La crisi finanziaria e il corso del petrolio

... ridisegnano lo scacchiere imperialistico internazionale

La devastante crisi che ad ottobre si è abbattuta sul sistema finanziario americano e, per a legge transitiva del mercato, sui sistemi creditizi di tutto il mondo ha fatto mediaticamente passare in secondo piano la crisi caucasica. In realtà i due fenomeni sono legati da più fili il cui unico nodo è rappresentativo di un processo capitalistico mondiale in profonda crisi che ac­celera tutti i processi di esplosione delle bolle speculative, di ricaduta sulla economia reale, di attacco alla forza lavoro in termini di aumento dello sfruttamento, di intensificazione della pro­duttività e della precarietà dei posti di lavoro. Crisi come questa hanno anche l'effetto di favo­rire la concentrazione sia del capitale speculati­vo sia di quello produttivo, di esasperare la concorrenza tra i vari segmenti del capitalismo internazionale, di velocizzare la corsa sul con­trollo delle materie prime strategiche, petrolio innanzitutto, di produrre crisi sociali, tensioni tra stati e guerre guerreggiate direttamente o per procura, là dove sono in gioco gli interessi vitali del capitale stesso.

Un simile scenario non può che ridisegnare le carte geopolitiche dell'intero pianeta, andando a mettere in discussione i vecchi equilibri imperialistici per creare un processo di ricomposizione imperialistico internazionale i cui interpreti, almeno per quanto riguarda la nostra analisi, vedono la Russia e gli Usa affron­tarsi senza esclusione di colpi. Proponendo una semplificata sintesi potremmo dire che la crisi, le cui origini sono ben lontane dai recenti episodi, e il controllo/possesso dei due fondamentali fattori energetici, gas e petrolio, sono alla base di questo processo di ricomposizione imperialistico, di cui la vicenda caucasica fa parte a pieno titolo.

Gli analisti borghesi, quegli stessi che all'inizio degli anni ottanta hanno criminalizzato l'inter­vento dello Stato nell'economia come il peggio­re dei mali per inneggiare alle nuova regola capitalistica del mercato sovrano, oggi pregano in ginocchio che le istituzioni statali intervenga­no al più presto per sanare lo sfascio del neoliberismo. Sempre loro auspicano una nuo­va Bretton Wood che ridisegni a tavolino le sfere di influenza, un ridimensionato ruolo del dolla­ro sui mercati monetari mondiali, un livellamento verso il basso delle tensioni internazionali, gra­zie, si fa per dire, a un diminuito potere econo­mico, finanziario e militare degli Stati Uniti. La loro speranza è che, nello spazio di un paio di anni, risanata la finanza grazie a nuove e più efficaci normative di controllo, ridato fiato al­l'economia reale con tutte le necessarie intrusio­ni dello Stato nei due settori, tutto riprenda come prima. Lor signori dimenticano due cose fonda­mentali. La prima è che le insanabili contraddizioni del sistema economico capitalistico esplo­dono con regolarità cronometrica, siano esse amministrate da un capitalismo di Stato, da un capitalismo pubblico, semipubblico o privato. La seconda è che i rapporti di forza tra i vari settori dello schieramento imperialistico interna­zionale non si ricompongono attorno ad un tavolo negoziale, non si elidono a colpi di buona volontà tra le controparti, ma, esaurite le prassi negoziali di prammatica, è la forza a decidere chi avrà il ruolo egemone di potenza imperiale in condominio con chi avrà fisica­mente la forza di uscire dalla devastazione della crisi. I soliti analisti fingono di non vedere l'evol­versi dei fenomeni, pensano alle guerre come a un cattivo pensiero che deve essere scacciato, esorcizzato, facendo torto alla realtà e allo loro stessa prassi politica che li costringe, come il capitale che li mantiene, di essere i più conse­guenti guerrafondai tutte le volte che l'imperati­vo imperialistico lo impone.

I recenti episodi caucasici ne sono l'evidente dimostrazione. Le cronache politiche, già ben allineate sui due fronti dello scontro, hanno rappresentato l'episodio come un fatto di viola­zione del diritto internazionale che, a seconda dei campi di appartenenza, è stato di responsa­bilità georgiana o russa, in un contesto di aspi­razioni nazionalistiche dell'Ossezia del Sud e dell'Abkhazia. Nulla di più falso. Le istanze nazionalistiche, ammesso e non concesso che siano il prodotto di una volontà autonoma delle borghesie locali di percorre sentieri politici au­tonomi, sono completamente risucchiate all'in­terno di un quadro imperialistico che le plasma, le fa muovere, le sostiene o le reprime. Nel caso specifico della crisi caucasica, prima della rea­zione del governo di Tblisi contro i secessionismi dell'Ossezia e dell'Abkhazia, a metà luglio, Condoleezza Rice era a colloquio con il presi­dente georgiano Saakashvili non certo per di­scutere della banale osservazione che non esi­stono più le stagioni di una volta, né che la repentina risposta militare russa sia dovuta ad un veloce riflesso condizionato e non a una lunga preparazione dell'evento bellico, orga­nizzato per tempo e studiato minuziosamente sin nei minimi particolari. In gioco non c'è mai stata solo la preoccupazione della Georgia di salvaguardare la propria identità nazionale contro il secessionismo osseto e abkhazo, né quella russa di sostenere soltanto i loro aneliti di indipendenza. Lì si è giocata una partita più complessa tra Georgia e Russia, meglio sareb­be dire tra Russia e Usa, sulla pelle di quelle popolazioni che, loro malgrado, sono state il mezzo, lo strumento del perseguimento di inte­ressi imperialistici passati ben al di sopra delle loro teste.

La prima parte della partita è rappresentata dalla cosiddetta guerra dei tubi. Le tensioni sul controllo delle aree produttrici di materie prime energetiche, sulle prospettive di costruzione de­gli oleodotti e di gasdotti, sui percorsi che devo­no seguire, sono cosa vecchia, risalgono ai primi anni novanta, subito dopo l'implosione della Unione Sovietica.

La scomparsa dell'imperialismo sovietico, lo sganciamento delle Repubbliche caucasiche e, soprattutto, di quelle centro-asiatiche ricche di gas e petrolio, avevano creato ampi spazi di intervento da parte dell'imperialismo america­no che ha fatto di tutto, guerre comprese, per assurgere a potenza energetica dominante nel­l'area.

Oggi le cose sono cambiate. La Russia di Putin ha progressivamente ripreso quota sino a ripro­porsi come potenza di quell'area che la vecchia Urss era stata costretta ad abbandonare. La ragione di una simile ascesa imperialistica si chiama rendita petrolifera e gassosa.

Dal 2004 in avanti, da quando cioè il prezzo delle materie prime energetiche è mediamente aumentato più del 100%, Gazprom, Lukoil e Yukos sono diventati i colossi che hanno imposto il diritto di dominare tutta l'area asiatica delle ex province sovietiche, Kazakistan e Turkmenistan in testa. Al 2008, prima del collasso creditizio mondiale, la Russia vendeva 1'80% delle sue esportazioni in gas e petrolio, il resto in armi convenzionali a di teatro, sia verso le repubbli­che centro-asiatiche, sia verso l'Iran, la Corea del nord e la Siria.

Le statistiche danno Mosca come il primo espor­tatore mondiale di materie prime energetiche e l'accoppiata Putin-Medvedev ha solo l'intenzio­ne di potenziare ulteriormente questo ruolo se­gnando il territorio che, direttamente o indiret­tamente, è funzionale al perseguimento del­l'obiettivo.

Il territorio di confronto-scontro tra le due poten­ze è proprio quello che si colloca tra il Mar Caspio e il Mar Nero. Che va dalle coste caspiche dell'Azerbaigian e Daghestan a quelle del Mar Nero della Georgia e dell' Abkhazia. Tutta l'intera zona caucasica, a sud- est dell'unico territorio russo che si affaccia sul mar Nero con lo strategico porto di Novorossisk, è interessata dalla percorrenza di gasdotti e oleodotti già presenti o in via di costruzione. In Gorgia passa l'unico oleodotto sotto controllo americano il BTC (Baku-Tblisi-Ceyan), che dall'Azerbaigian porta il petrolio in Turchia.

Secondo le aspettative di Washington l'oleodot- to avrebbe dovuto convogliare il flusso petrolife­ro dal Kazakistan verso il Mediterraneo, e quin­di verso l'Europa, ma la pressione russa verso il presidente kazaco Nazarbayef ne ha decretato il fallimento. Da qui la necessità per gli Usa di dar vita al più presto all'alternativa del gasdotto Nabucco, che dovrebbe percorrere una via più meridionale, passando per la Turchia e arrivan­do nel cuore dell'Europa nei pressi di Vienna, sempre che le risorse energetiche turkmene pren­dano quella strada.

Nei piani di Putin e del suo delfino Medvedev c'è l'annessione (allineamento politico e dipenden­za economica) di tutti quei paesi che facevano parte dell'Unione sovietica, in particolare quelli centro-asiatici per la loro valenza strategica ed economica. Il progetto ha anche una scadenza che è quella del 2020.

All'interno di questa strategia si colloca l'altro obiettivo, quello di costituire con l'Iran, il Turkmenistan, il Qatar, il Kazakistan e la Libia una organizzazione di paesi produttori e fornitori di gas che assurga a centro monopolistico energetico come l'Opec per il petrolio, e all'in­terno della quale la Russia giochi un ruolo di dirigenza. Il che le consentirebbe di aumentare il suo peso imperialistico a livello internazionale attraverso la possibilità di contribuire a determi­nare il prezzo del gas, di ricattare altri paesi sul piano delle forniture e di legare a sé tutti quei paesi attraverso i quali passano i gasdotti.

La crisi finanziaria mondiale non ha risparmia­to il colosso russo e ha prodotto un buco anche nel bilancio di Gazprom.

Secondo quanto riportato dal quotidiano russo Vedomosti il gigante del gas aveva previsto di guadagnare due miliardi di dollari dall'offerta pubblica iniziale (Ipo) di Gazprom bank, che era prevista nel corso del 2008. Ma l'Ipo è stata rinviata a data da destinarsi. Adesso il proble­ma principale per Gazprom è reperire capitali. La capitalizzazione di Gazprom è scesa la scorsa settimana al di sotto di 100 miliardi di dollari: il colosso del gas costa la bellezza di 3 volte in meno rispetto al massimo raggiunto nel maggio di quest'anno.

All'epoca il suo valore di mercato era pari a oltre 360 miliardi di dollari e Gazprom era la terza compagnia al mondo per capitalizzazione, dopo General Electric e China Mobile. Il suo valore in base alle quotazioni arrivava il 16 ottobre a 95,9 miliardi di dollari. Tuttavia il numero uno del gruppo, Aleksei Miller, prevede che nel corso dei prossimi 7-10 anni Gazprom arriverà ad essere la più grande società al mondo, un gruppo da 1.000 miliardi di dollari, se tutte le strategie energetiche dovessero giun­gere a buon fine. Inoltre il Cremlino ha l'ambi­zione di accompagnare la supremazia energetica con quella monetaria.

Con una legge del maggio 2006 Putin ha impo­sto agli operatori economici statali e privati di vendere in rubli sia il gas che il petrolio e l'oro, con il chiaro intento di combattere anche una battaglia monetaria contro il dollaro, usufruendo della sua debolezza e del declino economico americano.

In questi ultimi anni Mosca è riuscita a creare una alleanza strumentale con la Cina proprio nella zona di maggior interesse per il controllo e l'approvvigionamento energetico.

Nell'agosto del 2006 ha organizzato una serie di esercitazioni militari con lo scopo di chiarire agli Usa che quello non loro un suo territorio. Ha stabilito importanti contratti con il Turkmenistan e il Kazakistan, ha dato vita all'OTS (Organiz­zazione del Trattato di Sicurezza collettiva) con Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghi­zistan,Tagikistan e Uzbekistan.

Con quattro dei cinque paesi centro asiatici ha firmato un ulteriore patto militare di mutuo soc­corso e, soprattutto, ha premuto perché le basi militari americane, posizionate in zona dopo l'11 settembre venissero smantellate. Ha conso­lidato in chiave anti americana un contratto di rifornimento con la Cina di gas siberiano con relativa costruzione del gasdotto in joint venture con le imprese di Pechino.

Ha sottoscritto con l'Uzbekistan un accordo per la costruzione di un gasdotto che dovrebbe approvvigionare l'Europa con il corredo di forniture nucleari per migliorare i rapporti po­litici ed economici.

Nell'ambizioso progetto energetico est-ovest, cioè dal Mar Caspio al Mar Nero, l'area caucasica non poteva che rivestire un'importan­za strategica enorme.

Per l'asse Georgia-Usa il problema fondamen­tale era quello di mantenere le posizioni non consentendo le secessioni delle due regioni separatiste, per la Russia l'obiettivo principale era quello di indebolire la Georgia favorendo la secessione di Abkhazia e dell'Ossezia del Sud, inserendo la prima nella contiguità geogra­fica del suo territorio, penetrando con la secon­da profondamente nel cuore territoriale della Georgia.

Sullo sfondo il noto scenario della guerra dei tubi che, nel caso della crisi caucasica, ha assun­to i connotati di una guerra guerreggiata, senza altre aggettivazioni di sorta. Se mutuassimo dal linguaggio calcistico l'esito di questa crisi, sa­remmo sul tre a zero per la Russia. In un sol colpo il governo di Mosca ha di fatto esteso la sua influenza sulle due repubbliche secessioniste, ha ottenuto l'importante permesso di costruire al loro interno importanti basi militari e, non ulti­mo, ha messo in un angolo la Georgia e il suo alleato americano, rintuzzandone le ambizioni imperialistiche nell'area e proponendo le pro­prie con tanto di uso della forza. In un domani, forse non tanto lontano, la Crimea, l'Ucraina e la Moldavia entreranno nel mirino delle ambizioni imperialistiche di Mosca a completare lo scac­chiere strategico petrolifero sulla costruzione e sicurezza geografica dei gasdotti.

La seconda parte della partita è giocata su quell'area che va dai confini occidentali della Russia al centro-Europa, in quello spazio geopolitico che un tempo vedeva la supremazia dell'imperialismo sovietico e che, dopo la sua implosione, è stato oggetto della penetrazione di quello americano.

Nel corso della sua ultima amministrazione il governo Bush è riuscito ad attrarre nell'orbita americana le tre Repubbliche baltiche, (Estonia, Lettonia e Lituania), l'Ucraina, la Polonia e la Cekia.

Sulle ultime due si è concretizzato un accordo per uno scudo antimissile americano nel cuore dell'Europa centrale con lo scopo di tenere sotto minaccia missilistica i tentativi di riappropriazione territoriale del Kremlino, di estendere la Nato sino ai confini della Russia, relegandola al ruolo di mini-potenza regionale, di creare, dall'Ucraina - Moldavia alla Polonia, uno sbarramento politico che dal Baltico arriva alle sponde del Mar Nero, rendendo impossibi­le le vie di transito e commercializzazione del gas e petrolio russi dalla Siberia e centro-Asia verso l'Europa.

Il 20 agosto è stato firmato l'accordo con il governo di Varsavia - da Condoleezza Rice e dal ministro degli esteri polacco Radoslaw Sikorski - e di Praga che prevedono l'installazio­ne, entro il 2012, di dieci missili in Polonia e un radar di avvistamento nella Repubblica ceca, con in più la fornitura di una batteria di missili antiaerei Patriot e l'impegno, da parte america­na, di altri aiuti militari.

La risposta russa non si è fatta attendere. La punizione alla Georgia non ha lasciato dubbi sulle intenzioni di Mosca di non mollare di un centimetro. Ha mostrato i muscoli e ha ribadito che la zona non è di pertinenza americana e che ai missili puntati verso il suo territorio risponde­rà con altrettanta determinazione dando il via ad uno schieramento missilistico di difesa.

Con la crisi caucasica Mosca ha incamerato l'appoggio scontato dei suoi alleati, dalla Cina alla Corea del Nord, dalla Siria al Venezuela di Chavez. Questi due ultimi paesi si sono inoltre dichiarati disponibili ad ospitare basi militari russe. Assad (Siria) ha ribadito il concetto che al suo governo farebbe comodo avere un siste­ma missilistico russo Iskander in grado di conte­nere lo scudo spaziale americano. Anche Chavez si è dichiarato pronto a dare accoglienza alle navi da guerra russe nei suoi porti del Mar delle Antille e ha aumentato le forniture militari da Mosca. Inoltre il presidente della Bielorussia, Lukashenko, ha plaudito all'intervento militare russo nel Caucaso, definendolo calmo, saggio e bello.

La diplomazia del Kremlino ha inoltre lavorato ai fianchi (milioni di rubli) il governo ucraino staccando il primo ministro Yulia Tymoscenko dal Presidente arancione Hyushenko. Il proget­to, dichiarato a suo tempo da Putin e ribadito dal suo delfino Medvedev, è quello di trasforma­re entro il 2020 la Federazione russa in Unione russa.

La differenza sta nel fatto che l'Unione dovrebbe essere comprensiva di buona parte delle ex Repubbliche sovietiche caucasiche e di alcune ad occidente dei suoi confini europei, in modo da rompere l'accerchiamento della Nato e tam­ponare le intrusioni americane in quella che era stata l'area di esclusivo dominio della Unione sovietica.

L'Europa si è letteralmente divisa in due. Dopo le comuni denunce di rito: eccessivo uso della forza, ritiro immediato e senza condizioni delle truppe, quando si è trattato di comminare alla Russia sanzioni economiche l'unanimità si è rotta.

Da una parte le tre repubbliche baltiche, la Polonia e la Cekia che premevano per una punizione esemplare, dall'altra Francia, Germania e la stessa Italia dell'amico Berlusconi hanno fatto marcia indietro ridimensionando le responsabilità russe e ricollocandosi in quello schieramento che teneva più agli approvvigio­namenti gassiferi che alle tradizionali alleanze atlantiche, senza per questo mettere in discussio­ne la loro area politica di appartenenza.

Questa volta, se dovessimo trarre una prima conclusione delle vicende della crisi georgiana sul versante europeo, dovremmo mutuare l'espres­sione non più da un linguaggio calcistico ma tennistico. Saremmo in presenza di un secco sei a zero a favore dell'imperialismo russo con quello americano attestato sul terreno di una, per il momento, sterile difesa.

Ma i giochi non sono finiti. La devastante crisi finanziaria, con le sue conseguenze a cascata sull'economia reale, partita dagli Usa, ma che ha poi investito l'intero mondo capitalistico, non farà altro che accelerare tutti i fattori che nutrono la vita degli imperialismi, moltiplicando i pro­cessi di concentrazione, esasperando la concor­renza tra i loro interessi di ordine economico, finanziario, di controllo e sfruttamento delle materia prime energetiche e, non ultimo, pro­durrà un ulteriore attacco al proletariato interna­zionale. Un caso su tutti, quello americano.

Questa crisi si è prodotta nel settore del credito mettendo in sofferenza banche, istituti assicura­tivi e Fondi d'investimento, non ultimi anche molti Fondi pensionistici. Lo Stato è dovuto inter­venire pesantemente per limitare i danni nel settore finanziario e per dare ossigeno a una già agonizzante economia.

Il costo degli interventi è stato impressionante. Sino ad oggi (ottobre 2008) il new deal finan­ziario è costato la bellezza di 2.850 miliardi di dollari, e non è finita. 29 sono stati spesi per il salvataggio della Bear Stearns. 200 per la na­zionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac. 85 per il salvataggio della più grande Società di assicurazioni che è la Aig. 500 sono andati a sostegno dei vari Fondi, mentre 1.200 miliardi di dollari sono stati immessi dalla Fed. sul mer­cato del credito per ridare quel minimo di liquidità in grado di far funzionare in qualche modo il sistema. Il piano di salvataggio propo­sto da Paulson prevede, per il momento, un ulteriore esborso di 850 miliardi di $ per un totale di 2.850 miliardi pari a più del 20% del prodotto interno lordo e gonfiando il debito pubblico che arriverebbe così a superare i 12 mila miliardi di $. Sempre la Fed ha ulterior­mente diminuito il costo del danaro di mezzo punto portandolo all'1%. Il tutto ovviamente a favore del capitale mentre le conseguenze che a cascata ricadono sul proletariato americano non trovano nessun piano operativo, se non quello dell'aumento della disoccupazione e del­l'aumento della povertà. In grave crisi si trovano i colossi dell'economia americana:

La General Motors è sull'orlo del fallimento tanto da ipotizzare una fusione con la Crysler. Un'azio­ne della Gm, che fino a poco tempo fa era valutata 43 dollari, oggi ne vale 5. Il mercato dell'auto Usa ha perso in un solo anno 4 milioni

di vendite. La Gm è passata dall'avere il 50% del mercato automobilistico interno all'attuale 15%. II suo settore finanziario, la Gmac, ha perso oltre il 20% della capitalizzazione. La General Electrics è nelle medesime condizioni. Secondo gli ulti­missimi dati negli Usa, da agosto ad oggi, si sono chiuse migliaia di fabbriche. I tre colossi dell'industria hanno già inviato decine di mi­gliaia di lettere di licenziamento.

Da giugno alla fine di settembre si sono persi 850 mila posti di lavoro e siamo solo agli inizi. La crisi nel settore immobiliare ha messo sul lastrico decine di migliaia di famiglie che sono andate a ingrossare le fila di quei 50 milioni di proletari, sottoproletari e piccolo borghesi, sem­pre più spinti verso il basso dalle devastanti conseguenze della crisi, che vivono sotto la soglia della povertà, senza sussidi e senza assi­stenza sanitaria.

La crisi accentuerà la gravità del tenore di vita di tutti i proletari, persino di quelli che hanno la fortuna di avere ancora un posto di lavoro. Secondo la Food Bank è in atto un incremento del 15% dei prezzi per i beni alimentari di prima necessità. I carburanti sono aumentati del 37%, gli affitti del 18, i trasporti del 14. Il 45% delle famiglie hanno già difficoltà a fare la spesa e, come da noi, non arrivano alla fine del mese. Il 20% dei bambini mangia alle mense gratuite, mentre per gli adulti si arriva al 25%. Per un lavoratore medio nella città di New York, non di un piccolo paesino sperduto della Pennsylvania, il salario medio non arriva ai 10 mila euro l'anno.

Mentre si parla di capitale fittizio, di salvatag­gio degli Istituti finanziari e di Piani per rimette­re in marcia la macchina del profitto, si tace sull'aumento della disoccupazione, sull'aumen­to della povertà, sui processi di ristrutturazione, sulla necessità di aumentare lo sfruttamento e di diminuire i salari.

Sempre rimanendo negli Usa, il tasso di disoc­cupazione è salito in pochi mesi al 6,1%, dato errato per difetto, la disoccupazione reale supe­ra il 10%, ma in incremento rispetto al 5,3% dello scorso giugno. Il tasso di risparmio delle fami­glie è a zero mentre il loro indebitamento è arrivato a 16 mila miliardi di dollari.

Quello delle imprese ha raggiunto la colossale cifra di 19 mila miliardi di dollari, che sommati al debito pubblico di 12 mila miliardi dopo il piano Paulson, al deficit nella bilancia dei pa­gamenti con l'estero e al debito federale, fanno arrivare il debito complessivo a 55 mila miliardi di dollari, quattro volte il Pil degli Usa.

Su questa già devastata situazione economica e sociale si stanno abbattendo i contraccolpi della crisi.

I suoi effetti non colpiscono soltanto il percorso di decadenza degli Usa ma anche la Russia. Il tracollo del prezzo del greggio, che in quattro mesi è passato da 147 $ a barile agli attuali 63 (fine ottobre), mette in seria difficoltà le fonti della rendita petrolifera russa e impone nuove strategie al suo porsi in termini imperialistici sullo scenario mondiale.

La Borsa di Mosca ha chiuso più volte le transa­zioni finanziarie per eccesso di ribasso. Ha perso il 60% della sua capitalizzazione. Anche Gasprom ha avuto serie difficoltà per quanto riguarda la sua componente finanziaria. Non per questo il processo di ricomposizione imperialistica, con il suo fardello di corsa al riarmo, di guerre e affamamento delle stratificazioni più deboli della società, e che stava assumendo una fisionomia precisa, perlomeno per quanto riguarda lo scenario centro asiatico e centro europeo, è destinato a rallentare o a scomparire. Anzi sotto la spinta delle difficoltà economiche e finanziarie si mol­tiplicheranno gli episodi di tensione internazio­nale, di scontri indiretti, di pressioni sulle istanze nazionalistiche sino a crearle artatamente o a reprimerle brutalmente a seconda delle necessi­tà e dei campi imperialistici di appartenenza. Il capitalismo durante le crisi non può che met­tere in atto una serie di misure finalizzate al superamento della stessa e al contenimento delle sue contraddizioni.

Misure che consistono nel rimettere in moto la macchina dell'estorsione del plusvalore all'inse­gna dell'uso della forza sugli scenari internazio­nale per l'accaparramento delle materie prime strategiche, e dell'aumento dello sfruttamento sui mercati del lavoro che controlla.

Lo fa con determinazione e con ferocia, contro tutto e contro tutti. La posta in palio sono la sua sopravvivenza come forma produttiva e la perpetuazione di quel rapporto con la forza lavoro che gli consente di succhiare l'unica linfa di cui si nutre, il plusvalore. In tempi normali, nello stereotipo che le borghesie propongono, lo sfruttamento e l'uso della forza attraverso episodi bellici appaiono per essere, il primo come evento naturale, connaturato al sistema economico stesso, i secondi come un'eccezione alla norma che prevedrebbe, con tanta ipocri­sia, una pacifica collaborazione tra i vari seg­menti del capitalismo internazionale. In tempi di crisi lo stereotipo cade, il re è nudo, e si palesa la vera natura dell'imperialismo, quella del parassitismo, del supersfruttamento, degli attac­chi al salario diretto e indiretto dei lavoratori, del progressivo smantella mento di quello che rimane dello Stato sociale.

Le crisi, come quella che è in atto, più sono gravi e più spingono i segmenti dell'imperialismo internazionale ad accelerare tutte le sue nefaste caratteristiche, non ultima quella della guerra come estrema ratio nel tentativo di dare soluzio­ne alle proprie contraddizioni.

Per ottenere questi obiettivi l'imperialismo deve coinvolgere il proletariato all'interno di questi meccanismi. Prima come oggetto economico da sfruttare con maggiore intensità, poi come carne da macello che va a macellare altri proletari, da inviare nei teatri di guerra dove sono in gioco i suoi interessi vitali.

Prima è stato l'Afganistan, poi l'Iraq, oggi la Georgia, domani potrebbero essere l'Iran, l'Ucraina, la Moldavia o la Transnistria, a se­conda della loro posizione geografica rispetto

ai flussi petroliferi, commerciali e finanziari. Ciò che manca è una risposta, benché minima, del proletariato coinvolto in questi episodi.

Al momento i proletariati delle aree interessate sono sotto il controllo della varie borghesie che, a loro volta, si muovono all'interno di un deter­minato campo imperialistico.

Perché un simile, deprimente quadro possa ini­ziare ad incrinarsi, occorre che la talpa della crisi scavi ancora più in profondità, che riprenda con vigore la lotta di classe e che ci sia la presenza organizzata di un punto di riferimento politico, il partito di classe, che sappia convo­gliare tutto questo fuori dagli steccati borghesi, contro il devastante muoversi dell'imperialismo, contro il fardello di morte e di disperazione delle guerre, contro il capitalismo che tutto questo genera ed esaspera nelle sue ricorrenti crisi.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.