America Latina ad una svolta?

Il “cortile di casa”, el patio trasero non esiste più. Così titolava il manifesto qualche tempo fa (13-09-2008), commentando le prese di posizione di molti governi latinoamericani* a sostegno del presidente boliviano Evo Morales, che aveva appena espulso dal paese l'ambasciatore USA, subito imitato da Chavez. Così credono - o almeno ardentemente sperano - ampi settori del riformismo e dell'antiamericanismo di principio, più o meno sinistrorso, ma sempre borghese.

Anche da parte nostra, più volte abbiamo sottolineato come il clima politico nel Cono Sud del continente americano sia indubbiamente cambiato rispetto a una decina di anni fa, ma da qui a decretare perentoriamente la fine del plurisecolare dominio dell'imperialismo statunitense in quella parte del mondo ce ne corre. Eccesso di prudenza? Forse. Fatto sta che molte sono le variabili in gioco e prima di rilasciare il certificato di morte alla “dottrina Monroe” (1) occorre osservarle nella loro reciproca interazione. Tanto più oggi, allorché anche in America Latina ha fatto prepotentemente irruzione lo stesso “convitato di pietra” che si è insediato negli altri paesi. È un convitato scomodo, anzi, scomodissimo, a cui nessuno aveva mandato le partecipazioni, ma che puntualmente si è presentato, nonostante governi, banchieri, uomini d'affari di ogni risma si fossero sgolati per rassicurare i cittadini sulla sua scomparsa dalla scena della moderna civiltà digitale. Invece no, la crisi finanziaria - manifestazioni di problemi ben più profondi dell'economia reale da cui è originata - ha, com'è ovvio che sia, scavalcato le rive del Rio Grande e, forzatamente, andrà a scompigliare i piani, o i sogni, di chi aveva ipotizzato un altro copione per il tormentato e spesso tragico film della storia latinoamericana.

Anche l'elezione di Obama potrebbe costituire un'incognita, benché riesca difficile pensare che lo Zio Sam lasci andare per la loro strada “los niños” un po' indisciplinati della parte sud del continente. Se la nuova amministrazione intreccerà rapporti diversi con i governi latino americani, più centrati, cioè, sulla diplomazia che sulla tradizionale, pesante ingerenza, ciò sarà dovuto a precisi calcoli di opportunità e non ad alte idealità, buone giusto per far parlare i gazzettieri.

Non è forse stato Robert Kennedy, a cui Obama viene accostato, a sostenere integralmente il tentativo di invasione anti-castrista nella Baia dei Porci (Cuba, 1961)? Forse che il presidente Carter - oggi considerato un pericoloso liberal - ha ritirato l'appoggio alla giunta militare argentina, una delle più feroci dittature borghesi del XX secolo? Che ci risulti, non ha mosso una foglia - potendolo fare! - per frenare il massacro di un'intera generazione di ribelli. Di sicuro, se oggi in America Latina spuntano governi “di sinistra” come zanzare all'imbrunire, è anche, ma non da ultimo, perché gli Stati Uniti, incalzati da altre urgenze, dalla fine degli anni novanta del secolo scorso sono stati costretti a trascurare il “cortile” per concentrarsi su altri teatri strategici (il Medio Oriente, l'Asia caspica, ecc.) nel tentativo di salvaguardare la supremazia del dollaro e il controllo della rendita petrolifera. Però, per una di quelle ironie non infrequenti nella storia, proprio il crescente prezzo del petrolio (nonché di altre materie prime agricole e minerali), pompato dalla speculazione spesso di origine yankee, ha permesso al continente latinoamericano - meglio, a una parte - di tentare un'altra strada, quella sognata nei primi del Novecento dai teorici della lotta all'imperialismo “gringo”. Beninteso, non di antimperialismo si trattava, ma più semplicemente di nazionalismo volto a togliersi dalle carni gli artigli del capitale nordamericano, secondo una prospettiva riformistico-borghese.

Naturalmente, lo Zio Sam ha forse curato un po' meno il suo “patio”, ma non ha mai smesso un istante di pompare ricchezza dal subcontinente, anche attraverso le istituzioni finanziarie internazionali che controlla, anzi, ha continuato a spremerlo fino a lasciarlo, alle soglie del XXI secolo, per così dire tramortito. Dopo la terapia del cosiddetto neoliberismo, il paziente latino si è trovato sull'orlo della fossa: intere economie disarticolate, masse enormi di proletariato - ma anche di piccola borghesia - ridotte in miseria se non alla fame proprio per aver assunto quella medicina velenosa come il curaro. Basti pensare che, secondo alcune stime, il debito estero dell'America Latina è cresciuto di venticinque volte tra il 1970 e il 2006, mentre il montante del prestito del 1970 è stato rimborsato novantuno volte (2). Ci vuol poca immaginazione per capire a chi sia stato - e a chi venga tuttora - presentato il conto di queste cifre astronomiche...

I limiti del “neodesarollismo”

È giusto a partire dal tracollo argentino del 2001-2002 che comincia il “giro”, la svolta politica: in Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Bolivia, Paraguay, per non dire ovviamente del Venezuela di Chavez, al potere dal 1999, le “sinistre” sono salite al governo con lo scopo di mettere almeno un freno agli eccessi del neoliberismo. Al di là delle differenze anche profonde tra i singoli paesi e le varie “sinistre”, chi più chi meno le diverse compagini governative sono però unite da un duplice obiettivo: rendersi - come si diceva - autonomi dall'imperialismo statunitense, dare vita a una politica economica “neodesarollista” (neosviluppista) che permetta un nuovo sviluppo economico, fondato non sulla speculazione finanziaria e sulla predazione sfrenata delle risorse naturali, ma sua una base economico-produttiva solida. Ora, relativamente a quest'ultimo aspetto, i problemi sono tanti e nessuno di poco conto.

Prima di tutto, giusto per cominciare con una banalità, l'economia latinoamericana non è separata né separabile da quella mondiale e i margini per una politica economica relativamente autonoma, da sempre ridotti, si sono ulteriormente ristretti anche a causa dell'accresciuta “trasnazionalizzazione” delle economie latinoamericane, cioè della massiccia penetrazione del capitale straniero durante gli ultimi decenni. Capitali, fino agli anni ottanta, in gran parte nordamericani, poi, negli anni novanta, anche europei (soprattutto spagnoli) che hanno acquisito, non di rado per due soldi, pezzi importanti degli apparati produttivi locali:

“Più del 50% delle maggiori imprese latinoamericane e il 62% delle loro vendite sono sotto controllo straniero;” (3)

la “transnazionalizzazione” è particolarmente accentuata in Argentina, dove i capitali esteri - in questo caso e non secondariamente, anche brasiliani - controllano i tre quarti delle grandi imprese e gestiscono un terzo del valore aggiunto di tutta l'economia.

In secondo luogo - ma non per importanza - siamo in una fase storica esattamente opposta a quella che vide il “desarollo” di alcuni paesi sudamericani, come, per esempio, l'Argentina, quando, dal dopoguerra fino agli anni sessanta, ogni anno attirava dall'Italia migliaia di emigranti. Allora veniva esorto abbastanza plusvalore da permettere, oltre che un certo riformismo - non dappertutto, sia chiaro, e sempre condito con la repressione, se era il caso - anche di potenziare le infrastrutture a supporto dello sviluppo industriale. Ma è almeno dalla fine degli anni settanta che tutta l'America Latina ha subito un forte rallentamento economico:

“I tassi di formazione lorda di capitale hanno presentato una persistente caduta fin dagli anni '70, sono scesi di circa il 25% durante la metà di quel decennio fino a circa il 20% durante gli anni '90 e sono tornati a scendere ancora di più all'inizio di questo decennio.” (4)

In sintesi, mentre tra il 1950 e il 1980 i sette paesi principali crebbero a un ritmo medio annuale del 5,7%, tra il 1980 e il 2004 la crescita si è ridotta al 2,2%, cioè di meno della metà, ma per Brasile, Messico e Argentina di due terzi o quasi (5). Il cosiddetto neoliberismo, inaugurato nel sangue dai colpi di stato in Cile e in Argentina, è stata la risposta che la borghesia ha dato al rallentamento dell'economia o, detto in altri termini, alla caduta del saggio del profitto. In mezzo alle macerie che il fanatismo dei “Chicago boys” ha lasciato dietro di sé, c'è la struttura industriale di molti paesi latinoamericani, tra cui l'Argentina. Qui, ma non solo qui, la piccola e media industria sono state in gran parte spazzate via oltre che da oggettivi problemi strutturali di competitività, da un valore della moneta troppo alto e da non meno bassi tassi di interesse. Questo ha stimolato l'afflusso di capitali esteri che, assieme ai settori più forti della borghesia locale, hanno favorito, da un lato, la concentrazione, l'acquisizione di nuove tecnologie anche nel comparto agro-pecuario, la conseguente espulsione dal processo produttivo di molta forza-lavoro, tanto nell'industria che nell'agricoltura. Dall'altro però, però, secondo uno schema universalmente diffuso, la fetta più grossa di quella massa di denaro ha preso la via dell'investimento nei servizi, nel turismo, nella speculazione immobiliare e finanziaria, cioè dell'accaparramento del plusvalore primario e non della sua produzione, per non dire della predazione pura e semplice. Un esempio emblematico, tra i tanti, è quello dell'acqua, il cosiddetto oro blu. In questo affare colossale si sono buttati a pesce multinazionali straniere (quelle europee in prima fila) acquisendo con poca spesa i diritti di sfruttamento di quella indispensabile risorsa, per rivenderla poi a prezzi esorbitanti alle già misere popolazioni locali. In qualche caso, incalzati da proteste e rivolte, i banditi multinazionali e i politicanti del posto loro complici hanno fatto qualche passo indietro, ma resta il fatto che l'acqua è, e ancor di più sarà, un elemento strategico di primaria importanza (6) a cui difficilmente il capitale vorrà rinunciare. Resta solo da vedere chi vincerà la partita, se il capitale transnazionale o il capitale “nazionale”, cioè, per meglio dire, nazionalista per interessi di bottega (senza per questo escludere un “onorevole” accordo tra le parti). Certamente, ci vorrà ben altro che il super agente segreto James Bond in versione no-global per garantire a tutti acqua buona e in quantità sufficiente (7); oltre alle popolazioni genericamente intese, si dovrà muovere il proletariato e, in particolare, la classe operaia, che però, al momento e al di là delle eccezioni, è, come ovunque, classe per il capitale. Infatti, è prima di tutto su di lei e sul mondo del lavoro dipendente che si regge tanto la forte “recuperaciòn” (ripresa) argentina, quanto quella più contenuta del Brasile e, in generale, le speranze borghesi in un “nuovo corso” dell'economia latinoamericana.

Super sfruttamento e svalorizzazione della forza-lavoro: le basi del “nuovo corso”

Se c'è un risultato duraturo che gli anni del neoliberismo hanno consegnato alla borghesia del continente, quello è la forte svalorizzazione della forza-lavoro ossia l'impoverimento, quando non l'affamamento, del proletariato. È dagli anni settanta che, conformemente all'andamento mondiale, la quota del salario sul PIL è costantemente caduta, con un'accelerazione della discesa tra gli anni novanta e i primi di questo decennio: le perdite si collocano, mediamente, tra il 10 e il 15% del PIL (8). Anche adesso - cioè, fino allo scoppio della bolla finanziaria - a fatica e parzialmente i salari hanno ripreso a crescere, superando solo in pochi ben delimitati casi il livello precedente agli anni 2001-2002. Tra l'altro, occorre sottolineare che questo discorso vale, in linea di massima, per i paesi più industrializzati, con tutti i distinguo del caso e, comunque, anche il modesto incremento salariale che ha o avrebbe interessato alcuni settori “di nicchia” della classe operaia, pare essersi interrotto (ammesso appunto che sia mai avvenuto, perché, per quanto riguarda l'Argentina, c'è chi lo nega).

Uno dei fattori che spiega la marcata svalorizzazione della forza-lavoro è l'espansione del lavoro nero/informale e della precarietà, dove regna incontrastato - secondo un modello ben noto anche da questa parte dell'Atlantico - un livello salariale prossimo - ma anche oltre - alla fame (9). Il tutto condito con orari medi di lavoro più lunghi di quelli dei paesi “centrali” o, per meglio dire, di alcuni paesi europei (10), perché è noto che negli Stati Uniti, da qualche decennio a questa parte, l'orario di lavoro tende ad avvicinarsi a quello asiatico o... latinoamericano.

Dunque, ricapitolando, immissione - benché limitata - di nuove tecnologie che hanno incrementato la produttività (e i disoccupati/sottoccupati), intensificazione dello sfruttamento (più plusvalore relativo ma anche assoluto), salari bassi e bassa conflittualità sindacale (fattore non secondario), il tutto condito col sostegno di vario genere, da parte dei governi, al capitale industriale: è questa la formula che ha permesso una “recuperaciòn” almeno parziale dell'industria di alcuni paesi latinoamericani. Una ripresa legata per lo più all'esportazione, visto che il mercato interno non dà grandi segni di vitalità, e per forza di cose! Se uno dei presupposti irrinunciabili della ripresa è la svalorizzazione della forza-lavoro, non sono certo i suoi magri salari che possono costituire un mercato di sbocco alle merci che lesi stessa produce. Non rimane allora che l'esportazione. Il problema, però, è che, in tempi di crisi, tutti i padroni si comportano alla stessa maniera, con il che si torna al punto di partenza, ma in condizioni peggiorate, tant'è vero che una parte considerevole dei pur ingenti profitti non viene reinvestita - come si è detto più su - nella produzione, ma prende la strada della speculazione finanziaria, che, a sua volta, spinge per un altro giro di vite nello sfruttamento (11).

Infine, per spiegare il relativo dinamismo economico nonché la svolta politica dell'America Latina, non si deve dimenticare un elemento molto importante, cioè il notevole rialzo del prezzo di numerose materie prime sia agricole che minerarie, tra cui, è scontato, gli idrocarburi. Numerosi paesi del continente, pur cercando di ricostituire o rafforzare un sistema industriale e infrastrutturale terremotato dal neoliberismo, hanno puntato molto sulle materie prime, tanto che, per esempio, nel caso dell'Argentina si parla di “primarizzazione” della sua struttura economico-industriale, intendendo con questa espressione l'accento messo sullo sviluppo del settore agricolo e degli idrocarburi. Le entrate derivanti dalla vendita di queste merci hanno avuto un ruolo tutt'altro che secondario nel rimborso anticipato dei debiti contratti col FMI, nella politica “neodesarollista” - compresa la costituzione del Banco del Sud - e nella politica riformista, cioè nei primi incerti passi verso la tanto agognata autonomia dal gigante yankee e, magari, di un futuro polo imperialista latinoamericano. Ipotesi ancora molta “ardita”, ma perché tarpare le ali all'immaginazione?

Riformismo e aspirazioni imperialiste

Più volte abbiamo sottolineato (vedi, per esempio, BC 9/08) che la presa di distanza dall'imperialismo nordamericano non è né sarà una passeggiata, non solo per lo strapotere militare degli USA, per gli stretti rapporti economici che percorrono le due aree continentali dall'Alaska al Capo Horn, ma anche per le rivalità regionali e per i progetti egemonici dei paesi più forti, in primo luogo del Brasile. Per esempio, la nazionalizzazione degli idrocarburi fatta da Morales in Bolivia e da Correa in Ecuador, o la rinegoziazione dei diritti di estrazione goduti dalle compagnie petrolifere estere, a vantaggio del paese produttore (12) non ha danneggiato solo le compagnie occidentali, ma anche la Petrobras, l’impresa petrolifera brasiliana a controllo statale, che ha forti interessi in quei due paesi. Nella provincia boliviana di Santa Cruz, capifila della rivolta autonomista di settembre contro il “socialista” Morales, il capitale brasiliano ha fatto grossi investimenti, e non solo nel gas, ma anche nella soia e in altri prodotti agricoli; si tratta dunque di interessi che verrebbero in qualche modo toccati dalla timida riforma agraria progettata dal presidente boliviano.

Lo stesso vale per il faraonico “Hugoducto” pensato da Chavez, che dovrebbe portare il gas dal Venezuela settentrionale fino all’Argentina, attraversando tutta l’America meridionale, Brasile compreso. Ora, benché le esportazioni brasiliani in Venezuela siano notevolmente aumentate, Brasilia guarda tutt’altro che favorevolmente l’iniziativa, perché, a parte i costi enormi - di per sé una grossa ipoteca sulla sua effettiva realizzazione - vorrebbe dire rafforzare i progetti egemonici del cosiddetto “socialismo bolivariano” di Chavez. Ma, lungi dal sottovalutare la portata di queste tensioni, è un dato di fatto che parecchi governi si muovano nel senso di una maggiore integrazione. Nel dicembre dello scorso anno è nato il Banco del Sud - a cui hanno aderito praticamente tutti i maggiori paesi sudamericani - costituito con una parte dei proventi della vendita delle materie prime, che dovrebbe agire da supporto coordinato alle economie dei paesi membri. Le diverse opinioni sul suo ruolo primario, cioè di puro sostegno all’assetto economico così com’è, ai capitali privati, o anche di intervento correttivo dell’economia in senso riformistico-sociale, riflette grosso modo lo schieramento dei paesi riuniti nel Mercosur e nell’ALBA. Nel primo, si trovano Brasile, Argentina, Cile, ecc., nella seconda i paesi più “radicali” (Venezuela, Bolivia, Cuba). Se qualcuno avesse mai avuto dubbi in merito alla direzione verso la quale penderà la bilancia, la tormenta economico-finanziaria dovrebbe fugarli come nebbia al sole...

Quest’anno, il Banco del Sud è stato poi affiancato dall’UNASUR, organo deputato al collegamento-consultazione tra i paesi membri - tra cui la Colombia, fedelissima di Washington - sia dal punto di vista politico che, per ora blandamente, militare. La prima “uscita di rilievo dell’UNASUR è stata la dichiarazione di sostegno alla Bolivia contro i disordini di fine estate e la loro palese regia dell’ambasciatore statunitense, poi, appunto, espulso. A questa inedita presa di posizione ne sono seguite altre, per esempio, da parte dell'Argentina e, soprattutto, del Brasile contro le manovre della quarta flotta USA al largo delle coste brasiliane, proprio là dove è stato scoperto - pare - uno dei più ricchi giacimenti di petrolio del pianeta. Gli antiamericanisti di principio che si credono - oggettivamente a torto - antimperialisti non si montino troppo la testa: non è la risposta dei popoli del “Sud del mondo” al neoliberismo a stelle e strisce, ma l'atto di una borghesia che sta tentando di smetterla di fare lo zerbino alla borghesia yankee, con la quale, però, ha da poco siglato importanti accordi commerciali. Il riferimento, va da sé, è agli accordi Bush-Lula sulla produzione e vendita di bioetanolo dello scorso anno. Neanche il “socialista” Chavez, che ha rilanciato la sfida a Washington ospitando in territorio venezuelano bombardieri e navi da guerra russe, è esente dal “vizio” di bazzicare il mercato statunitense, visto che lì vende la maggior parte del proprio petrolio. Tuttavia, è giusto nella prospettiva di diversificare i mercati di sbocco e di trovare una sponda politico-diplomatica all'«altro mondo possibile» latinoamericano, che molti governi hanno intensificato i contatti con la Cina, la Russia, l'Iran e in parte con l'Europa stessa: sono numerosi gli accordi politico-commerciali con questi paesi, dalle armi agli idrocarburi alle infrastrutture.

Ultimo, in ordine di tempo,nella serie dei gesti di rottura con la tutela statunitense, è l'accordo stipulato in settembre tra Brasile e Argentina, con il quale i due paesi si impegnano ad usare come mezzo di pagamento negli scambi commerciali le rispettive monete. Non sarà la fine del mondo, ma neppure una misura di poco conto, se si considera che da sempre il commercio estero tra i paesi latinoamericani è regolato in dollari: è un'altra incrinatura che si aggiunge al signoraggio della moneta nordamericana.

Detto ciò, l'architettura di questa strategia è messa a rischio dal forte calo dei prezzi delle materie prime e in particolare degli idrocarburi; così come rischia di togliere ossigeno alla politica di moderato riformismo sociale su cui si fonda il consenso tanto degli “estremisti” alla Chavez, Morales, Correa, quanto dei moderati alla Lula. Le “misiones bolivariane”, il “reddito dignità” o la “fame zero” (13). che solo in minima parte hanno alleviato la disperata miseria di enormi masse proletarie e sottoproletarie, si reggono, in fondo, sugli introiti realizzati - o preventivati - con la vendita di gas, petrolio e, a seguire, di altre materie prime. Ma ora che il loro prezzo è precipitato, dove sarà scovato il denaro per tenere in piedi gli interventi sociali? È un problema non da poco, visto che né in Venezuela né in altri paesi - eccezion fatta, forse, per il Brasile; ma i dati sono contrastanti - la ripartizione della ricchezza non ha smesso di andare a favore della fascia più ricca di popolazione e, in ogni caso, non è stata significativamente recuperata la distanza tra i pochi ricchi da una parte e i poveri o impoveriti dai disastrosi anni novanta, dall'altra (14). Naturalmente, la responsabilità primaria di questa situazione è da imputarsi alla stagnazione, per non dire regressione, relativa e assoluta, dei salari, alla quale ha dato un contributo fondamentale - c'è bisogno di dirlo? - il sindacato.

In Argentina, le lotte “selvagge” di massa sono a poco a poco rientrate e il sindacato maggioritario, la CGT, ha notevolmente ridotto - come si diceva più indietro - la conflittualità sindacale, per non disturbare la ripresa dell'economia. Lo stesso vale per il Brasile, dove, tra l'altro, il governo dell'ex sindacalista Lula ha messo a punto una nuova legge sul sindacato non molto diversa, nella sostanza, da quella annunciata da Sacconi, senza suscitare le proteste delle centrali sindacali, anzi, sostanzialmente con la loro approvazione (15). Se non conoscessimo la natura del sindacato, verrebbe da stupirsi (come fanno i trotskisti) e da chiedersi come mai le leggi anti-lavoratori siano confezionate proprio da ex sindacalisti... Ma anche il “socialista” Chavez, che fa andare in visibilio non poche sette trotskyste, affette da congenita miopia, si guarda bene dal lasciare la briglia sciolta sul collo agli operai: per dirne una, all'indomani del tentato golpe contro il suo governo (2002), fece velocemente rientrare le esperienze di autogestione e dei comitati di sciopero sorti un po' ovunque a difesa del suo stesso regime. Questo è uno dei tanti episodi che certificano - a nostro parere in maniera lampante - come il “socialismo del XXI secolo” non sia altro che una variante nemmeno tanto originale di capitalismo: un po' di capitalismo di stato, un po' di capitalismo “classico”, una spruzzata di riformismo (se il prezzo del petrolio e di altre “commodities” rimane alto) con l'aggiunta dell'immancabile nazionalismo anti-yankee.

Oggi è impossibile sapere se, quando e fino a che punto la crisi potrà interrompere l'inoculazione del veleno nazional-riformista nelle coscienze degli sfruttati. Certo è che, da sola, la crisi è una condizione necessaria ma non sufficiente e la storia della lotta di classe in America Latina è qui a confermarlo fino alla noia. La classe operaia, gli sfruttati possono persino assaltare il tempio dell'inganno borghese - il parlamento - come nell'Argentina del 2001, possono occupare le fabbriche, infliggere sonore lezioni alle forze dell'ordine borghese, ma se non si pongono l'obiettivo del superamento del sistema capitalistico, inevitabilmente saranno riassorbiti, con le buone o con le cattive, dai meccanismi del sistema, pronti di nuovo per fare da base a un'ennesima “recuperaciòn”. Da soli, però, non possono politicamente farcela, non possono giungere alla piena consapevolezza teorico-politica di quel passo; solo il partito, espressione della permanente, oggettiva contrapposizione di classe , e, nella sua esistenza concreta, degli elementi più sensibili, combattivi, coscienti della classe stessa, può guidare il percorso politico verso una società radicalmente diversa, e migliore.

Celso Beltrami

* Benché in questo articolo si parli di America Latina in generale, l'attenzione è stata rivolta particolarmente alla parte meridionale del continente Dunque, uno tra i paesi più importanti di quella regione del mondo, il Messico, è stato momentaneamente escluso dall'analisi, dato che, per molti aspetti, è un caso a parte. Ci riserviamo, quindi, di tornare sull'argomento, di primaria importanza nella strategia dell'imperialismo statunitense e, va da sé, della lotta di classe nel continente pan-americano.

(1) La “dottrina Monroe”, cioè “L'America agli americani”, attribuita al presidente statunitense James Monroe, conteneva un perentorio invito alle potenze europee a non intromettersi negli affari del continente americano. Spacciata come gesto anticolonialista, in realtà è la prima manifestazione dell'imperialismo USA, che si riservava in tal modo la parte a sud del Rio Grande come esclusivo territorio di caccia... imperialista.

(2) Eric Toussaint, La deuda, el Banco del Sur y la construcciòn del socialismo del siglo XXI [Il debito, il Banco del Sud e la costruzione del socialismo del XXI secolo], Viento Sur, numero 97/mayo 2008.

(3) Claudio Katz, El giro de la economìa argentina [La svolta dell'economia argentina], 2007, in lahaine.org

(4) Francisco Luiz Corsi, L'America Latina tra globalizzazione, neoliberismo e stagnazione economica, Proteo, n. 1, 2007.

(5) Gérard Dumenil - Dominique Lévy, El imperialismo en la era neoliberal: respiro y crisis de la Argentina [L'imperialismo nell'era neoliberista: ripresa e crisi dell'Argentina], in jourdan.ens.fr Secondo questo studio, la crescita del PIL brasiliano passa da una media annua del 7,6% tra il 1950-1980, a una del 2,2% nel quarto di secolo successivo; il Messico dal 6,5% al 2,5% e l'Argentina dal 3,3% all'1,3%.

(6) Vedi, per esempio, il caso dell'Aquifero Guarani, un'enorme falda sotterranea di acqua dolce, estesa per un milione e duecentomila chilometri quadrati tra Brasile, Uruguay, Paraguay e Argentina (rispettivamente: 840.000, 58.500, 58.500, 255.000 chilometri quadrati; lo spessore medio della falda è di 250 metri, per un totale di 45.000 chilometri cubi d'acqua): daaeararaquara.com.br

(7) Vedi il film Quantum of Solace, di Marc Forster, 2008.

(8) José Guadalupe Gandarilla Salgado, América Latina en la conformaciòn de la economìa-mundo capitalista [L'America Latina nel sistema dell'economia-mondo capitalista], UNAM, Mexico, 2006, pag. 116.

(9) Claudio Katz, cit.: "Esiste un terribile abisso tra il reddito medio dei precari (391 pesos) e quello dei formalizzati [in sintesi: il lavoro cosiddetto tipico, a tempo indeterminato, ndr] (1072 pesos). Nel primo segmento si trova il 44% della forza-lavoro, il 60% degli occupati che non raggiunge il salario ritenuto minimo rispetto alla costo della vita e il 30% di quelli che vivono nell'indigenza". A questo, occorre aggiungere che la disoccupazione complessiva, sempre in Argentina, è calata, rispetto al 2003 - all'indomani del tracollo - dal 17,8% al 10,4% (fine 2006), ma la sottoccupazione ha raggiunto una soglia più alta, l'11,9%.

(10) Secondo Claudio Katz, in Coyuntura, modelo y distribuciòn. Las tendencias de la economìa argentina [Congiuntura, modello e distribuzione. Le tendenze dell'economia argentina], Correspondencia de prensa, 2006, l'orario medio di lavoro annuo in Argentina è di 2100 ore, quello di Messico e Cile di 1900, e in Brasile di 1800. Questi orari “manchesteriani” spiegano l'aumento degli infortuni sul lavoro del 20% circa nel 2003 e 2004 (non disponiamo dei dati relativi agli anni successivi).

(11) Pierre Salama, Argentine, Brésil, Mexique: libéralisation et nouvelles vulnérabilités [Argentina, Brasile, Messico: liberalizzazione e nuove vulnerabilità], 2006, in leconomiepolitique.fr

(12) Se prima le compagnie petrolifere intascavano poco più dell'80% dei profitti e il resto andava al paese, ora Morales e Correa pretendono esattamente l'opposto: vedi il manifesto del 30 settembre 2008.

(13) Le “misiones” sono interventi sociali, in particolare di carattere sanitario attuati con il ricorso massiccio a medici cubani, nei quartieri più poveri delle città venezuelane; la “fame zero” brasiliana così come il “reddito dignità” boliviano sono integrazioni mensili al reddito dei.. senza reddito o quasi. Per esempio, in Bolivia l'assegno complessivo è di 2400 bolivianos (240 euro) all'anno, suddiviso in dodici tranches di 200 bolivianos al mese (18 euro) per quelli che non hanno nessun entrata; per quelli invece che “godono” di un reddito, minimo, l'assegno del governo è di 150 bolivianos (13,5 euro) al mese: vedi leblogfinance.com del 29 febbraio 2008. Questi programmi sociali hanno ridotto solo in minima parte la povertà anche se per le statistiche ufficiali - incluse quelle degli organismi internazionali - si tratta di un grande progresso: in effetti, basta superare la soglia di reddito di uno o due dollari al giorno, per essere esclusi dal numero dei poverissimi. È ovvio, però che in moltissimi casi non si va oltre la soglia della sopravvivenza, il che, per chi muore di fame, non è certamente poco, ma non è nemmeno risolutivo del problema di avere una vita che non si riduca solo alla sopravvivenza.

(14) Secondo Katz in El giro..., cit., il salario in Argentina è ancora di un 20% inferiore al livello del 2001, prima del terremoto economico-sociale e se il PIL continuasse a crescere dell'8% all'anno, come nell'ultimo periodo (2006-2007) nel 2001 il reddito medio pro capite sarebbe di 11.000 dollari, inferiore a quello della Grecia, la metà di quello dell'Austria. Per tenere quel livello di crescita - crisi esclusa - occorrerebbero ingenti investimenti in capitale costante, per rinnovare radicalmente il logorato apparato produttivo e infrastrutturale, ma, come è stato detto più su, si è lontani da questa eventualità. Altri dati confermano che se la povertà è in parte diminuita - sempre rispetto ai periodi più duri dell'inizio di questa decade - la distanza tra ricchi e poveri è aumentata, nell'arco di un ventennio: «In Argentina la distanza tra il 10 per cento più ricco della popolazione e il 10 per cento più povero era di 12 volte nel 1986, poco dopo la fine della dittatura peggiore. Nel decennio liberista degli anni novanta, schizzò a una media tra 22 e 26 volte, per arrivare a 58 volte al picco della crisi tra il 2001 e il 2002. Negli ultimi cinque anni questo divario si è poco a poco ridotto, per stabilizzarsi attorno alle 36 volte, cioè tre volte l'eredità lasciata dai militari genocidi», in Raul Zibechi, Come potrebbero non essere euforici?, 15 ottobre 2008, carta.org

(15) Elaine Tavares, Brésil. Une “contre-réforme syndicale”... appliquée par les directions syndicales! [Brasile. Una “controriforma sindacale”... applicata dalle direzioni sindacali!], 25 marzo 2008, in alencontre.org

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.