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Home ›Per Maroni in pensione solo a 70 anni
Sembrava fosse solo una delle tante battute del “ducetto” di Arcore, sempre attivo e “insonne” come il fu Duce del fascismo, invece pare che quella di innalzare l’età pensionabile fino ai settant’anni non sia poi un’idea così campata per aria.
Lo stesso ministro Maroni, pochi giorni prima del varo della riforma del TFR, l’ha ripresa in mano, avvertendo che, in ogni caso, al momento non sarebbe tra le priorità del governo. Può essere, perché dopo essere comparsa su alcuni (pochissimi) organi di informazione, della proposta “maroniana” non si hanno più notizie, ma questo non significa affatto che sia stata cancellata dalle febbrili menti borghesi, dato che è perfettamente coerente con le esigenze del capitalismo e con le politiche economiche seguite dai governi di qualunque colore.
D’altra parte, quando, poco più di una decina di anni fa, si cominciò a ventilare l’ipotesi di innalzare l’età per la pensione e, contemporaneamente, di abbassarne l’importo mensile, molti, fra cui i sindacalisti, reagirono con “sdegno e fermezza” (?!) a quello che era giustamente dipinto come un vile e inaccettabile attacco alle condizioni di esistenza dei lavoratori. Sappiamo tutti com’è andata a finire, con i sindacati in prima fila a macellare il sistema pensionistico “tradizionale”. La tattica è nota: alle “sparate” del governo di turno o dei padroni, prima si oppone un secco “no”, poi un “forse”, e si finisce ai soliti tarallucci e vino in nome del superiore “bene comune”, coi lavoratori che pagano integralmente il conto del festino.
Anche stavolta, dalla bocca dei segretari generali di CGIL-CISL-UIL sono venuti commenti tra l’ironico e lo sdegnato, ma proprio per questo non ci sentiamo affatto tranquilli: se il padronato chiedesse davvero una legge sulla liberalizzazione - verso l’alto, naturalmente - dell’età pensionabile, stiamo pur certi che in un modo o nell’altro i sindacati troverebbero la maniera di venire incontro alle richieste del “bene comune”. Per inciso, l’allungamento dell’orario/vita di lavoro a parità - o anche meno - di salario, non è un obiettivo solo della borghesia italiana, ma è una tendenza mondiale. Ormai, qui in “Occidente” s’è perso il conto degli accordi stipulati tra sindacati e imprese che prevedono l’allungamento della giornata lavorativa (senza aumento di stipendio e magari con la cancellazione dei vari “premi” di produzione) in cambio della momentanea sospensione dei licenziamenti annunciati o della promessa di non spostare l’attività in quei paesi dove il salario è inferiore di tre, quattro, trenta volte (Bosch, Siemens, Volkswagen, ecc.). Se in Francia la legge delle 35 ore, totem della sinistra “per bene”, è stata formalmente cancellata, dopo aver prodotto un numero di posti di lavoro nettamente inferiore alle aspettative riformiste e un incremento notevole della precarietà, in Italia, Bombassei, vicepresidente di Confindustria, batte sul tasto della sedicente modernizzazione delle cosiddette relazioni industriali (il manifesto, 22-11-’05), vale a dire... sull’aumento delle ore lavorative.
Insomma, i padroni sono tanto moderni che ovunque stanno cercando - e in gran parte lo stanno già facendo - di ritornare alle condizioni di lavoro di cinquanta, cento e passa anni fa, quando lo sfruttamento e la giornata lavorativa non avevano altro limite che la resistenza fisica della forza-lavoro.
D’altronde, chiunque, per esperienza diretta o meno, abbia una conoscenza anche minima del mondo del lavoro, sa bene che le otto ore tendono a diventare come i panda cinesi o... i contratti a tempo indeterminato, cioè una specie a rischio di estinzione, essendo lo straordinario la regola.
Salari e stipendi sempre più grami, insicurezza legata alla precarietà diffusa, sono alcuni dei motivi che spingono a subire - finora - lo strapotere padronale e la sfacciata estorsione del salario differito. A questo proposito, alla base della brigantesca storia ai danni del TFR - di cui alla fine di novembre si è scritto un altro capitolo - non c’è la presunta insostenibilità della pensioni pubbliche, ma l’obiettivo di impadronirsi dell’enorme bottino costituito dalle liquidazioni (13 miliardi di euro all’anno) con il quale scorrazzare nella speculazione finanziaria (sindacati compresi, naturalmente). Tutto il resto sono “balle”!
Rimane il fatto che, legge o non legge sull’aumento dell’età pensionabile, avremo pensioni miserabili: secondo una fonte non sospetta, col sistema totalmente contributivo, così stando le cose, un lavoratore, smettendo di lavorare a 65 anni, avrà una pensione annua lorda di 4909 euro (il sole 24 ore, 23-11-’05). Insomma, più che leggi, saranno gli stipendi e le pensioni letteralmente da fame a farci lavorare finché non avremo un piede nella fossa. Ma allora, è meglio svegliarsi e darsi da fare per cacciare il capitalismo nella pattumiera della storia: è una questione di legittima difesa.
cbBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #12
Dicembre 2005
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