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Home ›La crisi del settore auto negli Stati Uniti
Per gli operai licenziamenti, tagli ai fondi pensionistici e riduzioni salariali
Tutto il settore automobilistico ame
ricano è investito da una profon
da crisi. I due leader mondiali Gm e Ford hanno debiti tali, i loro titoli obbligazionari sono ormai classificati dalle agenzie internazionali al livello di ”spazzatura”, che pongono nell’immediato il rischio del fallimento. In questo contesto l’otto ottobre scorso i libri contabili della Delphi, il gigante americano della componentistica, sono stati portati presso il tribunale fallimentare di New York. Per capire l’entità del problema bastano poche cifre; l’azienda, prima nel mondo fino allo scorso anno nel settore della componentistica (ora é la Bosh), ha 167 fabbriche sparse in tutto il pianeta di cui 45 negli Usa, 185.000 dipendenti di cui 51.000 in America e un fatturato di 26 miliardi di dollari. I suoi impianti industriali dell’Ohio e del Michigan sono vitali per l’economia locale e i suoi contratti di fornitura, che la legano ad altre 34.000 aziende statunitensi, danno lavoro complessivamente ad oltre un milione di dipendenti nei soli Stati Uniti. Il suo debito con il fondo previdenziale aziendale ammonta a 11 miliardi di dollari e l’ultimo bilancio d’esercizio si è chiuso con un passivo di 4,8 miliardi di dollari. Insomma un vero e proprio disastro economico che incombe in primo luogo sulla testa dei lavoratori del gruppo.
Steve Miller, chiamato a capo dell’azienda nel giugno scorso e famoso per la durezza dei suoi interventi per il risanamento di aziende in crisi (amministrò nel 2001 il fallimento della Bethlehem Steel e successivamente quello del settore aereo con durissimi attacchi ai lavoratori), non ha tardato a far sentire la sua voce. Il piano di ristrutturazione prevede la chiusura di sei fabbriche con un taglio di un quinto della produzione complessiva del gruppo, ottomila licenziamenti, la riduzione dei salari degli operai del 60% (sì avete letto bene, proprio il 60%!), il taglio drastico delle prestazioni sanitarie finanziate dalla Delphi e il taglio dei fondi aziendali destinati alla previdenza dei lavoratori. Miller ha posto queste condizioni come irrinunciabili per concludere un accordo col sindacato che eviti la successiva procedura unilaterale da parte del tribunale fallimentare. Il sindacato ha risposto con flebili lagnanze e invitando i lavoratori a erogare il minimo delle prestazioni nel pieno rispetto del contratto di lavoro. Di scioperi non ha nemmeno accennato.
Il caso è di enorme portata perché fa da capofila ai pesanti processi di ristrutturazione che coinvolgeranno prossimamente tutto il settore automobilistico americano e perché il suo esito è destinato a fare scuola. In gioco è un vero e proprio cambiamento epocale che riguarda la classe operaia americana: si tratta di perdere definitivamente lo status di aristocrazia operaia per entrare in quello di classe operaia alle soglie della povertà. Il caso Delphi insomma apre la strada a un radicale cambiamento della condizione economica dei lavoratori dell’industria automobilistica, spina dorsale dello sviluppo industriale americano da inizio ‘900 ad oggi. Più in dettaglio, la ristrutturazione salariale prevede di ridurre del 60% il costo salariale sopportato dall’azienda: dalla paga lorda individuale di 65 dollari dovrà essere scorporata la quota comprensiva di tutti gli oneri previdenziali e assistenziali (principalmente sanitari) per arrivare ad un salario di 26 dollari l’ora che dovrà scendere a 10 dollari quale paga che finirà in tasca all’operaio. In altre parole l’azienda non vuole più avere alcun onere previdenziale e sanitario e vuole pagare l’operaio alla stessa stregua di quello di un qualsiasi paese arretrato. Dieci dollari orari, corrispondenti a un salario annuale di 20.800 dollari, sarebbe di appena 1.500 dollari al di sopra della soglia di povertà per una famiglia di quattro persone secondo le definizioni degli organi statistici americani ufficiali. Un livello salariale prossimo a far scattare i meccanismi di compensazione sociale previsti per mitigare lo stato di indigenza nel quale sprofonderebbero molte famiglie operaie.
L’attacco è durissimo e mette in evidenza cosa prospetta nell’immediato il capitalismo al mondo del lavoro. Infatti é logico pensare che questa tendenza si propagherà a macchia d’olio a tutta l’industria americana per arrivare poi in tutto l’occidente, Europa compresa, dove peraltro sono già da tempo avviati i processi di pesante riduzione dell’assistenza sanitaria e previdenziale.
Dunque la fase del welfare state, la fase in cui il capitalismo ha mostrato il suo volto buono, la fase in cui i sindacati hanno potuto avere buon gioco nell’illudere il proletariato che con l’attuale sistema economico si poteva progredire e vivere nel benessere, è finita. La crisi strutturale del capitalismo, negata ancora oggi da ogni parte nel tentativo di nascondere la sua gravità, pone il problema di riportare il proletariato alle condizioni iniziali dello sviluppo industriale, quelle in cui ai lavoratori erano negati più elementari diritti e le condizioni essenziali per una vita dignitosamente umana. Precarietà, lavoro saltuario, lavoro sottopagato, negazione di qualsiasi diritto alla propria difesa, lavoro stressante fatto di una giornata lavorativa sempre più lunga, mancanza di una decente assistenza sanitaria e infine una vecchiaia fatta di stenti e miseria, sono le nuove condizioni di vita imposte al proletariato da una società borghese che, all’opposto, vede una crescente appropriazione di ricchezza da parte di un numero ristretto di persone che dei soldi non sanno più neanche cosa farne. Questo è il capitalismo moderno. I sindacati, che fino a qualche decennio fa avevano il compito di garantire la pace sociale attraverso una politica di elargizione delle briciole dei profitti capitalistici, ora ne hanno un altro, quello di imporre le nuove condizioni dettate dalla crisi capitalistica e di fare in modo che i lavoratori non riescano ad organizzare l’opposizione a queste politiche. Gli Stati uniti, col caso emblematico della Delphi, devono essere da monito al proletariato mondiale: o si rialza la testa o si è destinati a subire terribili conseguenze. Non ci sono alternative a questo dilemma.
clBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #12
Dicembre 2005
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