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Home ›Anche l'Istat conferma: la crisi è strutturale
Ma il centrodestra non ha più colpe del centrosinistra
Ora lo confermano anche i dati dell’Istat: siamo nel pieno di una crisi strutturale. La crescita dell’eurozona è sostanzialmente ferma e quella italiana lo è ancor di più. Negli ultimi cinque anni, infatti, in Italia il Pil è cresciuto di poco più del 3% e nell’ultimo anno solo dello 0,3%. Nel 2005 gli investimenti fissi lordi sono diminuiti in tutti i settori; altresì sono diminuite le esportazioni e cresciute le importazioni a conferma della forte perdita di competitività dell’intero sistema. I consumi hanno fatto registrare una crescita dello 0,3%, trainati però dalla crescita nel settore dei beni di lusso.
Il valore aggiunto dell’Agricoltura è diminuito del 2,2% e quello dell’Industria del 2%. In leggerissima crescita sono risultati solo il settore delle costruzioni (0,60%) e dei servizi (0,70%). Ma il dato che più di ogni altro fotografa la situazione è quello relativo all’andamento dell’occupazione. Fin qui, l’Istat aveva sempre affermato che il numero degli occupati negli ultimi anni era cresciuto di oltre 600 mila unità e il governo ne aveva rivendicato il merito individuandone la ragione nell’approvazione della legge 30, la famigerata legge Biagi, quella che ha precarizzato il mercato del lavoro fino all’inverosimile; ma ora scopriamo - in verità noi lo avevamo denunciato più volte - che si è trattava di un vero e proprio imbroglio statistico dovuto al fatto che l’Istat considera occupato anche chi lavora un solo giorno a settimana; così è bastato che la stessa Istat trasformasse il dato relativo a questi pseudooccupati in unità di lavoro totali a tempo pieno per accorgersi che negli ultimi anni sono andati perduti oltre 100 mila posti di lavoro.
Sono dati questi che rendono l’ultimo quinquennio, complessivamente, il peggior dell’intero dopoguerra.
E pensare che Berlusconi all’inizio del suo mandato prometteva un milione di nuovi posti di lavoro e un nuovo Eldorado. Sarebbe bastato, egli diceva, tagliare le imposte sui redditi alti perché i capitali tornassero a riversarsi negli investimenti e a dar così nuova linfa all’intera economia e i posti di lavoro sarebbero spuntati come funghi nel bosco.
In verità Berlusconi l’ha enfatizzata meglio e più degli altri; ma l’idea che una minore pressione fiscale sui redditi da capitale avrebbe favorito la ripresa economica era, ed è tuttora, comune a tutte le forze politiche sia dell’opposizione sia della maggioranza; così come quella che fa discendere la crisi da un presunto eccessivo costo del lavoro o dalla scarsa concorrenza che esisterebbe sul mercato a causa dell’ancora tuttora forte presenza dello stato nell’economia.
L’idea era tanto diffusa che all’inizio di questa legislatura, nella convinzione che il governo Berlusconi avrebbe fatto meglio e di più del precedente governo di centrosinistra, spinse, l’allora presidente di Bankitalia Fazio, a prevedere per l’economia italiana un nuovo boom, anzi un nuovo Rinascimento.
Ma la realtà è testarda e non muta per il solo fatto che si pensa di realizzarla affidandosi ai sogni. Le imposte sui redditi da capitale sono state ridotte ma gli investimenti languono. Le privatizzazioni fatte dal centrosinistra hanno ormai potuto espletare tutti i loro benefici effetti, ma dei monopoli è cambiata solo la proprietà: sono passati dalle mani dello stato a quelle dei privati. Il mercato del lavoro non è mai stato più libero di così: un operaio può essere assunto per mezz’ora un giorno sì e l’altro no; lo si può affittare per un salario di fame; e se fa uno sciopero senza chiedere prima il permesso ai rappresentanti dei padroni rischia di finire in galera o di pagare multe salatissime, mente i padroni possono tranquillamente non rispettare anche i contratti sottoscritti.
Ma l’economia andava meglio quando, stando a quanto affermano politici ed economisti borghesi, doveva andare peggio. Insomma, una volta che sono stati smantellati tutti quei presidi anticiclici ereditati dal periodo cosiddetto fordista perché ritenuti la causa della crisi, le cose non sono migliorate e mostrano un’irresistibile tendenza a peggiorare.
D’altra parte non poteva che essere così per la semplice ragione che le politiche anticicliche di ispirazione keynesiana erano a loro volta un tentativo di prevenire le crisi ma non il rimedio per rimuoverne le cause.
Queste affondano le loro radici nelle contraddizioni su cui poggia il processo di accumulazione del capitale che fanno sì che il sistema periodicamente venga scosso da profonde crisi che le normali manovre di politica economica, per quanto raffinate possano essere, non possono né prevenire né contenere oltre una certa misura.
Nel corso del tempo anche quelle di ispirazione keynesiana, benché si siano mostrate le più efficaci, a un certo punto sono risultate del tutto insufficienti, tanto che si è ritenuto che fossero esse stesse la causa della crisi e si è puntato sul ritorno al libero mercato cioè a un passato che peraltro aveva già miseramente fallito come sta a dimostrare la grande crisi del 1929, scoppiata proprio quando trionfavano incontrastate le teorie liberiste.
La crisi fu così devastante che nonostante Keynes e l’intervento poderoso dello stato nell’economia, essa fu superata soltanto grazie alla seconda guerra mondiale e al suo carico di morte e distruzione.
È che senza fatti straordinari come può esserlo una guerra, da queste crisi il capitalismo non esce.
La conferma non viene solo dalla storia ma anche dal presente che vede gli Usa far registrare sì, fra i maggiori paesi industrializzati, i più alti tassi di crescita, sostenuta però da una spesa militare che nell’anno fiscale 2006 è stata prevista pari a mille miliardi di dollari, la più elevata anche in valori costanti che un paese abbia finanziato in tutta la storia del moderno capitalismo.
Che è come affermare che il capitalismo moderno e la guerra sono, come volgarmente si suole dire, culo e camicia.
gpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #3
Marzo 2006
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