Approfondimenti su cause, sviluppi e “rimedi” della crisi capitalistica

A tre anni dall’esplosione della crisi che sta travagliando il capitalismo globale, circola ancora la leggenda sulle cause che l’hanno prodotta, attribuite ad un sistema finanziario sregolato e terreno di caccia per gente avida di denaro, senza scrupoli né… morale. Eccessi di un mondo finanziario “bricconcello”, che avrebbero intaccato solo marginalmente, più per motivi soggettivi che oggettivi, una economia reale sempre aggiustabile con spinte verso una maggiore produttività e ribassi ad un eccessivo costo del lavoro. Additato alla pubblica opinione il colpevole ufficiale, basterebbe superare questo “disordine finanziario” per evitare qualsiasi ulteriore peggioramento della situazione.

Le vere cause della crisi

I sostenitori, diretti o indiretti del capitalismo, fingono di ignorare quelle contraddizioni di fondo del sistema che periodicamente originano una miscela esplosiva. In particolare, per il costante sviluppo dell’accumulazione capitalistica, l’esigenza di mantenere alta la domanda di merci in contrasto, fin dai primi anni Ottanta, con un’altra necessità: abbassare il costo del lavoro e quindi i salari, incidendo cioè su quello che chiamiamo capitale variabile a fronte di un continuo aumento del capitale costante (macchine e tecnologia).

Sono le inevitabili conseguenze della valorizzazione del capitale, sua ragione di esistenza, la quale impone all’attuale modo di produzione l’estorsione - alla forza-lavoro impiegata nei processi produttivi - di quote crescenti di pluslavoro accumulabili come plusvalore, e quindi trasformando questo plusvalore in denaro attraverso la vendita delle merci prodotte e incorporanti tale plusvalore.

E’ evidente la contraddizione - presente nel sistema capitalistico - fra le condizioni di produzione del plusvalore (estorto con lo sfruttamento della forza-lavoro) e le possibilità della sua realizzazione mediante la vendita delle merci prodotte. Con lo sviluppo delle forze produttive si ottiene una poderosa espansione della scala di produzione mondiale e, relativamente, della massa del plusvalore. Ma qui ritorna ad imporsi il vincolante imperativo della sua realizzazione sul mercato: dopo che sono aumentati gli investimenti di capitale in macchine ed avanzate tecnologie, diminuiti i costi del lavoro vivo e le “quantità” di lavoro (manodopera) impiegate, il maggior numero di merci prodotte va ad incontrarsi con una domanda sociale ristrettasi. I mercati si saturano e il plusvalore non è realizzabile poiché il “potere d’acquisto” delle masse proletarie (con un dilagante esercito di disoccupati e precari) è diminuito.

La sfera finanziaria

L’analisi degli “esperti” borghesi si blocca nella sfera finanziaria e nelle politiche “sbagliate” messe in atto. E’ inaccettabile anche il solo sospetto che, proprio nel movimento di questo modo di produzione e distribuzione, vada ricercata la vera causa dei collassi periodicamente ricorrenti. Finché si rimane all’interno del sistema stesso, tuttalpiù facendo balenare il mito di interventi e politiche circoscritte al settore finanziario e della circolazione, le “soluzioni” diventano palliativi destinati al fallimento, se non peggiorativi del male. Si consideri anche - lo vedremo più avanti - la tesi di chi, analizzando la crisi in termini di sottoconsumismo, invoca una “riforma” della distribuzione del reddito in favore del mondo del lavoro. (1)

I crediti al consumo

Man mano che si evidenziava la tendenza ad un aumento della capacità industriale inutilizzata, e gli investimenti nei settori industriali diminuivano per mancanza di un “soddisfacente” profitto, lo scarto tra domanda effettiva (potere d’acquisto dei salari) e potenziale produttivo ha spinto il settore privato dei consumi a sostenersi grazie a un crescente debito; ma più i consumatori si indebitavano e più i loro redditi disponibili diminuivano! Al ceto medio e allo stesso proletariato (purché disposto a consumare…) si concedevano “generosamente” crediti la cui restituzione sarebbe stata chiaramente impossibile. I prestiti si diffondevano nella speranza di una ripresa dei tassi di crescita della produzione materiale e di facili guadagni attraverso interessi finanziari. Si scommetteva sulla capacità futura di recuperare il capitale anticipato, inventando strumenti a dir poco “perversi” seguendo l’illusione di “fare denaro a mezzo di denaro”.

Plusvalore e accumulazione

Con l’uso di quella particolare merce che è la forza-lavoro (venduta dal proletario e acquistata dal capitalista per un salario) il modo di produzione capitalistico si appropria di un plusprodotto nella forma di plusvalore. Realizzandolo sul mercato, si avrà un nuovo ciclo di produzione (riproduzione allargata) reinvestendo una parte dei precedenti profitti.

L’accumulazione del capitale procede così, adoperando plusvalore come capitale ossia ritrasformando plusvalore in capitale; considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva.

Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti 1977, pag. 635 e 637

Questa riproduzione allargata è essenziale per la vita del capitalismo: la stessa concorrenza sui mercati

impone ad ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva.

pag. 648

In conclusione,

insieme con l’accumulazione del capitale si sviluppa quindi il modo di produzione specificamente capitalistico, e, insieme al modo specificamente capitalistico, l’accumulazione del capitale.

pag. 684

La produzione deve essere continuamente allargata, senza limiti, mirando ad uno sviluppo delle forze produttive che però portano le contraddizioni presenti ed operanti nel capitalismo a violente esplosioni e devastanti crisi.

La costante ricerca di autovalorizzazione del capitale è fondata su un impoverimento - nei confronti con le ricchezze prodotte e/o potenzialmente realizzabili - dei produttori (classe operaia) ai quali il capitale cerca di estorcere quanto più plusvalore possibile da trasformare in denaro, aumentando quindi la disponibilità di capitale da reinvestire in un nuovo ciclo produttivo che lo valorizzi.

Produzione e realizzazione del plusvalore

Per le contraddizioni che ostacolano le condizioni di produzione del plusvalore (secondo il grado di sfruttamento storicamente raggiunto) e quelle di una sua realizzazione, diamo la parola a Marx:

Il plusvalore è prodotto non appena il pluslavoro che è possibile estorcere si trova oggettivato nelle merci. Ma con questa produzione del plusvalore si chiude solo il primo atto del processo di valorizzazione del capitale, la produzione immediata (…). Comincia ora il secondo atto di quel processo. La massa complessiva delle merci, il prodotto complessivo, tanto la parte che rappresenta il capitale costante e variabile, come quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduta. Qualora questa vendita non abbia luogo, o avvenga solo in parte oppure a prezzi inferiori a quelli di produzione, lo sfruttamento dell’operaio, che esiste in ogni caso, non si tramuta in un profitto per il capitalista (…). Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo, ma anche da quello della sostanza.

Marx, Il Capitale, Libro III, vol. 1, 1977, pag. 296

Il saggio di profitto

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Punto fermo: le cause della crisi, le sue condizioni generali, “devono essere spiegate dalle condizioni generali della produzione capitalistica” (Marx). Fra le contraddizioni che si agitano all’interno del modo di produzione capitalistico e che stravolgono i suoi cicli di accumulazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto è certamente la più importante. Sintetizziamo quanto più volte detto: lo sviluppo capitalistico, da tutti invocato, richiede un investimento sempre maggiore in quello che Marx chiama “capitale costante” (macchinari, materie prime, strutture) e quindi una diminuzione relativa del “capitale variabile” (salari, diretti e indiretti). Poiché solo la forza-lavoro genera plusvalore, si determina una diminuzione tendenziale del saggio di profitto (rapporto fra tutto il capitale investito e il plusvalore ottenuto). Il tasso di sfruttamento aumenta enormemente ma si applica su un minor numero di lavoratori produttivi.

Con l’espansione della produzione ci si aspetta un aumento della massa dei prodotti che renda possibile, pur diminuendo il guadagno su ogni singola unità prodotta, un aumento complessivo del profitto. Nello stesso tempo, però, si accresce la concorrenza fra aziende e mercati, e poiché la “domanda solvibile” scarseggia il risultato è quello di un blocco dell’accumulazione del capitale, della sua riproduzione allargata. Il sistema entra in crisi. E la “domanda sociale” rallenta proprio perché per produrre plusvalore non solo si devono contenere i salari degli operai ma anche ridurre il loro numero in processi di produzione sempre più tecnologici e scientifici. Per molti economisti, e per la sinistra riformista, questa “depressione della domanda” viene ritenuta in ultima analisi la causa della crisi.

Interventi persino controproducenti

Nei limiti dell’aspetto finanziario della crisi, il costo dei “necessari” salvataggi verso banche e agenzie di credito prossime al fallimento con massicce iniezioni di crediti e capitali statali, è stato altissimo. Portando ad un livello di forte rischio i disavanzi di bilancio e i debiti pubblici dei principali Stati. I quasi 200mila mld di dollari inghiottiti dal sistema bancario, rappresentano un “diritto su un valore” pari addirittura a quattro volte il prodotto mondiale. Si parla in generale di “ciambelle” di salvataggio, lanciate a banche e agenzie di credito, gonfiate con cifre fra i 12 e i 15mila mld di dollari (capitale reale e garanzie del credito). La svalutazione degli asset (attività varie) del sistema bancario ammonterebbe a circa 2000 mld di dollari, mentre il valore delle imprese quotate nei mercati azionari mondiali, da una capitalizzazione complessiva di 63mila mld di dollari nell’ottobre 2007, è scesa un anno dopo a 31mila mld di dollari (2). “Ricchezze finanziarie” volatizzatesi.

Va pur detto che qualcuno ha cominciato a mormorare attorno ad azzardate politiche monetarie e sempre mirando ad espandere i consumi e quindi la produzione; il che porta al “dubbio” che forse la stessa “economia reale” non sia stata del tutto estranea a quanto è accaduto. Lo spunto di queste osservazioni ci viene in parte da quanto Padoa-Schioppa scrive (La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della finanza, il Mulino 2009) dove appunto ci si spinge ad indicare - almeno quali complici della crisi finanziaria - gli “squilibri” provocati ed esasperati fino a renderli insostenibili in un tipo di economia (quella Usa) fondata su un aumento dei consumi finanziati a debito. “La crisi - si legge - è economica prima che finanziaria; è la crisi di un modello di crescita, la bolla dei consumi a credito”. Con l’ammissione che i famosi mutui subprime non sarebbero stati altro che un “epifenomeno”, in presenza di una… latitanza della politica economica nazionale e internazionale. Più in là non va chi si guarda bene dal rilevare come proprio l’inderogabile imperativo dello sviluppo della riproduzione allargata e della accumulazione del capitale, sia la causa trainante di tutte le contraddizioni esplose o che si affacciano sulla scena internazionale, catastroficamente, ora che la globalizzazione ha visto gli stessi meccanismi del mercato (la famosa “mano invisibile”…) accentuare anziché contrastare il dilatarsi della crisi. (3)

Da ricordare le affermazioni dei big del G7, aprile 2008, indifferenti per gli allarmanti e progressivi deficit con l’estero della bilancia commerciale americana. Le teste d’uovo dell’establishment politico allora vicino a Bush guardavano ottimisticamente al “doppio deficit” (conti pubblici e conti con l’estero), fiduciosi in ulteriori aumenti degli scambi commerciali, e dei reciproci affari, nel quadro della nuova era internazionale.

Gli anni d’oro del neoliberismo

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Al crollo del “socialismo reale” seguiva il trionfo dell’ideologia neoliberista; il dominio capitalista si affermava imponendo al mondo le tavole della legge da Washington alzate al cielo. Gli “ordini” erano quelli di chiudere i bilanci in pareggio, eliminare i sussidi statali, abbassare le tasse ai ricchi, abbattere le barriere commerciali e lasciare al mercato la determinazione dei tassi di cambio; infine, aprire le porte agli investimenti esteri e privatizzare le imprese statali. In accordo con il Tesoro Usa, il Fmi imponeva le stesse regole quando la crisi finanziaria del 1997 scosse i governi e le economie dell’Asia orientale. Nel decennio successivo, si verificarono “empiricamente” le conseguenze: aumento delle disuguaglianze nel mondo; discesa dei salari e crescita dei debiti famigliari. (I lavoratori americani, in media, se e quando lavorano, percepiscono salari persino inferiori a quelli del 1979 (4). In Italia i salari hanno perso in 10 anni oltre 5000 euro di potere d’acquisto, comprendendo anche la mancata restituzione del fiscal drag - dati Cgil.). La criminalità di ogni specie è dilagata, sfasciate le assistenze e i controlli sociali, commercializzati i servizi anche essenziali, mercificati tutti gli aspetti della vita umana. Un solo obiettivo: sviluppo del Pil e dei profitti. E poiché questi diminuivano nel settore industriale, si esaltò l’aumento dei guadagni finanziari: nel 2008 lo stock totale mondiale di attività finanziarie, in maggior parte speculative, era pari a tre volte il Pil globale.

Modelli matematici al macero

Le dimostrazioni pratiche del fallimento dei modelli di crescita e della insostenibilità - nella cornice capitalistica - delle più disparate strategie economiche, sono storicamente verificabili. Quella oggi definita “crescita senza risparmio” è stata concretamente l’unica strada percorribile, dagli anni Settanta in poi, per un capitalismo nei cui processi di produzione, e nel ciclo di accumulazione, la caduta del saggio di profitto si è fatta sempre più incisiva mentre i contenimenti del costo del lavoro (salari e numero della manodopera impiegata) indebolivano quel folle consumismo, pubblicizzato come la solo ragione di vita, e attorno al quale - con la “terapia” del credito facile e del “credito sul credito” - girò vorticosamente la grande giostra finanziaria, fra l’euforia degli speculatori. Il delirio consumistico, diffuso nella società borghese, risponde a esigenze di vita o morte per il capitalismo, con la mercificazione e monetizzazione di tutto ciò che può essere trasformato in un artificioso “bisogno” umano, dopo che i “cittadini” sono diventati tossicodipendenti del mercato. Lo esige la produzione per la produzione di plusvalore, reclamando una crescita industriale e l’accumulazione del capitale a tali ritmi di sviluppo da mettere a repentaglio la sopravvivenza della specie, e del pianeta, nel giro di un secolo! Il Pil dovrebbe avere un tasso minimo di crescita superiore al 3% annuo, altrimenti, con gli aumenti demografici, si cade nella “stagnazione”.… Avanti, perciò, con quell’ideologico “fondamentalismo di mercato” al quale si aggrappano le ultime speranze degli apologeti del capitale, fautori dell’auto-equilibrio o del controllo statale dei mercati.

Riduzione o espansione monetaria?

Fra le ricette miracolose che dovrebbero far rinascere un cadavere - quale storicamente si presentano il capitale e la società borghese - si nota l’assurdità “teorica” di chi spera in effetti espansivi riducendo i disavanzi pubblici, in presenza di consumi interni ed esportazioni in forte calo, mentre oltre metà della economia capitalistica mondiale versa in un contesto apertamente deflattivo: un quadro a fosche tinte, dove qualcuno rispolvera persino la proposta di una espansione monetaria particolarmente aggressiva, una “espansione quantitativa”, come la chiamava l’economista Friedman.

Nelle analisi critiche sviluppate da Marx sulle questioni sopra esposte, viene rimarcata la funzione strumentale svolta dal credito affinché il capitale disponibile sia messo nella condizione di superare i suoi stessi limiti. Così si mira ad allargare il consumo attraverso una intensificazione del processo di riproduzione, condizionato però dalla crescita o meno del “reddito” (quello degli operai, come salario). Ma forzando di ciclo in ciclo quel processo, oltre i limiti del consumo (della domanda pagante), non solo si verifica una sovrapproduzione di merci, ma anche una “iperattività della sovraspeculazione nel commercio” (Marx, Il capitale, libro III, cap. 36). La saturazione dei mercati (potere d’acquisto dei salariati in calo, con forti aumenti di produttività e quindi esuberi di manodopera nei settori industriali) aumenta la massa di capitale-merce, invendibile, e di capitale fisso, inattivo.

Quando il credito si contrae, si fanno avanti le richieste, non più contenute, di pagamenti in contanti e comincia quella crisi che sembra appunto essere solo di natura creditizia e monetaria. Ed oggi al pari del passato emergono “transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui” (Marx). Si avvia una spirale deflattiva: il ciclo di trasformazione della merce in denaro si interrompe per la mancanza di denaro il quale muta così, da mezzo di circolazione del capitale, “in merce assoluta, in forma autonoma del valore”.

Ancora Marx:

In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore.

Avremo fenomeni di tesaurizzazione: il denaro non si investe nella produzione materiale se essa non assicura un “giusto” saggio di profitto. Diminuisce la produzione e con essa l’uso di lavoro vivo

allo scopo di ristabilire la giusta proporzione tra lavoro necessario (quello retribuito con il salario, per mantenere in vita il proletario - ndr) e pluslavoro (dal quale il capitalista estorce plusvalore, profitto per sé e interesse per le banche - ndr), su cui in ultima istanza tutto si fonda.

Grundrisse

Quanto al fenomeno della distruzione di capitale, nei periodi di crisi, Marx indica l’aspetto relativo al “valore di scambio del capitale esistente”. Specificando che

la caduta di capitale semplicemente fittizio, titoli di Stato, azioni, eccetera, comporta un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un’altra; ma se esso porta alla bancarotta dello Stato e della società per azioni,

allora si avrà una distruzione reale di capitale. Calano Pil, commercio internazionale, tasso di utilizzo degli impianti industriali; crescono disoccupazione, bassi consumi e fallimenti. E si sollecita l’intervento pubblico per ripianare i passivi di banche e capitalisti privati: una socializzazione delle perdite che si rinnova ad ogni crisi del capitale. A questo punto,

nessuna legislazione può eliminare la crisi. (…) L’intero sistema artificiale di espansione violenta del processo di riproduzione non può ovviamente essere risanato per il fatto che ora una Banca (per esempio la Banca d’Inghilterra) fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che manca loro e compra tutte le merci al loro vecchio valore nominale.

Gli abbagli delle politiche monetarie

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L’adozione di una politica monetaria espansiva non solo perderebbe efficacia quando non vi è “ripresa degli affari” nell’industria, ma potrebbe portare alla bancarotta anche lo Stato, quando il debito privato si trasforma in debito pubblico, in debito sovrano, senza rianimare l’economia.

La fantasia e i buoni propositi non servono a nulla. Gli operai non consumano che una parte di ciò che producono: essi

possono consumare un equivalente per il loro prodotto soltanto finché producono più di questo equivalente - il pluslavoro o il plusprodotto. Essi devono sempre essere sovrapproduttori, produrre al di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i limiti del loro bisogno.

Marx, Teorie sul plusvalore, II, cap. 17

Inoltre, il termine “sovrapproduzione di prodotti” non deve far credere che i bisogni più urgenti e immediati di gran parte della società siano soddisfatti. La verità è che

in base alla produzione capitalistica si sottoproduce continuamente: il limite della produzione è infatti il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. (…) La capacità di consumo dei lavoratori è limitata in parte dalle leggi del salario, in parte dal fatto che essi vengono impiegati soltanto fino a quando possono essere impiegati con profitto per la classe dei capitalisti. (... In effetti) il sistema capitalistico non conosce altra specie di consumo all’infuori del consumo pagante.

Per i “cavalieri del semplice e sano buon senso” - scrive Marx - si porrebbe rimedio al danno aumentando il salario degli operai. Ma “c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui in generale il salario sale e la classe operaia in realtà riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo”. Siamo dunque in presenza di condizioni, nella produzione capitalistica, indipendenti dalla buona o cattiva volontà… (Marx, Il capitale, libro II, cap. 20) (5)

Concludendo, la crisi è rappresentata dal “movimento reale della produzione capitalista, concorrenza e credito”. Al semplice processo di produzione (immediato) segue quel processo di circolazione e di riproduzione del capitale che costituisce l’unità di due fasi le quali - quando si fanno violentemente indipendenti e altrettanto violentemente ristabiliscono la loro unità - entrano in crisi. Lo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento è collegato con lo sviluppo del credito che appare “come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio”. Si accelera lo sviluppo delle forze produttive e la creazione del mercato mondiale, ma al tempo stesso si sollecitano le crisi, le violente eruzioni delle contraddizioni capitalistiche. Oltre a sviluppare “il più puro e colossale sistema di imbroglio e di gioco d’azzardo” (III libro del Capitale, cap. 5) (6). Alla saturazione dei mercati subentra una “massa di capitale-merce invendibile; massa di capitale fisso in gran parte inattivo a causa del ristagno della riproduzione”. Il credito si contrae; “le fabbriche rimangono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti finiti saturano il mercato di merci”. E si ha una sovrabbondanza di capitale produttivo.

La sovrapproduzione di merci (gran parte inutili o addirittura dannose) è condizionata dalla legge generale di produzione del capitale: produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare - estorcendo profitto con una data massa di capitale - la maggiore quantità di lavoro possibile: forza-lavoro e non numero degli operai!), senza considerare i limiti imposti dallo scambio mercantile, ignorando i reali e primari bisogni di miliardi di esseri umani lasciati in condizioni d’esistenza quasi bestiali. L’allargamento della riproduzione e dell’accumulazione, con una continua ritrasformazione di plusvalore in capitale. determina il volume della massa di merci prodotte, indipendentemente da un circolo di domanda e offerta, di bisogni da soddisfare.

L’immediato compratore della produzione di massa è il grande commerciante; per il produttore capitalista ciò che conta è la vendita del prodotto, senza interrompere il ciclo del valore capitale. Finché il processo si allarga (consumo dei mezzi di produzione e consumo individuale delle merci), può crescere la produzione di plusvalore. Ma se una parte delle merci rimane invenduta nei magazzini, allora il flusso di merci comincia a intasarsi e viene meno la trasformazione della merce in denaro. Scoppia la crisi che si rende visibile nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale e nella interruzione del suo processo di riproduzione. (Marx, Teorie sul plusvalore, II, cap. 17 - Il capitale, libro II, cap. 2)

Il denaro, che funziona come misura dei valori finché i pagamenti si bilanciano, nei pagamenti reali non si presenta più come mezzo di circolazione, forma mediatrice, bensì come esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta. È una contraddizione che si manifesta quale fase particolare di ogni crisi generale di produzione e di commercio, quando cioè

si sono pienamente sviluppati il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. (…) Da figura solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro-contante.

La forma di valore della merce prende il sopravvento sul valore d’uso della merce: soltanto il denaro è merce! Qualunque sia la sua forma fenomenica, oro o banconote (il Capitale, libro I, cap. 3). I capitalisti monetari, che vivono sull’interesse monetario, si arricchiscono a spese dei capitalisti industriali (e sempre, in definitiva, del proletariato!). E si hanno forti cadute di capitale fittizio, titoli di Stato, azioni, ecc., con possibilità di bancarotta.

Infine, in un celebre passo dai Grundrisse, Marx evidenzia come il rapporto del capitale diventi, ad un certo punto, un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro.

Le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale (…) sono esse stesse i risultati del processo di produzione del capitale. Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostante esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale.

E così sia.

Davide Casartelli

(1) Ad evitare equivoci precisiamo subito che i lavoratori devono lottare per opporsi agli attacchi del capitale e per rivendicare salari più alti, orari di lavoro ridotti, ritmi di lavoro meno intensi, aumento delle pensioni e dell’assistenza sanitaria e sociale in genere, eccetera. Ma è compito della loro avanguardia di classe, raccolta nel partito quale unica e indispensabile organizzazione politica, portare nella classe stessa la consapevolezza che - anche ammessa la possibilità di momentanee concessioni - il sistema economico e sociale che li sfrutta e opprime non cambia minimamente. Questo fino a quando il proletariato non affronterà la questione della sua totale emancipazione, politico-economica, superando il capitalismo con la distruzione delle sue categorie fondamentali: salario, profitto, capitale, produzione di merci per il mercato, ecc.

(2) world-exchanges.org

(3) Molta acqua è passata sotto i ponti da quando A. Smith si appellava ad “una mano invisibile” (quella del mercato) che guida l’individuo, dirigente di un’industria, “a promuovere un fine” che sarebbe stato l’interesse pubblico. “I privati interessi e le private passioni degli individui conducono naturalmente a rivolgere il loro capitale verso quegli impieghi che sono ordinariamente più vantaggiosi alla società”. L’innalzarsi o l’abbassarsi del profitto avrebbe regolato la distribuzione dei capitali stessi. E ripeteva: “Gli interessi privati e le passioni umane inducono naturalmente gli uomini a dividere e distribuire il capitale di ogni società fra tutti i diversi impieghi in essa esercitati, per quanto possibile nella proporzione che torna più conveniente all’interesse della intera società” (La ricchezza delle nazioni - 1776 - Utet Torino, 1965 - pag. 573). Un meraviglioso quanto fantastico meccanismo di equilibrio tra interessi privati e pubblici…

(4) economagic.com

(5) Dal Trattato sulla moneta (1932) di Keynes, si può trarre lo schema di un altro idilliaco gioco economico che si svolgerebbe tra imprese, banche e salariati-consumatori. Le prime anticipano i fattori di produzione e chiedono prestiti alla banche per pagare i salariati e produrre beni e servizi; le seconde creano la moneta necessaria, che rifluirà loro a fine circuito quando le imprese, vendute le merci ai salariati-consumatori, estingueranno i loro debiti.

(6) I moralisti dell’economia classica denunciavano la presenza di “animali luridi, impastati di fango e di immondizia, innamorati del guadagno e dell’interesse, come gli animi nobili lo sono della gloria e della virtù. Animali capaci di un solo piacere, quello di guadagnare o di non perdere affatto, protesi avidamente al 10 per cento, preoccupati solo dei loro debitori, sempre sossopra per il ribasso o per la svalutazione della moneta, immersi e quasi sprofondati nei contratti, nei titoli, nelle pergamene. Persone di tal fatta non sono né parenti, né cittadini, né cristiani, né, forse, uomini: sono solo quattrinai”. (J. de Labruyère, I caratteri - Utet Torino, 1984 - pagg. 135.

Comments

  • mi è piaciuto tanto che me lo sono copiato sul blog!

vittoria

Hai fatto benissimo, ormai tutti parlano di "crisi" ma pochi sanno davvero cosa significa

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.