L'Iraq sull'orlo del disfacimento - Intanto la democrazia è ferma sulle canne dei fucili

L'hanno definito, avvalendosi di una triste metafora, il "sorpasso della morte" ovvero il numero dei soldati americani morti dopo che, a detta di Bush, l'Iraq era stato portato a normalizzazione e pacificato. Accade infatti che il numero dei soldati americani morti per mano della resistenza irachena abbia superato quello ascrivibile alla breve guerra combattuta pochi mesi addietro. Oramai è uno stillicidio quotidiano di attacchi contro le truppe angloamericane, mediamente 25 al giorno, con relativi morti e feriti che comincia a minare la baldanza e sicurezza iniziali ed a porre seri interrogativi sulla possibilità di continuare da soli una campagna di occupazione che finora sta costando la ragguardevole cifra di 4 miliardi di dollari al mese. Questa presenza non può essere limitata, per motivi di ovvietà, alla sola sfera militare ma deve riguardare il ripristino quanto meno in tempi medio-brevì di servizi essenziali ed in tale ottica va considerata l'azione della amministrazione provvisoria USA in attesa che il Consiglio di governo iracheno, sempre ligio alle direttive americane e presieduto da un "ricercato" a nome Chalabi, vari il prossimo gabinetto. Per cui l'amministrazione Bremer è chiamata a sostenere costi assai cospicui in vari settori: per la sola riparazione della rete elettrica sono previsti entro i prossimi dieci mesi almeno 2 miliardi di dollari e altri 13 miliardi distribuiti nei prossimi 5 anni per ristrutturarla ex novo. Ne consegue che i conti non tornino e la sensazione che gli americani abbiano sbagliato, per tanti versi, le loro valutazioni è più di una ragionevole ipotesi. Basti pensare che i costi della guerra ammontano a tutt'oggi a 48 miliardi di dollari e che quelli relativi alla ricostruzione, inizialmente stimati in 90 miliardi di dollari, siano già vertiginosamente saliti a 150. I loro consulenti avevano ottimisticamente previsto di poter aumentare la produzione petrolifera fino a raggiungere nel 2010 i 6 milioni di barili al giorno con investimenti valutabili in 40 miliardi di dollari. Ebbene, questa cifra basterà, sì e no, a ripristinare la produzione esistente prima della guerra,2,2 milioni di barili al giorno, a fronte degli attuali e miserevoli 700.000. Lo stato dei fatti è questo ed a rendere ancor più difficile la situazione ci sono gli attentati: un giorno è un acquedotto a saltare in aria ed il giorno appresso va in fiamme un oleodotto con relativa perdita di 7 milioni di dollari al giorno. Si vive in una dimensione così aleatoria e problematica che il Centre for Global Energy Studies ha declassato l'Iraq, quello attuale beninteso, da esportatore "prossimo" ad esportatore "imprevedibile". Per vari aspetti sembra proprio che gli USA si siano cacciati in una trappola dalla quale sembra sia difficile uscire talchè alle perdite umane si aggiungono, in un finora fallimentare bilancio, rilevanti perdite economiche. Il deficit USA, anche col fattivo contributo della guerra irachena, salirà dai 400 miliardi di dollari del 2003 a quasi 480 nel 2004 e, sconfessando talune ottimistiche previsioni che favoleggiavano di un surplus di 891 miliardi di dollari, relativamente ai prossimi 10 anni, si attesterebbe su 1,4 trilioni di dollari. In altre parole questa occupazione militare si sta rivelando una pericolosa palude se finanche il New York Times riconosce che la guerra in Iraq è un fiasco tragico, brutale, che non può essere vinta e pone il dovuto accento sull'enorme spreco di vite umane e di danaro. Si avrebbe a che fare insomma con una situazione pressoché impossibile da stabilizzare così come l'opera di occupazione/ricostruzione si manifesta molto più complessa,delicata e problematica di quanto non sia stata la guerra guerreggiata. Un'operazione progettata forse con colpevole soverchieria e che dimostra con cadenza quotidiana quanto la devastante supremazia bellica dispiegata per vincere la guerra possa non bastare allorché si tratta di controllare il territorio. Né più né meno è lo stesso scotto che stanno pagando in Afghanistan dove controllano di fatto soltanto alcune enclave e per il resto è tutto disordine nel quale sguazzano alla perfezione i talebani mai debellati. In Iraq controllano, manu militari, alcune zone, cercano di tenere sotto controllo l'intero paese ed una popolazione che non li vuole, che ha una memoria viva dell'embargo decennale, che non li percepisce come liberatori ma li vive come occupanti venuti solo per il petrolio. Quindi anche qui il caos pressoché assoluto e l'anarchia in cui vengono al pettine nodi mai risolti ed a suo tempo creati ad arte: contrapposizio

ne tra sciiti e sunniti, tra le diverse fazioni sciite, tra arabi e curdi, tra curdi e turcomanni. Nel tentativo, da un lato di contenere di contenere la resistenza irachena impedendo la nascita di un fronte che unisca le diverse fazioni e, dall'altro, di impedire che lo scontro fra di esse possa travolgere anche loro, gli USA stanno puntando ad una sorta di "libanizzazione" del paese su base prettamente confessionale. Questa strategia d'altra parte riflette il punto di vista dei neoconservatori americani, i cosiddetti Likudnik, che stanno gestendo il dopoguerra col preciso intento di eliminare l'Iraq come stato, di portare avanti l'opera di saccheggio da parte delle multinazionali americane e forse anche di quelle occidentali e di delineare la privatizzazione di tutti i settori strategici dell'industria irachena.

Ma l'operazione si presenta tutt'altro che facile e l'Iraq non è il Libano. L'attentato contro la moschea di Najaf, che ha provocato la morte di un centinaio di persone e dell'ayatollah Mohammed Baqr al Hakim, il più importante e carismatico dei leader sciiti, è il segnale evidente che al di là dei piani americani, l'Iraq rischia di trasformarsi in una sorta di nuovo Afghanistan con tutte la fazioni in lotta fra loro per il controllo del territorio e del potere e contro gli odiati occupanti che trovano l'humus nel quale attecchire e prosperare, nelle privazioni, della popolazione:in vaste zone del paese manca l'acqua corrente, non c'è elettricità, scarseggia a benzina, otto milioni sono senza lavoro e sono stati licenziati tutti i membri dell'esercito e del ministero dell'interno. A tutto ciò si aggiunga il livello di preparazione militare degli iracheni in guerra quasi da sempre ed il fatto che nel paese circolano milioni di armi. Si può quindi comprendere che agli USA serva adesso l'aiuto di altri paesi. Da ciò consegue la proposta del sottosegretario di stato Armitage il quale dichiara la disponibilità americana all'impiego di una forza multinazionale sotto l'egida dell'ONU a patto, però, che venga guidata da un americano. Si tenta, in altre parole, lo stesso giochetto che è riuscito con la guerra del Golfo combattuta con contributi umani e soprattutto finanziari di vari paesi ed i cui frutti sono stati quasi esclusivo appannaggio degli americani. L'ONU, ha posto dei paletti, e per bocca di Kofi Annan si è espresso per una condivisione che non resti limitata al solo sforzo militare ma contempli anche una certa collegialità di decisioni e di responsabilità.Dietro tutto questo frasario omertoso è evidente ci sia l'imbeccata di noti paesi facenti parte del consiglio di sicurezza che, a più riprese, hanno sostenuto come gli USA si potrebbero ritrovare a sedere, da soli, sulla polveriera irachena nel caso in cui accanto alla loro richiesta di aiuti non mettano pure un'offerta. È tanto vero tutto questo che la Germania,la Francia,la Russia e l'India erano, sì, disposti ad offrire il loro contributo militare e finanziario a patto che, però, vi fosse il coinvolgimento dell'ONU non tanto vitale quanto imprescindibile nella gestione del dopoguerra sia dal punto di vista della pacificazione che da quello della ricostruzione con relativi proficui appalti. Ma tutto ciò comporterebbe l'assottigliamento della fetta destinata agli USA i quali, invece, non intendono concedere neppure una briciola per cui si va delineando una prospettiva in cui lo scontro fra le diverse fazioni è destinato a intrecciarsi sempre più con quello dei vari fronti imperialistici contrapposti per spartirsi le ricchezze del paese che perciò appare ineluttabilmente destinato a vivere una fase di drammatica decomposizione mentre la democrazia, ferma come è sulle canne dei fucili che dovevano portarla, è ormai solo un pallido ricordo.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.