Iraq: il cosiddetto ritiro

Con dieci giorni d'anticipo è cominciato il ritiro delle truppe americane dall'Iraq. Ritiro e anticipo erano stati ampiamente programmati. Il primo come da annuncio della vecchia amministrazione Bush, poi ripreso da quella di Obama in campagna elettorale; il secondo quale condizione di sorpresa nei confronti delle opposizioni sunnite e sciite, affinché non accompagnassero lo spostamento in Kuwait delle truppe americane con atti di sabotaggio.

Tutto come promesso e previsto? Sì, ma con qualche nota in più che val la pena prendere in considerazione. Innanzitutto la nuova strategia prevede, sì, il ritiro del grosso delle truppe, ma non completamente. Resteranno sul campo 50 mila uomini, ufficialmente per preparare l'esercito iracheno e le sue forze di sicurezza, in realtà anche, se non soprattutto, per mantenere nelle località a maggiore interesse strategico come nella zona di Bassora, a nord ai confini con il Kurdistan “autonomo” ed a est ai confini con l'Iran, basi militari da cui partire per qualsiasi evenienza bellica sia interna, sia relativa all'area circostante, sia per controllare i maggiori gangli petroliferi del paese.

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Entrambi, sia Bush che Obama, sapevano e sanno che, nonostante le faraoniche spese militari (oltre due mila miliardi di dollari), nonostante i morti tra i soldati Usa (oltre quattromila) e ben sette anni e mezzo di occupazione, da lì ne sarebbero usciti solo con le ossa rotte. Gli stessi specialisti militari di Washington, con una azzeccata sintesi, avevano sostenuto che la guerra in Iraq o si sarebbe persa o non la si sarebbe vinta. Nemmeno la tanto decantata linea Petraeaus, che prevedeva il tentativo di inserimento a livello governativo di forze sunnite, ha dato qualche frutto, nonostante le false enfasi su presunti successi che, in realtà, non sono mai arrivati. Dal 2006-2007, inizio della nuova strategia Petraeus, gli attentati si sono moltiplicati, non è passato giorno che non ci fossero morti civili a decine, e il rieletto, con frodi e brogli, presidente Al Maliki, non è riuscito a mettere in piedi nemmeno l'ombra di un governo in grado di operare, le istituzioni non funzionano, e persino l'esercito che doveva essere ricostruito dai tecnici americani, sembra la caricatura di se stesso. Corruzione a tutti i livelli, una economia allo sbando e un buon ottanta percento di disoccupazione fanno da cornice alla tragedia irachena.

A quel punto il piano B, quello del ritiro, è sembrato l'unica via d'uscita dal tunnel iracheno, ma alle condizioni prima esposte, a cui l'imperialismo americano non può rinunciare, anche, se non soprattutto, per non lasciare il campo completamente libero agli altri imperialismi che operano nell'area di riferimento e per concentrare le residue energie sull'Afghanistan.

Recentemente, dopo le forzate dimissioni di Mc Christall, responsabile militare della campagna afgana, che si era permesso di criticare l'inefficienza dei quadri politici preposti alla questione afgana e la conseguente inconsistenza della presenza militare americana, il suo sostituto Petraeus ha pubblicamente dichiarato che la guerra in Afghanistan si potrebbe anche vincere e che la data dell'inizio del ritiro americano (luglio 2011) non va interpretata in senso restrittivo. La risposta di Obama è stata perentoria, sebbene espressa non direttamente ma per voce dei suoi collaboratori: “nessuna negoziazione sulla data prefissata”, anche se gli ultimi avvenimenti sulla “guerra dei tubi” in Centro Asia stanno aprendo nuovi scenari che interessano direttamente l'imperialismo americano e le sue residue speranze di poter continuare a giocare un ruolo nell'area, non fosse altro per rendere la vita difficili ai più diretti concorrenti.

Fallito il vecchio progetto Unocal di trasportare il petrolio kazako attraverso il Turkmenistan, l'Afghanistan, sino alle coste dell'Oceano indiano in Pakistan. Realizzato il Btc (oleodotto che da Baku arriva a Ceyan in Turchia via Tiblisi) che però ha problemi di approvvigionamento. Incassato il rifiuto da parte dei produttori centro asiatici di collaborare al progetto Nabucco. Visti gli accordi di Russia e Cina, in parte già realizzati, per i rifornimenti petroliferi e gassosi dal Kazakistan e Turkmenistan. Si aggiunge il contratto firmato il 16/3/2010 tra Iran-Pakistan-India per la costruzione di una pipeline (IPI) che dovrebbe entrare in funzione entro il 2015. La risposta di Washington non poteva mancare e il suo contro-progetto prevederebbe la costruzione di un'altra pipeline che dal Turkmenistan, via Afghanistan e Pakistan, arriverebbe in India. A corroborare il progetto ci sarebbero degli accordi tra il governo turkmeno e due compagnie petrolifere americane, la Chevron e la Conoco Philips. Se poi si aggiunge, sempre che sia confermata la notizia, che in Afghanistan si sarebbe trovato un giacimento petrolifero stimato in un miliardo e ottocento milioni di barili, c'è da ritenere che la linea Petraeus potrebbe alla lunga avere qualche chance di successo, ridando quindi interesse economico e centralità strategica al martoriato paese degli uomini delle montagne. Anche se, e la cosa non è di secondaria importanza, l'Afghanistan e il Pakistan resterebbero comunque due paesi dalla scarsa affidabilità sociale e politica per i necessari investimenti e per la futura integrità e sicurezza degli impianti, come già era successo nel recente passato, progetto Unocal fallito insegna.

Che prevalga la strategia di Petraeus, che si affermi la linea tracciata da Obama, anche se il presidente ci ha abituati a cambiamenti repentini e a retromarce più o meno consistenti nel suo impianto programmatico, non è, al momento, dato a sapersi. Di solito prevale la linea che è più funzionale agli interessi imperialistici in gioco, benché gli errori di valutazione e di operatività siano sempre dietro l'angolo, e l'amministrazione Bush ne è stato un esempio di grande evidenza.

A complicare le cose c'è stata l'iniziativa russa a fine mese di agosto. Medvedev ha convocato un summit con i presidenti dell'Afghanistan e del Pakistan, ufficialmente per organizzare la lotta al terrorismo, nei fatti per tamponare sul nascere i tentativi americani di rientrare, in qualche modo, nel business energetico. Lo scontro imperialistico del “big game” non si è concluso e i maggiori attori continuano a tessere le loro trame.

Intanto, i proletari iracheni e afgani continuano a morire nella perversa spirale dei maneggi imperialistici che non avrà mai fine, se non riparte una autonoma lotta di classe sotto la guida di un'avanguardia rivoluzionaria.

FD

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.