Diritto, pena e modo di produzione

Il ruolo storico del diritto

Il processo storico di costruzione dello Stato moderno si consacra sull’asse portante di un sistema di leggi destinato ad eliminare il particolarismo giuridico e definire un’unità politico-territoriale. Attraverso l’intermediazione dello Stato, il contingente corpo di norme necessario al mantenimento della struttura classista della società viene contrabbandato, a seconda delle esigenze, come diritto naturale o come espressione della libera volontà popolare.

Il ruolo storico del diritto

Il processo storico di costruzione dello Stato moderno si consacra sull’asse portante di un sistema di leggi destinato ad eliminare il particolarismo giuridico e definire un’unità politico-territoriale. Attraverso l’intermediazione dello Stato, il contingente corpo di norme necessario al mantenimento della struttura classista della società viene contrabbandato, a seconda delle esigenze, come diritto naturale o come espressione della libera volontà popolare.

Il diritto è una sovrastruttura per comprendere l’articolazione e la genesi della quale occorre risalire alla natura del modo di produzione dominante: al diritto borghese corrisponde la società borghese. Ancora una volta il passaggio deve necessariamente essere dialettico e non meccanico, pena lo scivolamento in una sorta di economicismo giuridico. Solo considerando che la sovrastruttura retroagisce sulla struttura si può comprendere come il diritto sia contemporaneamente riflesso della realtà economico-sociale e mistificazione di essa. Essendo lo Stato la forma in cui gli individui della classe dominante fanno valere i loro interessi comuni, ne consegue che tutte le istituzioni che passano attraverso questo intermediario ne ricevano la forma politica:

Di qui l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera. (1)

Fin dalla sua origine il diritto conduce una capillare e incessante opera di trasfigurazione idealistica dei reali rapporti di classe: ciò che la società divisa in classe separa, il diritto (come il Cristianesimo) unisce nel nome del culto dell’uomo astratto. Il carattere reificato delle relazioni umane sotto il dominio del capitalismo è mediato dal formalismo a-classistia del diritto borghese, nel quale il carattere antagonistico e conflittuale della formazione sociale è dissimulato attraverso un sistema astrattamente egalitario di imputazioni giuridiche. Come l’ineguaglianza sostanziale tra proletari e borghesi è figlia dello scambio di equivalenti, a livello giuridico la stessa ineguaglianza discende da un sistema di diritti uguali per tutti. Al feticismo delle merci si affianca questa sorta di feticismo giuridico: esso è, in primo luogo, la sovrastruttura giuridica costruita su rapporti sociali reificati e, conseguentemente, la mistificazione dei rapporti sociali stessi, ammantati da un alone di universalismo ed uguaglianza.

Ovviamente anche le norme del diritto penale si formano e si applicano rispecchiando i rapporti di disuguaglianza esistenti a livello di modo di produzione ed esercitano una decisiva funzione di cristallizzazione della disuguaglianza stessa. Per poter esercitare una così profonda e pervasiva azione di stabilizzazione sociale, la strategia privilegiata consiste nel sottrarre le norme del diritto penale dalla sfera della storicità e dell’opportunità economico-politica, per innalzarle a precetti naturalistici.

La prima fuorviante dicotomia da affrontare e distruggere è quella tra mala in sé e mala prohibita. Questa contrapposizione presuppone l’esistenza di una categoria di devianze che devono alle istituzioni solo un formale riconoscimento, in quanto “contenute nella natura umana”. Secondo Faugeron questo ragionamento è compromesso in modo decisivo da una fallacia tautologica:

Si sceglie un comportamento - incesto, per esempio - che si dice appartenere alla categoria mala in sé. Se ne fa giudicare la gravità da persone che vivono in organizzazioni sociali dove questo comportamento è legalmente represso e si raccoglie una larga maggioranza in questo senso. Come conclusione se ne inferisce che si tratta di un comportamento mala in sé. (2)

Semplicemente, si prende la causa per l’effetto.

Engels rileva ancora una volta come i precetti morali che si traducono in norme giuridiche abbiano la loro base nella struttura economica della società:

A partire dal momento in cui si sviluppò la proprietà privata di beni mobili, a tutte le società in cui vigeva questa proprietà privata dovette essere comune il comandamento morale: Non rubare. Questo comandamento diventa perciò una legge morale eterna? Niente affatto. In una società in cui i motivi per rubare sono eliminati, in cui a lungo andare soltanto i pazzi potrebbero rubare, quanto si riderebbe del predicatore di morale che proclamasse solennemente la verità eterna: Non rubare! (3)

Non meno ipocrita risulta essere la mistica che vuole contrabbandare l’omicidio come un delitto di natura, nel momento in cui, prescindendo dalle controverse e strumentalizzabili questioni etiche riguardanti eutanasia, aborto e infanticidio, la maggiore democrazia occidentale (e non una qualche cultura marginale remota nello spazio o nel tempo) si arroga il potere di condannare a morte i propri cittadini o quelli dei paesi cui decide di muovere guerra per la difesa dei propri interessi imperialistici.

La contraddizione in questo campo è talmente lampante da scivolare nel paradosso, anche senza la citazione degli innumerevoli esempi storici di culture che, in determinate condizioni, legittimano l’uccisione di un membro della collettività.

Proseguendo questo metodo di analisi è possibile scoprire nel progressivo e sempre più penetrante intervento del diritto penale una trasformazione qualitativa nella storia del potere punitivo: la produzione di legittimazione del potere stesso attraverso la legalità. Il crimen lesae majestatis ha la stessa importanza costitutiva che ha l’accumulazione originaria nella storia del capitalismo:

... come l’accumulazione originaria, che segna l’atto di nascita della società capitalistica, continua a riprodursi con la stessa primitiva violenza che il diritto non è mai riuscito a “domare”, cosi il crimen lesae majestatis, questo nucleo originario del diritto penale moderno, ha sempre continuato ad esprimere la maestà della violenza, non solo nelle aree periferiche e dipendenti della nostra formazione economico-sociale, ma anche all’interno delle aree centrali. (4)

La labilità di questa particolare strategia di legittimazione è dimostrata ampiamente ogniqualvolta le dinamiche del conflitto sociale escono dallo schema legal-istituzionale previsto e predisposto: in questi casi, neanche troppo marginali, di uscita dello scontro di classe dal suo stato di latenza, l’intervento repressivo straripa dai fragili argini della legalità per manifestarsi in tutta la sua violenza.

Con questi strumenti è interpretabile ad esempio l’esperienza del nazismo come parte integrante della storia della borghesia, lungi dalla demonizzazione ideologica figlia delle esigenze propagandistiche delle democrazie capitalistiche occidentali.

L’esecuzione della pena e il suo legame con il modo di produzione

L’assetto economico caratteristico del modo di produzione dominante, oltre a determinare il contenuto sostanziale prescrittivo delle norme penali, si riflette nelle forme di esecuzione della pena.

L’astrazione di un particolare stadio di sviluppo economico e sociale e la sua fissazione come un dato nella teoria penale limita inevitabilmente lo spazio di analisi dei rapporti dialettici tra forme punitive ed organizzazione sociale.

Storicamente ogni modo di produzione dominante ha espresso una correlativa forma di esecuzione della pena: la schiavitù (come forma di pena) è prefigurabile solo nel contesto di un’economia schiavistica, il lavoro carcerario non avrebbe alcuna profittabilità senza lo sviluppo della manifattura e dell’industria; l’economia capitalistico-industriale matura richiede la libertà della forza lavoro (libera formalmente ma obbligata a porsi sul mercato) e riduce simmetricamente l’opportunità del lavoro dei condannati

Tra le varie modalità di esecuzione della pena, il carcere è considerabile come la reificazione del diritto penale, la concretizzazione più evidente della sua operatività.

L’origine storica della pena detentiva e l’ideologia che da sempre l’accompagna e la sostiene rivelano in modo evidente tutte le contraddizioni e le mistificazioni prodotte nella società borghese. L’irruzione della pena detentiva nella storia dell’uomo coincide infatti con il periodo dell’accumulazione originaria in Inghilterra e si interseca con la storia della formazione e della riproduzione del proletariato.

La politica legislativa delle recinzioni e il divieto di proprietà dei mezzi di produzione per i contadini (presupposti necessari per la creazione di un sistema di allevamento capitalistico) determinano la formazione di una massa enorme di ex servi della gleba espropriati delle loro terre e dei loro strumenti, finalmente liberi di vendere la propria forza lavoro al miglior offerente.

Ovviamente si tratta semplicemente di un passaggio da un vincolo diretto, tangibile e giuridicamente sanzionato col signore feudale, ad una uguale soggezione economica, semmai ancora più insidiosa perché ammantata da un velo di esteriore libertà. La legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio permise infatti di internare nelle neonate workhouses (5) migliaia di proletari, costretti tramite i lavori forzati ad interiorizzare come naturale la disciplina del lavoro, da svolgere eventualmente una volta tornati liberi nelle manifatture. Il legame fisiologico e intimo tra carcere e fabbrica è storicamente un’evidenza.

Questo cambiamento violento dei rapporti di produzione conduce anche alla possibilità teorico generale della pena detentiva.

Prima dell’avvento della schiavitù salariata, infatti, non si era storicizzato il concetto del lavoro umano misurato nel tempo: affinché si imponesse l’idea di espiare il delitto con un determinato quantitativo di libertà personale predeterminato astrattamente era necessario che tutte le forme di ricchezza sociale venissero ridotte alla misura del lavoro umano.

È precisamente il concetto di “lavoro” che salda il contenuto della neonata istituzione carceraria con la sua forma legale:

Il calcolo, la misura di pena in termini di valore-lavoro per unità di tempo, diviene possibile solo quando la pena è stata riempita di questo significato, quando si lavora o quando si addestra al lavoro (al lavoro salariato, al lavoro capitalistico) [...] Il contenuto della pena (“l’esecuzione”) è in questo modo legato alla sua forma giuridica allo stesso modo in cui l’autorità in fabbrica garantisce che lo sfruttamento possa assumere l’aspetto di contratto. (6)

Foucault parla a riguardo di evidenza economica della prigione, che monetizza i castighi in un determinato quantum di tempo e stabilisce un rapporto di equivalenza quantitativa tra delitto e durata dell’esecuzione della pena:

La prigione è “naturale”, come è “naturale” nella nostra società l’uso del tempo per misurare gli scambi. (7)

La propagandata evidenza metastorica del carcere si fonda altresì sul suo ruolo di apparato per trasformare e correggere gli individui, ponendosi come paradigma dei diversi meccanismi di persuasione diffusi a tutti i livelli della società:

La prigione: una caserma un po’ stretta, una scuola senza indulgenza, una fabbrica buia, ma, al limite, niente di qualitativamente differente. (8)

In altre parole uno degli strumenti per inculcare una sorta di pedagogia universale del lavoro nelle menti di chi vi si mostrasse refrattario: obbligo del lavoro quindi, ma anche retribuzione per consentire al prigioniero di elevare la sua situazione durante la detenzione.

Nelle economie precapitalistiche, il carcere come pena semplicemente non esiste: la prigione aveva finalità essenzialmente custodialistico-processuali, di conservazione dell’imputato in attesa dell’esecuzione della pena vera e propria: non era altro che un presupposto edilizio del carcere moderno.

Per tutto il medioevo dominò infatti il principio sintetizzabile nella formula giustinianea Carcer enim ad continendos homines non ad puniendos haberi debet (la funzione del carcere è solo quella di custodire gli uomini, non di punirli): la “pura e semplice” privazione della libertà personale protratta per un tempo proporzionale all’entità del crimine commesso, senza l’accompagnamento di alcuna sofferenza ulteriore, è assolutamente sconosciuta.

Lungi dalle puerili trasfigurazioni di un passato idilliaco esistente solo nelle teste di qualche anarco-primitivista o affine, è necessario sottolineare che l’introduzione della pena detentiva costituì un effettivo miglioramento delle condizioni obiettive dei condannati, ai quali, col passare degli anni, furono gradualmente risparmiati (almeno sulla carta delle leggi...) supplizi e torture processuali.

Ugualmente onesto intellettualmente è considerare come questi fenomeni di umanizzazione delle pene non costituirono tanto un portato delle battaglie ideologiche condotte dai movimenti umanitari piccolo borghesi, quanto una conseguenza necessaria dei mutati rapporti di produzione e delle emergenti esigenze di certezza del diritto e disponibilità di forza lavoro della neonata classe dominante.

A proposito delle istanze umanizzatrici perorate dai pensatori borghesi, le parole di Beccaria nel suo celebre “Dei delitti e delle pene” dimostrano in modo lampante la continuità delle sue istanze con l’ideologia della società capitalistica classica basata sulla libera concorrenza. Egli, riferendosi alle misure di politica criminale contro il furto, il più tipico delitto delle classi disere-date, scarta recisamente l’opzione della pena pecuniaria e consacra l’equivalenza tra delitto e libertà personale:

[...] la pena più opportuna sarà quell’unica sorta di schiavitù che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù, per un tempo, delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla, colla propria e perfetta dipendenza, dell’ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. (9)

La transizione dal carcere feudale a quello mercantile è lo specchio di una trasformazione economica e sociale che incide profondamente sui rapporti di produzione e, subordinatamente, di distribuzione. Il carcere mercantile mira quindi al recupero e all’utilizzo produttivo degli oziosi e degli indisciplinati:

La devianza, considerata malattia, o traviamento, è curabile perché il vagabondo improduttivo può ora mettere a frutto il proprio valore potenziale. Può scambiare se stesso, come merce-lavoro, contro un quid che si presenta sotto forma di mantenimento, ma è al contempo salario e misura della sua riabilitazione. (10)

La successiva fase capitalistico industriale del carcere si differenzia da quella mercantile per la transizione dalla priorità dell’aspetto rieducativo a quello eminentemente disciplinare-punitivo. L’esplosione demografica del XVIII secolo determina infatti un aumento dell’offerta sul mercato del lavoro e un correlativo inasprimento della concorrenza tra i lavoratori stessi, nonché tra lavoratori liberi e reclusi, con una preziosissima funzione di calmiere per i salari: la costituzione di un esercito industriale di riserva che garantisca l’adeguata flessibilità del fattore lavoro.

Parallela al radicamento della concorrenza, procede la dinamica di mercificazione della forza lavoro (con particolare attenzione alla riduzione dei costi di produzione del fattore lavoro) e di interiorizzazione della disciplina capitalistica, della quale è vero e proprio paradigma il progetto del Panopticon di Bentham. (11)

A livello architettonico la struttura correzionale benthamita si articola secondo uno schema a raggiera che prevede una torre centrale collegata alle celle di detenzione attraverso una serie di cunicoli attraverso i quali i controllori nella torre possano costantemente sorvegliare i reclusi senza essere contestualmente visti.

L’ambizioso progetto era, secondo l’idea dell’autore, applicabile ad ogni tipo di stabilimento nel quale fosse avvertibile un’esigenza di controllo costante.

Indipendentemente dalla sua mai avvenuta realizzazione pratica, il progetto del Panopticon rappresenta una vera e propria summa dell’ideologia dominante sotto l’imperio del nascente capitalismo industriale e dalle corrispettive esigenze di controllo sociale della classe detentrice dei mezzi di produzione.

I caratteri essenziali del modello sono riassunti da Ripoli (12) in 4 principi:

  1. il principio ispettivo o di sorveglianza centralizzata;
  2. il principio dell’isolamento;
  3. il principio della disciplina lavorativa;
  4. il principio della gestione privatistica della struttura, con la previsione dell’appalto della conduzione dell’edificio ad un contractor, che può utilizzare il lavoro dei detenuti a fini di profitto economico, secondo il principio concorrenziale, ancora oggi molto diffuso, della coincidenza degli interessi alla buona gestione e alla redditività economica.

È evidente la transizione radicale della forma di autorità, che da fisicamente coercitiva, si avvia a mutarsi in invisibile e larvata.

Nel Panopticon infatti, l’esigenza economica di sorvegliare il maggior numero di persone con il minor numero di controllori, si lega diabolicamente con la dinamica della dissociazione tra vedere ed essere visti: il recluso non può mai sapere se in un dato istante la guardia lo stia osservando, e questa situazione di costante incertezza, coniugata con l’erogazione di pene esemplari ai trasgressori che vengono effettivamente scoperti, conduce all’interiorizzazione del sorvegliante a livello addirittura super-egoico: irrompe il prete interiore di cui parla Marx in “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”.

Il Panopticon si regge precisamente sulla categoria del potere sorretto da coloro che ne sono oggetto, ergendosi a paradigma delle moderne tecniche di controllo sociale:

Il “panottismo” non richiede un Panopticon perpetuo [...]: basta l’egemonia capitalistica sulle istituzioni, siano queste le istituzioni del lavoro, che quelle della fede, dell’affetto, del divertimento, ecc. (13)

Infatti, già a partire dagli inizi del XX secolo, nei Paesi a capitalismo avanzato il carcere abdica alla sua funzione di apogeo della repressione e della rieducazione, per consacrarsi come istanza evocativo-terroristica a livello ideologico e come extrema ratio dal punto di vista della politica criminale.

Vi sono altre strutture che incarnano forme di potere analoghe a quella carceraria. Il mercato concorrenziale, ad esempio, agisce come una sorta di Panopticon decentralizzato, nel quale al timore di essere sorvegliati in qualsiasi momento subentra la consapevolezza dell’omogeneità della propria forza lavoro e della sua conseguente potenziale rimpiazzabilità. Il mercato si impone come una dinamica di potere indipendente dalla presenza del detentore di quel potere stesso: il capitale.

Dal carcere-fabbrica al “penitenziario diffuso”

La riproduzione all’interno del microcosmo carcerario delle dinamiche caratterizzanti la società libera e delle conseguenti tecniche di controllo sociale è radicata in profondità e strutturabile su diversi piani.

Innanzitutto, alla mistica di una società democratica, partecipativa, traente la propria origine da un contratto sociale volto a prevenire la barbarie, ha da sempre corrisposto un’equivalente propaganda di una democratica pena carceraria, sottratta all’arbitrio umano in nome della legge dell’equivalenza tra delitto e castigo.

In entrambe le mistificazioni è avvertibile un substrato naturalistico al quale si affianca in seguito una comune matrice contrattuale.

Così allo stato di natura in cui homo homini lupus, corrisponde la categoria dei delitti mala in sé ugualmente sottratta alla sua storicità.

Se sulla prima categoria si installa il contratto sociale liberamente stipulato dai membri della collettività, la pena detentiva diviene niente più che “la forma giuridica generale di un sistema di diritti (di/per principio) egualitari” (14): nessun arbitrio o manifestazione di potere, semplicemente il risultato di un accordo tacito sulla gerarchia dei valori da tutelare e un asettica conversione in un equivalente punizione.

In entrambi i casi si celebra il trionfo della libertà, della giustizia e dell’autodeterminazione:

[...] perché allora le pene, non derivando più dalla volontà del legislatore, ma dalla natura delle cose, non mostrano più l’uomo fare violenza sull’uomo. (15)

In generale, nella pena carceraria si rinviene la contraddizione centrale e fondante dell’ideologia borghese: una forma giuridica astratta che garantisce un’uguaglianza formale, neutralizzata dalla sostanziale disomogeneità di posizione rispetto ai mezzi di produzione materiale e quindi culturale.

Ancora, l’istituzione penitenziaria eredita dal modo di produzione capitalistico il legame intimo, profondo e fondante con la violenza e la correlativa esigenza di perpetrarla quotidianamente e, altrettanto quotidianamente, minimizzarla e trasfigurarla.

Così, come secondo l’ideologia capitalistica liberale le leggi del mercato sono assolutamente automatiche e il loro funzionamento, seguendo l’ordine naturale delle cose, prescinde dalla volontà dei singoli operatori, allo stesso modo automatica e sottratta alla sfera della valutabilità è la già esaminata equivalenza tra delitto e pena.

Tutto ciò, in un’ottica che programmaticamente nega l’onnipresenza della violenza criminale ad ogni stadio dello sviluppo capitalistico.

Gli stereotipi che sostengono la mistica della società democratica quanto quella del carcere moderno, anche quando non sono completamente interiorizzati dall’opinione pubblica, sono comunque facilmente evocabili con le armi della retorica e dell’ideologia.

Alcune ricerche illustrate da Mosconi e Toller (16) rivelano, ad esempio, una serie di contraddizioni e ambivalenze negli intervistati, soprattutto a proposito di carcere e punitività. La prigione viene avvertita come inevitabile, insostituibile, come un dato; ma al tempo stesso se ne avverte l’inutilità, l’incapacità rieducativa e la valenza crimino-genetica.

La maggioranza degli interpellati è favorevole ad un indeterminato aumento della severità delle pene, ma di fronte alla prospet-tazione di una serie di rimedi alla criminalità basati su interventi di tipo socio-economico, le spinte repressive si riducono drasticamente.

La stessa ambivalenza è riscontrabile nella convinzione dell’inevitabilità e definitività del modo di produzione capitalistico, secondo il circolo vizioso della costruzione della sua superiorità sulle sue sempre più difficilmente dissimulabili sconfitte e contraddizioni. Esattamente secondo la medesima logica con la quale il recidivismo non viene interpretato nel senso dell’ineffettualità dell’istituzione carceraria, ma in quello della pericolosità del delinquente abituale.

L’analisi materialistica permette di analizzare compiutamente la compenetrazione dialettica tra i termini società e prigione: il carcere-sovrastruttura, in uno stadio avanzato di sviluppo, retroagisce sulla struttura sociale stessa ispirandone le modalità repressive.

È la dinamica cosiddetta del penitenziario diffuso o carcere immateriale, parallela alla progressiva atrofizzazione della funzione disciplinare dell’istituzione stessa, ridotta ormai a puro simbolismo:

Il sistema penale, da un lato ingigantito nel suo apparato normativo e processuale e dall’altro depotenziato nel suo momento direttamente punitivo-repressivo, si configura così, sempre più, come un enorme apparato ideologico la cui funzione, assai più che la diretta repressione costrittiva, è la celebrazione quotidiana dei valori della legalità e l’emissione di giudizi di colpevolezza che non hanno altro effetto, nella maggioranza dei casi, se non quello della semplice stigmatizzazione sociale dei devianti. (17)

Lo strumento privilegiato è ormai un pervasivo controllo in libertà, secondo lo stesso percorso seguito dalla pena carceraria:

Come il carcere andava a rappresentare la forma-fabbrica ai tempi del Panopticon benthamita, così oggi è il controllo sul ghetto che diviene quello in cui “la società” si rispecchia e crede sotto l’ideologia del community treatment. (18)

Ghetto, cioè uno degli strati della società libera, che si sostituisce alla prigione per rappresentare una sorta di pena diffusa e comune.

Il carcere sfuma nella comunità aperta e si con-figura come uno dei tanti strumenti di controllo che la proprietà dei mezzi di produzione materiale e quindi culturale mette a disposizione della classe dominante. Il penitenziario non è più quel laboratorio deputato alla produzione e alla disciplina del proletariato: questa funzione è espletata dalle moderne democrazie borghesi, che non violentano più il corpo quanto l’anima e fondano la loro pretesa di ubbidienza (non razionalmente giustificabile, ma solo autoritativamente esigibile) sull’autogoverno dei cittadini.

Un despota imbecille può costringere gli schiavi con catene di ferro; ma un vero politico li lega assai più fortemente con la catena delle proprie idee [...] legame tanto più forte perché ne ignoriamo la tessitura e lo crediamo opera nostra. La disperazione e il tempo corrodono i legami di ferro e di acciaio, ma nulla vale contro l’unione abituale delle idee. (19)

Nulla vale, certamente, finché si rimane nel campo della speculazione filosofica e sul terreno appunto delle idee:

I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo. (20)

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Davide Rizzo

(1) K. MARX e F. ENGELS, “La concezione materialistica della storia”, Roma, Editori Riuniti, 1959, pp. 96.

(2) C. FAUGERON, “Rappresentazioni sociali della devianza e dell’interevento penale”, in “Dei delitti e delle pene”, n.2, 1983, pp. 391.

(3) F. ENGELS, “Antiduhring”, Roma, Editori riuniti, 1971, pp. 99.

(4) A. BARATTA, “Vecchie e nuove strategie nella legittimazione del diritto penale” in “Dei delitti e delle pene”, n. 2, 1985, pp. 250.

(5) La prima istituzione creata allo scopo di liberare le città dai vagabondi e dai mendicanti fu presumibilmente quella di Bridewell a Londra nel 1555.

(6) D. MELOSSI, M. PAVARINI, “Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario”, Bologna, Società Editrice il Mulino, 1979, pp. 87.

(7) M. FOUCAULT, “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”, Torino, Giulio Einaudi Editore S.p.a, 1976 e 1993, pp. 253.

(8) Op. cit. pp. 253.

(9) C. BECCARIA, “Dei delitti e delle pene”, citato in D. MELOSSI, M. PAVARINI “Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario”, Bologna, Società Editrice il Mulino, 1979, pp. 109.

(10) Op. cit. pp. XII.

(11) J. Bentham, uno dei principali alfieri della idealistica e interclassista dottrina utilitaristica, è significativamente definito da Marx come “insulso, pedante fanfarone oracolo della classe borghese del XIX secolo”.

(12) M. RIPOLI, “Il cambiamento possibile: politica e società in Inghilterra tra Sette e Ottocento”, Genova, ECIG Edizioni Culturali Internazionali Genova, 1997, pp. 90.

(13) D. MELOSSI, “Oltre il Panopticon. Per uno studio delle strategie di controllo sociale nel capitalismo del ventesimo secolo” in “La questione criminale”, n. 2-3, 1980, pp. 288.

(14) D. MELOSSI, M. PAVARINI, “Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario”, Bologna, Società Editrice il Mulino, 1979, pp. 243.

(15) MARAT, “Plan de législation criminelle” citato in M. FOUCAULT: “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”, Torino, Giulio Einaudi editore Spa, 1976, pp. 114.

(16) G. MOSCONI, A. TOLLER, “Criminalità, pena e opinione pubblica. La ricerca in Europa” in “Dei delitti e delle pene”, n.1, 1998, pp. 162 e segg.

(17) L. FERRAJOLI, D. ZOLO, “Marxismo e questione criminale” in “La questione criminale”, n. 1, 1977, pp. 104.

(18) D. MELOSSI, “Oltre il Panopticon. Per uno studio delle strategie di controllo sociale nel capitalismo del ventesimo secolo” in “La questione criminale”, n. 2-3, 1980, pp. 337.

(19) J. M. SERVAN citato da M. FOUCAULT, “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”, Torino, Giulio Einaudi editore Spa, 1976, pp. 112.

(20) K. MARX, “Tesi su Feuerbach” in F. ENGELS, “Ludwig Feuerbach”, Roma, Editori riuniti, 1969, pp.86.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.