Inflazione: tutti danno i numeri!

L'Istat ha sostenuto che l'inflazione italiana per il 2002 è stata del 2,8 % (dato di dicembre). Che il dato fosse completamente falso lo sanno bene tutti coloro che quotidianamente fanno la spesa dovendo fare i conti con i prezzi, ad esempio dei generi alimentari, che durante la scorsa primavera, il periodo di entrata in circolazione della nuova moneta europea, sono lievitati improvvisamente del 20,30,50 e in alcuni casi del 70-100%. Spesso, lo si è costatato diverse volte, il vecchio prezzo di mille lire si è trasformato in 1 euro lievitando praticamente del doppio. Certamente non tutte le merci hanno seguito quest'andamento ma l'esperienza quotidiana dei proletari ha ben percepito il netto aumento dei prezzi e la conseguente perdita di potere d'acquisto dei salari e delle pensioni. I portavoce dell'Istat, l'istituto centrale di statistica dello stato italiano, invece hanno più volte ribadito che i metodi di rilevazione sono assolutamente attendibili e che pertanto i dati ufficiali sono perfettamente rispondenti alla realtà. Il modello di calcolo dell'inflazione, hanno aggiunto, è in linea con quello assunto dagli altri stati europei e quindi chi protesta non ha nessun motivo reale per farlo.

Qui non possiamo analizzare il metodo di rilevamento, né il paniere con cui viene calcolato il tasso di inflazione, tantomeno possiamo fare una analisi critica delle tecniche con cui si calcola il dato ufficiale dell'inflazione. Vogliamo solo mettere in evidenza che anche lo studio dell'aumento dei prezzi è influenzato dall'angolazione politica, di classe dobbiamo dire con più precisione, con cui si affronta il problema. Quando si compone un paniere, il campione cioè delle merci i cui prezzi devono essere rilevati nei punti vendita della società, non è indifferente considerare quello che consumano le diverse classi sociali: principalmente generi di prima necessità per il proletariato, principalmente beni voluttuari e di lusso per la borghesia. I consumi della piccola borghesia poi si situano tra questi poli con infinite sfumature; i consumi del sottoproletariato sono anch'essi differenziati rispetto a quelli del proletariato dotato almeno di un posto di lavoro. Già queste quattro schematiche divisioni fanno capire come il paniere dovrebbe essere differenziato per classi sociali e tenere conto dei loro diversi consumi. Per calcolare con attendibilità quanto la lievitazione dei prezzi incide sulle tasche reali degli uomini appartenenti alle diverse classi sociali si dovrebbe successivamente assegnare un peso alle diverse merci che concorrono a fare la spesa annuale di una famiglia; per semplicità e per fare un esempio, l'aumento del prezzo del pane del 5%, un genere di prima necessità che la famiglia proletaria compra ogni giorno e che concorre robustamente alla sua spesa annuale, ad esempio per il 6 % delle entrate annuali sotto forma di salario, ha un significato ben diverso per una ricca famiglia borghese che ha redditi di 200 - 300 e anche più volte superiori a quelli di una normale famiglia in cui lavorano marito e moglie con una normalissima retribuzione. In questo caso l'impatto sul reddito dell'aumento del prezzo del pane risulterebbe cosa ben poco significativa, addirittura trascurabile. Un altro esempio fa capire ancora meglio il problema. Nelle più importanti città italiane, come ad esempio Milano, Roma, Napoli, ecc., negli ultimi due-tre anni i prezzi delle abitazioni sono aumentati mediamente fino al 50 %; quando una famiglia proletaria decide di acquistare un'abitazione, quasi sempre ricorrendo al prestito bancario, è costretta ad accollarsi rate di mutuo per dieci, venti o addirittura trenta anni. Non ci vuole molto a capire che l'aumento di prezzo delle abitazioni sta avendo una incidenza enorme sulla perdita reale di potere d'acquisto della famiglia proletaria, perdita che in alcuni casi si protrae per un periodo quasi uguale a quello dell'intera vita lavorativa! Qualcuno si è preoccupato di calcolare l'impatto tremendo sulle famiglie proletarie dell'aumento dei prezzi delle abitazioni? Nessuno e certamente l'Istat che non è interessato a questo genere di questione.

Ecco già delineato il problema: per misurare l'impatto della crescita dei prezzi sulla società, più che misurare l'inflazione bisognerebbe misurare l'aumento della spesa delle famiglie appartenenti alle diverse classi sociali. Cosa che l'Istat si guarda bene dal fare! Infatti alla borghesia tutto ciò non interessa affatto. Conta invece disporre di un indicatore medio dell'aumento dei prezzi attraverso il quale calibrare la propria politica economica; per gli economisti ufficiali è necessario monitorare l'aumento dei prezzi, scomposto poi nei diversi settori dell'economia e tra produzione e distribuzione, per verificare costantemente la competitività delle merci e, se necessario, intervenire per correggere, per quanto possibile, i differenziali d'inflazione sfavorevoli rispetto ad altre aree economiche con cui quelle merci sono in competizione. Anche le decisioni inerenti la fissazione del tasso ufficiale di sconto tengono conto di questi (e naturalmente altri) indicatori. Insomma, andare a studiare l'incidenza degli aumenti dei prezzi sul salario proletario per stabilire dei parametri per il suo corrispondente aumento in modo che esso mantenga inalterato il proprio potere d'acquisto non è proprio tra gli obiettivi della borghesia e quindi dell'Istat. Anzi, l'indicatore di inflazione che viene fornito da questo istituto serve, tra le altre cose, ad assegnare alle pensioni gli aumenti per il cosiddetto adeguamento al costo della vita e a porre un limite ben preciso alla crescita salariale controllata dai meccanismi concertativi tra le diverse parti sociali e i sindacati (i rinnovi contrattuali). Ecco la quadratura del cerchio: un indice di inflazione che non tenga conto dell'effettivo impatto dei prezzi sui salari serve a deprezzare questi ultimi automaticamente. Senza neanche battere ciglio, la borghesia, con la subdola complicità dei sindacati, riesce ad abbassare salari, retribuzioni e pensioni reali in modo costante e senza conflitti sociali.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.