Proletari immigrati, rivolte dietro le sbarre dei CIE

Era lo scorso aprile, quando la rivolta dei lampedusani contro il disastro quotidiano della gestione dell'emergenza sbarchi, metteva in evidenza una delle tante matasse che il governo, dall'inizio della legislatura, avrebbe promesso di sbrogliare in breve tempo. Con la stessa efficienza impiegata nella rimozione dei rifiuti dalle strade di Napoli, e della ricostruzione dell'Aquila, è tutto detto. Addirittura Berlusconi rassicurava gli abitanti annunciando a marzo l'acquisto di una villa sull'isola, mentre la rivolta rischiava di degenerare in una guerra tra poveri quando gli echi di Rosarno erano - e restano ancora - nell'aria, a quasi due anni da quell'episodio. A isola, ogni tot settimane, (provvisoriamente) svuotata, i protagonisti dell'operazione si abbandonavano puntualmente ai toni più trionfalistici. Come a dire: non ci credevate? e invece...

E invece ogni volta venivano smentiti, perché gli esodi migratori non si affrontano coi rimpatri né con la militarizzazione delle coste. Perché se, perso per perso, un uomo preferisce affrontare motovedette, rischio di affondamenti, o nel caso migliore - quello in cui tocca terra - di internamento in qualche Centro di Identificazione ed Espulsione, non c’è decreto legge che tenga, è la disperazione che spinge a tanto. Infatti, gli sbarchi continuano ancora e di pari passo centinaia di persone continuano a essere rispedite al mittente. È passata un'estate caldissima, fatta di deportazioni nei CIE, di visite di uomini del governo, di permessi di soggiorno promessi e mai arrivati. A metà settembre c’era stata la messinscena della visita di La Russa e, come a ogni visita di stato che si rispetti, si fa quel che si può per fare bella figura. Magari non c’è il tempo per pulire a fondo, ma si può sempre nascondere la polvere sotto il tappeto. Neanche a dirlo, il giorno dopo il caos era il doppio di prima e fino a pochi giorni fa (fine settembre) erano ancora un migliaio i dannati che vi sostavano in attesa di sapere a che girone infernale del capitalismo italico sarebbero stati destinati. Mentre scriviamo apprendiamo che in 500 sono stati portati via da Lampedusa tra il 26 settembre sera e la mattina del 27 e i rimanenti 500 sarebbero andati via nelle ore successive.

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Un'estate di rivolte dicevamo, e non solo a Lampedusa, dove ad agosto, esasperati dai soliti rinvii e slittamenti delle partenze verso le diverse località della penisola, i profughi avevano incendiato materassi in un capannone in cui le fiamme erano divampate, anche a causa del maestrale. Anche nella vicina Pantelleria si verificavano episodi simili e fughe dai CIE avvenivano in località come Torino, benché lontane dall'epicentro. Questo perché la questione non si può circoscrivere a Lampedusa, sebbene essa abbia dato un nome a, e rappresentato il simbolo di, un'emergenza che è trasversale a ogni confine regionale e nazionale. Lampedusa è ovunque, sparsa ai quattro angoli d'Italia e non solo. E' in ogni centro dove in migliaia vengono ammassati, subendo condizioni di vera e propria detenzione senza aver commesso reato, a meno di non considerare reato (come fa l'ordinamento italiano) appunto la clandestinità. Questo articolo di legge, introdotto un anno fa da Maroni, non ha fatto altro che peggiorare le cose. Ha creato ghetti di disperati in lista d'attesa che, quando saltano i nervi, esplodono comunque, che lo si voglia o no, contribuendo a tenere all'ordine del giorno mediatico quel “problema sicurezza” - ricordiamolo, merce di scambio elettorale - che le pattuglie dell'esercito e i lager non possono certo “risolvere”, perché è la classe sociale ai cui ordini essi obbediscono ad averlo creato.

Emarginazione e degrado sono strutturali nella società capitalista, che di queste “sacche” prima crea le condizioni di esistenza e poi pretende di reprimerle. Certo, non sempre le cose vanno secondo le previsioni, e anche la repressione mostra i suoi limiti rispetto all’entità del problema che con essa si vorrebbe risolvere.

Fino a un anno fa, l’interlocutore dirimpettaio con cui stipulare accordi ricevendo come contropartita l’assicurazione che si sarebbe occupato dell’eccedenza di clandestini - affidati alle sue “cure” non appena rimandati indietro - era Gheddafi. Da quando la guerra in Libia ha rotto l’idillio, i nostri governanti sono rimasti spiazzati non sapendo più a chi rivolgersi. Ma ci eravamo già soffermati abbondantemente, all’inizio della crisi lampedusana, sugli aspetti diplomatici e sulla figura imbarazzante fatta da:

  1. governo Berlusconi (prima amico di Gheddafi, poi costretto dalle pressioni europee a “ravvedersi”);
  2. Europa (maestra di tolleranza e accoglienza con il governo Berlusconi, ma tenendo le proprie porte chiuse verso i "dannati della terra", nel senso di “tieniteli tu che a me fanno schifo”).

Forse l’emergenza si acuirà, forse entrerà in una fase stagnante, forse per un po’ non se ne parlerà più, ma prima o poi tornerà sempre sulle prime pagine, o meglio su barconi e dietro fili spinati. Forse gli impauriti borghesi riterranno troppo permissivi i vecchi decreti sicurezza, e ne emaneranno altri, della cui efficacia si convinceranno, ricominciando così a dormire sogni tranquilli. Ma l’acqua non la puoi afferrare, perché ti scivola di mano.

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Smetteranno di esistere diseredati che non hanno altra scelta che fuggire? No, finché il modo di produzione capitalista avvelenerà questo pianeta. I paesi della periferia del capitale, da sempre terra di conquista e di rapina da parte delle “metropoli” del capitale stesso, continueranno ancora a perdere popolazione, in quanto lo squilibrio tra questa e le risorse (capitalisticamente gestite), per enormi masse di milioni di persone non può risolversi se non con la fuga. Tanto più in assenza di una prospettiva di cambiamento sociale rivoluzionario che costituisca un’alternativa al “si salvi chi può”, una calamita che freni anziché spingere ad andare via. Una prospettiva come questa, ora come ora manca anche in quell’occidente che nei primi decenni del secolo scorso era stato fucina di tentativi di trasformazione mai più sperimentati. Prospettiva che però, a dispetto delle illusioni del riformismo, rimane l’unica ancora di salvezza per i proletari di tutto il mondo. Per chi vende la propria forza lavoro per vivere. Per chi per venderla e sopravvivere è costretto a scappare via.

IB

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.