I dati Istat sull’aumento dell’occupazione falsano palesemente la realtà

Quando la statistica serve alla classe dominante per imporre altri sacrifici ai lavoratori

Trionfalmente, con tanto di rullo di tamburi, il governo Prodi ha esibito gli ultimi dati ISTAT sull’occupazione. Secondo una prima lettura dei dati si avrebbe un aumento dell’occupazione nel terzo trimestre del 2007 di 416 mila unità e un tasso di disoccupazione pari al 5,6%, il più basso dal 1992. Aumenterebbero dell’1,3% gli occupati al nord, dell’1,1% al sud e del 4,1% al centro. Per la fascia d’età dai 15 ai 64 anni l’occupazione passerebbe dal 58,4% al 59,1%. Il governo di centro sinistra gongola, si coccola i dati come se fossero l’indice di un successo economico da ascrivere alla sua accorta politica sociale.

Nei fatti le cose stanno ben altrimenti. Se si disaggregassero gli stessi indici ISTAT ne verrebbe fuori un quadro diverso e allarmante per il mondo del lavoro italiano. Normalmente in regime capitalistico, uno dei fattori che favorisce l’aumento dell’occupazione, è l’aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro. Più è alto lo sfruttamento del lavoro e più per il capitale è conveniente occupare lavoratori, meno è alto il tasso dello sfruttamento e minore è l’interesse del capitale di avere sotto di sé una forza lavoro che non gli garantisce un sufficiente saggio del profitto. In altri termini l’aumento dell’occupazione e/o l’aumento della disoccupazione devono essere funzionali alle capacità d’estorsione di plusvalore che è alla base del profitto. Le cosiddette politiche occupazionali altro non sono che le scelte obbligate che il capitale mette in essere allo scopo di rendere migliore, più razionale e più intenso il suo processo di valorizzazione.

Nel nostro caso l’ipotesi capitalistica è rispettata appieno, non solo, ma con la fraudolente enunciazione statistica di far passare per posti di lavoro quelli che, in realtà, non sono o lo sono parzialmente. Tre esempi su tutti. Il primo riguarda la mano d’opera degli extra comunitari, quella cosiddetta regolare. Quasi la metà dei nuovi occupati (201 mila su 416 mila) è straniera, ovvero sono lavoratori a tempo determinato, sfruttati al massimo, ricattabili in ogni momento, impiegati per il tempo strettamente necessario al capitale per realizzare i suoi profitti e poi gettati nell’inferno della disoccupazione. Non a caso il settore che ha mostrato l’indice d’incremento maggiore è quello dell’edilizia (5,5%) dove la precarietà, i contratti a termine, che riempiono le statistiche dell’ISTAT, si coniugano perfettamente con la mancanza di sicurezza sul lavoro, le morti bianche e l’iper sfruttamento.

Il secondo esempio si riferisce all’aumento dell’occupazione femminile, un più 2,3%. Anche in questo caso l’aumento dell’occupazione è dovuto ai bassi salari rispetto a quelli maschili per il medesimo lavoro e, soprattutto, al part time che consentono al capitale di avere a disposizione una forza lavoro a basso costo e per periodi dimezzati. Come si vede la chiave di lettura dei dati ISTAT è molto semplice. Si contrabbandono per nuovi posti di lavoro quelli che in realtà sono soltanto mezzi o porzioni di un normale posto di lavoro con l’aggravante della diminuzione del salario reale e della precarietà lavorativa.

E questo introduce il terzo esempio che si nasconde, ma nemmeno tanto, all’interno dei dati statistici. Nell’ultimo trimestre, quello preso in esame dall’ISTAT, i lavoratori a tempo parziale sono aumentati di 300 mila unità contro i 117 mila con contratto a tempo pieno. Il che significa che i lavoratori a tempo determinato sono i tre quarti di tutti i nuovi occupati con un incremento del 10,2% rispetto il trimestre precedente. In questo senso la ferrea legge del capitale è stata rispettata. Si licenzia quando il tasso di sfruttamento è troppo basso, si assume quando il livello salariale e la temporaneità lavorativa lo elevano ai livelli che competono alle sempre più impellenti necessità di valorizzazione del capitale. Non solo, ma così facendo, si falsificano i dati statistici che considerano come nuovo occupato un lavoratore che rimane nei meccanismi produttivi per sei mesi l’anno. Che lavora otto mesi e ne sta fermo dodici, o che è impiegato per qualche settimana al mese e non tutti i mesi, sempre ovviamente, al minimo del salario contrattuale.

In questa logica non fa purtroppo notizia un altro dato, che funge da corollario alla ferrea legge della valorizzazione del capitale che, per esprimersi al meglio, ha bisogno di andare oltre i confini che egli stesso si è giuridicamente imposto. Oggi in Italia, ben il 26% del Pil è prodotto dal lavoro sommerso, ovvero da quella pletora di schiavi salariati che lavorano senza contratto, senza contributi, per 10 ore al giorno a salari da fame che vanno dai trecento euro ad un massimo di novecento. Li si trovano un po’ dappertutto. Nelle piccole aziende del meridione come nel nord-est. Nei Call Center come nell’agricoltura. Oltretutto questi lavoratori escono dalle statistiche ufficiali ma il plusvalore da loro prodotto entra nelle tasche degli imprenditori che hanno a disposizione il massimo cui può tendere il capitale in questa fase: una forza lavoro debole, economicamente ricattabile, a salari bassissimi e senza nessuna forma di garanzia contrattuale.

Per chi invece è nelle norme, per chi ha il privilegio di avere un posto di lavoro stabile, le cose non vanno molto meglio Nel capitalismo contemporaneo non sono i lavoratori del sommerso che progressivamente emergono acquisendo diritti e migliori condizioni di lavoro, ma avviene il contrario. Sono i cosiddetti garantiti che, sotto il peso degli attacchi del capitale, vanno progressivamente perdendo sia sul terreno del salario diretto, di quello indiretto e delle garanzie contrattuali. Il potere d’acquisto dei salari è stato riportato a quello degli anni 1970. Sempre con i dati ISTAT alla mano, a novembre i salari, rispetto all’anno precedente, sono mediamente aumentati del 2,0% mentre l’inflazione ufficiale è salita al 2,6%. Scomponendo anche questo dato e riferendolo all’inflazione percepita dal potere d’acquisto dei salari si arriverebbe a un 10-12%. La struttura del salario va progressivamente diversificandosi tra una componente fissa che diminuisce e una variabile che viene agganciata alla produttività del lavoro. L’età pensionabile slitta progressivamente sempre più in avanti. I nuovi coefficienti di calcolo ne riducono, in prospettiva, l’ammontare sino al 45% dell’ultimo salario, confezionando un emolumento pensionistico che, dopo quarant’anni di lavoro, concede una sorta di ticket sociale per una sopravvivenza ai limiti della povertà.

I nuovi contratti di lavoro, come recitano i dati ISTAT, impongono la precarietà, la mobilità interna ed esterna e la flessibilità dell’orario lavorativo. Il capitale va imponendo la contrattazione di secondo livello, con lo scopo di avere un’arma di ricatto in più rispetto al mondo del lavoro. La giornata lavorativa, anche se in maniera strisciante e non sempre dichiarata, continua ad allungarsi. Il capitale non fa sconti, basta guardare con un po’ più attenzione dentro quegli stessi dati che vengono sbandierati come una conquista sociale. Dati ISTAT che, se letti correttamente, ci fanno comprendere come stiano effettivamente le cose e quanto il capitale, con i governi di centro destra o di centro sinistra e con l’avallo dei Sindacati, stia preparando per il futuro del proletariato italiano, futuro che, drammaticamente, è già cominciato da un bel pezzo, che continua a percorrere indisturbato la sua china, sino a quando non rientrerà in campo la ripresa della lotta di classe.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.