Fiat e General Motors divorziano - Ma non ci sarà niente di buono per i lavoratori

Nelle scorse settimane un accordo tra Fiat e General Motors ha definitivamente affossato l'alleanza che, dal marzo del 2.000, legava queste due case automobilistiche e che avrebbe dovuto portare al totale assorbimento del ramo auto dell'azienda torinese da parte del colosso americano. Questo divorzio è stato salutato dalla stampa italiana come un grande successo non solo perché ha portato nelle casse della Fiat una somma che complessivamente supererebbe i quattro milioni di dollari (parola dell'amministratore delegato di Fiat e di Fiat-auto Marchionne) ma anche perché ha finalmente svincolato l'industria automobilistica italiana dal rischio di cadere in mani straniere. Banale propaganda nazionalista a parte, è indubbio che per la Fiat, fortemente indebitata e ben lontana dalla soluzione della crisi che la attanaglia ormai da anni (nel 2004 ha visto ridursi la sua quota di mercato in Europa di un ulteriore 20%), le ingenti risorse finanziare drenate dalla casse della GM rappresentino una boccata d'ossigeno molto importante. C'è però ben poco per cui festeggiare, se si pensa infatti che solo con l'ultimo accordo GM ha preferito sborsare qualcosa come un miliardo di euro pur di non essere più obbligata ad acquisire Fiat auto con relativi debiti, appare chiaro come le prospettive economiche di quest'ultima siano tutt'altro che rosee. Le ragioni stesse che avevano portato nel 2000 all'alleanza tra Fiat e GM sono tutt'ora ancora estremamente attuali, si fa anzi sempre più pressante la necessità di nuovi accordi ed in definitiva di una maggiore concentrazione produttiva che permetta alla relativamente piccola industria dell'auto italiana di competere con i colossi internazionali. Da marxisti questo fenomeno non ci stupisce affatto perché rispecchia in pieno le tendenze evolutive dell'economia capitalista che storicamente il movimento operaio ha individuato già nel XIX secolo; non ci stupisce neppure l'accelerazione che il processo di concentrazione ha subito nell'ultimo decennio, infatti, di fronte a profitti sempre più bassi per singola unità di prodotto la tendenza delle grandi imprese dell'auto (ma non solo) è stata quella di ampliarsi per acquisire sempre più consistenti quote di mercato e per ottenere maggiori economie di scala.

La situazione della Fiat è poi particolarmente delicata perché negli scorsi anni ha trascurato il mercato europeo per puntare su quelli di Paesi come l'Argentina dove la crisi economica non solo ha affamato la classe lavoratrice ma ha anche letteralmente stritolato quel ceto medio che avrebbe dovuto rappresentare il maggior acquirente delle auto Fiat. Non è un caso che l'azienda di Torino cerchi oggi di riorientarsi verso il più ricco mercato europeo e, attraverso la fusione tra Alfa Romeo e Macerati, tenti di aprirsi un varco nel più remunerativo settore delle auto di lusso degli Stati Uniti. Naturalmente la quota di produzione realizzata all'estero non sarà riportata in Italia, vi sono anzi nuovi piani per trasferire ulteriori quote di produzione nei paesi a più basso costo della manodopera: l'accordo recentemente stipulato con l'Iran per la produzione della Multipla non è che l'ennesimo esempio di questa tendenza al continuo abbassamento del costo del lavoro.

Nel più grande stabilimento della Fiat in Italia che rimane quello di Mirafiori a Torino 11.500 lavoratori si barcamenano tra turni massacranti dai ritmi sempre più intensi e lunghi periodi di cassa integrazione a zero ore: quando le ordinazioni sono elevate è infatti necessario lavorare intensamente, quando invece queste vengono a mancare o sono scarse allora è meglio chiudere direttamente la fabbrica scaricando il costo dei salari sullo Stato. Le prospettive per i lavoratori di Fiat-auto non sono quindi per nulla buone: anche nel caso in cui lo Stato dovesse intervenire direttamente acquisendone una parte rilevante del pacchetto azionario (in questo senso si sono già espressi Prodi, Epifani e lo stesso Bertinotti) il risultato sarebbe solo una socializzazione delle perdite. Il rilancio dell'azienda, sempre se possibile, dovrà comunque passare attraverso un maggiore sfruttamento dei lavoratori e la perdita di molti altri posti di lavoro e poco importa che questo avvenga con o senza l'intervento dello Stato e con o senza la partecipazione di soci stranieri.

tom

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.