington. Quello che interessa non è la fine che faranno i Palestinesi, ma una soluzione pacifica del contenzioso che consenta a loro di proseguire nella gestione della grande risorsa petrolifera, tranquillamente, senza che eventi esterni possano mettere in discussione i loro affari.
Fino a quando il proletariato palestinese verserà sangue per una soluzione nazionalistica, qualunque essa sia, e a qual si voglia frangia borghese faccia riferimento, opererà sempre e in ogni modo sul terreno della sconfitta di classe, imposta dai vincoli interni e internazionali. Nell'altra ipotesi, tutta da costruire, sotto la guida di un partito rivoluzionario, l'unico percorso da seguire è quello che passa trasversalmente ai proletariati di tutta l'area, quello israeliano compreso. Solo la ripresa della lotta di classe che coinvolga i proletariati di Tell Aviv, di Riad e del Cairo può porre le premesse una soluzione dei problemi, altrimenti le lotte, la determinazione allo scontro e le migliaia di morti, finiranno per essere riassorbite dal terreno che la ha prodotte, il nazionalismo borghese.
f.d.Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #5
Maggio 2001
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