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Home ›Considerazioni generali sul movimento pacifista
Premessa
La pace, intesa come assenza di conflitti bellici che provocano la morte di migliaia di persone, la distruzione di case, fabbriche, scuole, ospedali, un ulteriore avvelenamento dell'ambiente e l'immiserimento generale delle popolazioni coinvolte, dovrebbe essere un obiettivo planetario agognato da tutti gli individui in cui alberga un briciolo di umanità. Vero è che, da sempre, le classi dominanti hanno fatto della guerra, e quindi dell'assenza di pace, uno dei loro principali strumenti di dominio, quando non il fondamento stesso del loro potere.
Oggi, infatti, quella "naturale" voglia di pace condivisa dalla maggioranza di umanità che subisce le guerre e che da esse non trae alcun beneficio, non è e non potrà mai essere qualità e principio della borghesia mondiale e dei suoi apparati politici e militari, che sono invece i baluardi viventi del perpetuo stato di guerra in cui si trova oggi il capitalismo - nella sua ormai centenaria fase imperialista - e in cui inevitabilmente si troverà nei prossimi anni.
Prima che degli spiriti umanitari, dunque, il desiderio di pace è una prerogativa delle classi dominate di ogni tempo; che oggi i proletari delle nazioni più forti traggano a volte alcuni vantaggi economici dalle aggressioni imperialiste della propria borghesia, non contraddice il fatto che, in ultima istanza, quelle stesse aggressioni siano rivolte anche contro di essi, perché:
- in ogni guerra, su ogni fronte, la carne da cannone è quella dei proletari;
- le spese di guerra le pagano i proletari;
- i profitti di guerra aumentano il divario economico fra le classi e quindi vi è anche un impoverimento relativo dei proletari delle nazioni vincitrici;
- la guerra favorisce il diffondersi del nazionalismo in tutti gli strati della società, e quindi rafforza il dominio ideologico borghese;
- la guerra fa parte di quella medesima politica - inevitabile per un capitale in crisi di profitto - che spinge i padroni a tagliare i salari, a peggiorare le condizioni di lavoro, ad aumentare i ritmi, ad investire sempre più nella speculazione finanziaria aumentando la disoccupazione.
Il capitale che va alla guerra, insomma, è lo stesso capitale che attacca i lavoratori di ogni paese.
Comunismo e pacifismo
La società capitalistica non dà pace perché non può darne. Le sue guerre, così numerose e distruttive, lungi dall'essere imprevedibili accidenti o il frutto della politica sciagurata di qualche governante, sono invece una sua caratteristica immanente, vitale per la sua stessa esistenza. Perciò, nel quadro del dominio capitalistico sul mondo, proclamare di "essere per la pace" significa poco o nulla: il vero problema è capire quale movimento internazionale possa abbattere il capitalismo e quale società futura possa categoricamente escludere la guerra dal proprio sviluppo. In sostanza, la pace si potrà conquistare solo quando una rivoluzione proletaria e anticapitalista, vittoriosa a livello mondiale, sarà approdata al comunismo, la società che non ha bisogno della guerra e in cui fare la guerra, senza più le classi, gli stati e le frontiere nazionali, rimarrebbe nient'altro che l'inattuabile desiderio di qualche anima sanguinaria, fantasma del vecchio mondo caduto.
Lo spartiacque fra comunismo e pacifismo è dunque l'analisi di classe: i comunisti ritengono che le guerre imperialiste si possano fermare solo con la mobilitazione delle masse proletarie, fino alla trasformazione della guerra imperialista in guerra sociale rivoluzionaria, mentre i pacifisti sono convinti di poter costringere i potenti a fare a meno della guerra attraverso la pressione dell'opinione pubblica e l'azione nonviolenta (al massimo disobbediente) di una non meglio identificata società civile.
Come già scrivevamo nel 1984 in occasione delle grandi manifestazioni europee contro la corsa agli armamenti nucleari, per i pacifisti:
il ragionamento è semplice: la guerra è un problema che riguarda tutti: è giusto allora che “tutti” si prenda coscienza di ciò e “insieme” si faccia qualcosa per arrestare il processo che potrebbe portare ad un ennesimo macello. Come si può ben intuire, il movimento pacifista, coinvolgendo nella sua foga “tuttista” centinaia di migliaia di persone accomunate solo dall'orrore sacrosanto per la guerra, accoglie nel suo seno la confusione e la massima genericità. (1)
Genericità che finisce per essere:
contenuto dell'interclassismo, che, praticato dai marpioni della politica, ha il significato dell'interesse di classe e del disorientamento degli sfruttati... praticato invece da movimenti spontanei, come in parte è il pacifismo, assume i connotati dell'ingenuità più madornale, ma certo non meno pericolosa, in quanto portatrice di confusione e acqua fresca al mulino dell'avversario di classe (ecco perché 'tutti' hanno interesse a star dentro al movimento pacifista). (2)
Il pacifismo, allora, non è solo un'arma spuntata contro la guerra, ma è anche il veleno ideologico che scorre abbondante nelle vene dei movimenti per la pace e che gli impedisce di trovare la strada verso la lotta di classe anticapitalista, e come tale, da parte dei comunisti, va denunciato.
Le diverse anime del movimento pacifista
Dall'autunno dello scorso anno, cioè da quando Bush, Blair e compagni hanno iniziato a rendere manifesta la loro intenzione di attaccare nuovamente l'Iraq di Saddam Hussein con o senza il consenso dell'Onu, fino alla conclusione del conflitto, le piazze di tutto il mondo - ma in particolare quelle europee - si sono più volte riempite di milioni di persone che dicevano no all'aggressione americana, convinti di poter conquistare la pace attraverso la pace, ossia attraverso l'azione pacifica di quella "gente" che rifiuta la guerra come soluzione delle controversie internazionali. Un no pacifista.
In Italia il movimento pacifista è stato particolarmente forte, e nonostante la guerra contro l'Iraq si sia ormai conclusa da più di due mesi, numerosissime bandiere arcobaleno sventolano ancora dalle finestre. Il successo delle mobilitazioni contro quest'ultima guerra in Iraq è dovuto a diversi fattori. Il primo, certamente, è che questa volta, malgrado le grandi campagne ideologiche dei mass media americani e dei suoi paesi vassalli tese a nascondere le vere cause della guerra, il grosso dell'opinione pubblica internazionale non ha bevuto le menzogne imbandite ad hoc dall'establishment di Bush per giustificare l'invasione e l'occupazione militare dell'Iraq. Non avendo un altro 11 settembre da spendere in questo senso, il governo di Washington si è dovuto inventare una quantità di storie - come i legami fra Saddam e Al Qaeda, il pericolo delle armi di distruzione di massa, giungendo fino all'esportazione della democrazia occidentale a suon di bombe e carri armati - a cui soltanto il più sciocco dei creduloni o un guerrafondaio in mala fede potevano dar credito. A ciò bisogna inoltre aggiungere che un po' in tutto il mondo si respira sempre di più un clima di paura e incertezza dovuti sia all'acuirsi del malessere sociale ed economico prodotto dall'inarrestabile avanzare della crisi, che alla sensazione di un'instabilità globale di cui la guerra stessa è espressione.
Ma questo clima, da solo, non sarebbe bastato a portare in piazza tutte quelle fiumane di uomini e donne che in ogni continente hanno manifestato la loro contrarietà alla guerra e, più in generale, alla politica sfacciatamente aggressiva degli USA. Altri fattori determinanti sono stati l'aperta condanna del papa e, soprattutto, il profilarsi di un asse internazionale franco-tedesco-russo-cinese, che, oltre ad aver determinato il mancato avallo dell'Onu, si è così decisamente schierato contro la guerra di Bush e del suo collega britannico, da creare una frattura in seno alle potenze occidentali, che non esiteremmo a definire come il primo, significativo passo verso la futura guerra interimperialista.
Diciamo innanzitutto qualche parola sul papa. Il Vaticano, per bocca del suo pontefice, si è schierato contro quest'ultima guerra all'Iraq fin dal primo momento, condannandola in modo assoluto, senza ambiguità e tentennamenti. È la prima volta che il papa attacca in modo così netto e frontale la politica militare americana: così non era stato per la prima guerra del Golfo, e così, in anni più recenti, non era stato per il Kossovo e l'Afghanistan. In occasione delle guerre precedenti, infatti, Wojtyla aveva sì invocato la pace, ma sempre in termini generici, astratti e interpretabili, rimanendo in sostanza all'interno del suo ruolo di guida spirituale che odia la guerra ma che è pronta a benedire i cannoni della democrazia attestandosi saldamente in difesa dei comuni interessi dell'occidente cristiano. Ma oggi qualcosa è cambiato.
Oggi l'occidente cristiano non è più omogeneo come poteva esserlo ancora poco più di dieci anni fa. Possiamo dire che esso ha iniziato a disgregarsi, seppure lentamente, subito dopo il crollo del nemico comune, ossia il blocco imperialista di oltre cortina guidato dalla Russia pseudo-sovietica. Scomparso il "pericolo rosso", l'Europa, sotto la spinta dell'asse franco-tedesco, ha iniziato a battere con maggiore frequenza la strada dei propri interessi specifici - sempre più contrapposti a quelli dell'amico americano - fino ad arrivare alla costituzione di una moneta, l'euro, che ha lanciato apertamente la sua sfida al dollaro sui mercati internazionali. Ebbene, all'interno di questo quadro...
il Vaticano, per interessi materiali, per collocazione geografica, per tradizione storica e ideologia, converge oggettivamente verso il fronte europeista, il quale, sebbene ancora immerso in mille contraddizioni, tenta di costituirsi come polo imperialista antagonista a quello statunitense. (3)
Oltre alla grande influenza esercitata dalle parole del papa sull'opinione pubblica mondiale, lo schierarsi del Vaticano contro la guerra ha prodotto in Italia una mobilitazione generale di tutte le istituzioni di area cattolica - coinvolgendo anche le parrocchie e le associazioni di volontariato - che hanno fatto sentire forte la loro voce all'interno del movimento pacifista, e riviste "di area" come Famiglia Cristiana hanno dato un importante contributo mass-mediatico alla causa papista.
Vaticano voce d'Europa, dunque. Ma questa volta l'Europa ha parlato anche attraverso le proprie grandi nazioni europeiste (la cosiddetta Vecchia Europa), in primis, Francia e Germania, che insieme alla Russia e alla Cina hanno fatto in modo che gli USA e la Gran Bretagna non avessero l'avallo delle Nazioni Unite. Ora, presso l'opinione pubblica democratica, italiana e internazionale, l'Onu è ancora il punto di riferimento più accreditato per decidere ciò che è legittimo e ciò che non lo è, e anzi, con questa opposizione alla guerra contro l'Iraq ha in qualche modo recuperato anche la verginità perduta in tutte quelle occasioni in cui invece si è inchinata agli interessi del brigante imperialista d'oltreoceano.
Tutte queste considerazioni spiegano come il movimento pacifista dei mesi scorsi sia stato pesantemente favorito, spalleggiato e quindi suggellato dal blocco filo-europeista, ovviamente interessato a contrastare una guerra che, nelle sue ultime conseguenze, è stata una guerra contro l'euro e contro l'Europa.
In Italia, al pacifismo papista e a quello europeista si è aggiunto anche quello semplicemente anti-governativo rappresentato dal centro-sinistra e dalla CGIL, entrambi guerrafondai durante la guerra in Kossovo, quando a capo del governo c'era D'Alema. Un pacifismo oltremodo strumentale, che se da una parte non ha prodotto alcuna vera iniziativa di lotta (si pensi in particolare alla revoca dello sciopero generale), dall'altra ha certamente contribuito a infoltire i cortei e a mantenere sotto controllo... democratico, gli episodi di mobilitazione più radicale come gli scioperi di alcuni settori operai e i blocchi contro la movimentazione via terra e via mare del materiale bellico americano.
Vi è stato poi, e vi è ancora, il pacifismo anti-imperiale, ossia quel pacifismo che individua nell'“Impero americano” - piuttosto che nell'imperialismo come il modo di essere proprio del capitalismo maturo, che spinge inevitabilmente le potenze mondiali allo scontro interimperialistico - il vero, grande nemico da combattere, comunque, il primo da sconfiggere. Ne consegue che, qualunque nazione si trovi a essere contro gli Stati Uniti o ad avere gli Stati Uniti contro, è un alleato da appoggiare, incondizionatamente o meno, per il suo ruolo di baluardo anti-imperiale. Ma vi sono anche, "più a sinistra", posizioni che si ammantano di anti-imperialismo e che, pur riconoscendo la presenza di un altro blocco imperialista in fieri, subordinano però qualsiasi altra considerazione alla necessità di lottare contro l'attuale nemico numero uno, ossia, inutile dirlo, gli USA.
Per le ragioni sopra esposte, tutte le anime maggioritarie del movimento pacifista che si è poderosamente dispiegato nei mesi scorsi in Italia e nel mondo, non solo hanno dato una lettura interclassista, idealista e riformista al problema della pace, ma, volenti o nolenti, hanno contribuito anche al rafforzamento pratico e ideologico del blocco imperialista europeo (con una collocazione ancora incerta di Cina e Russia, affiancate comunque, per il momento, a Parigi e a Berlino) come alternativa all'aggressivo predominio statunitense, e questo proprio ora che l'Europa ha messo all'ordine del giorno la formazione di un esercito comune in grado di competere con la macchina bellica americana.
Conclusione
Dalla Jugoslavia all'Iraq (costante bersaglio americano dal 1991 in avanti), dal Kossovo all'Afghanistan, passando per la Somalia, la Palestina, la Cecenia e tanti altri conflitti minori, il nuovo ordine mondiale sorto sulle macerie del bipolarismo imperialista USA-URSS, venuto meno per il crollo di un polo - quello russo - non ancora sostituito, ha ampiamente dimostrato di non sapere affatto garantire né pace né stabilità. Anzi, siamo oggi di fronte a una vera e propria escalation militare, una generale corsa agli armamenti che coinvolge a vari livelli tutte le principali potenze imperialiste mondiali, Com'era prevedibile, tra l'altro, la vittoria americana in Iraq non ha fatto altro che aprire nuovi scenari di guerra e una situazione ancor più destabilizzata in tutto il Medio Oriente (la strage in Arabia Saudita di metà maggio ne è chiara avvisaglia), mentre il governo USA continua ad allungare la lista degli "stati canaglia" da colpire, nella sua pretestuosa lotta al terrorismo che invece nasconde - dietro un dito - la più prosaica lotta per il possesso e il controllo delle risorse energetiche mondiali.
Abbiamo detto, però, che questo stato di guerra permanente non è il frutto dei privati interessi di una cricca di avventurieri (pur essendoci, a margine, anche questo elemento) ma l'inevitabile risposta del capitalismo americano in crisi il cui...
uso della forza si esprime a 360° su tutti i mercati internazionali, da quello commerciale a quello finanziario, dal controllo del petrolio alla gestione dei mercati relativi alle materie prime strategiche. Il repertorio varia dalle guerre di rapina a quelle preventive, di controllo diretto a quello indiretto. Le giustificazioni si trovano sempre... (4)
D'altronde, la crisi di profitto che oggi coinvolge non solo il capitalismo americano, ma, seppure in modo non uniforme, l'intero sistema capitalista mondiale, non lascia dubbi in proposito: i conflitti si allargheranno e si intensificheranno, fino a coinvolgere tutte le grandi potenze schierate su due blocchi imperialisti contrapposti: da una parte, certamente, gli USA e i suoi alleati; dall'altra, con ogni probabilità, un fronte avente come centro l'asse Parigi-Berlino-Mosca.
In futuro, dunque, il pacifismo è ancora destinato a riscuotere un ottimo successo, e con esso il movimento proletario e le sue avanguardie sono necessariamente chiamate a fare i conti.
Giacomo Scalfari(1) Dall'opuscolo Oltre il pacifismo, edizioni Prometeo, pag. 47.
(2) Ibidem, pag. 48.
(3) Da Wojtyla contro Bush, divorzio d'interesse, Battaglia comunista 3, marzo 2002.
(4) Da La guerra permanente è la risposta alla crisi del capitalismo americano, Prometeo 6 - Gennaio 2002 - pag. 29.
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