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Home ›Libia: si combatte per il petrolio
Le spinte centrifughe che stanno caratterizzando l’attuale situazione libica non possono certamente sorprendere nessuno, date le premesse che già si erano poste nella fase iniziale del conflitto.
La guerra intrapresa contro il regime di Gheddafi ha perso molto rapidamente i connotati iniziali di una sollevazione, almeno in parte, popolare e si è caratterizzata (complice anche la peculiare struttura sociale libica) come un'aspra lotta fra le diverse fazioni borghesi per la redistribuzione dei proventi derivanti dalla rendita petrolifera.
Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt), prontamente riconosciuto dalla comunità internazionale quale legittimo interprete delle istanze “rivoluzionarie” del popolo libico, rappresenta un insieme di forze eterogenee sia dal punto di vista ideologico-politico che da quello degli interessi economici, unite esclusivamente dalla contingente necessità di lottare contro Gheddafi.
Per quanto riconosciuto a livello internazionale, il Cnt non è riuscito ad esercitare efficacemente la propria autorità in gran parte del territorio e diverse regioni sono controllate da formazioni armate che si comportano come realtà istituzionali indipendenti.
Il tentativo di sciogliere le milizie attraverso l’istituzione di una commissione incaricata di registrare gli ex-combattenti e farli confluire nella polizia e nelle forze armate, non ha, per il momento, dato i risultati sperati e l’Esercito Libico (in braccio armato del Cnt) è ancora considerato uno fra i molti gruppi armati presenti nel paese.
Fra i diversi scontri intertribali che stanno caratterizzando l’instabile situazione libica, particolarmente gravi sono state le violenze che per diversi giorni hanno interessato, verso la fine di marzo, la città di Sheba, nel sud del paese, dove si sono fronteggiati membri della comunità Tebu e gruppi di uomini appartenenti alle tribù arabe locali; il bilancio fornito da un portavoce del Cnt è stato di oltre 70 morti e 150 feriti.
I capi della comunità Tebu (popolazione nera del Sahara, dedita alla pastorizia e sparsa su un’area discontinua che interessa il sud della Libia, il nord del Ciad e del Niger) hanno denunciato il carattere razziale dello scontro in atto (dove verrebbero attaccate indiscriminatamente le comunità nere), annunciando la riattivazione del Fronte Tebu per la salvezza della Libia (FTSL, movimento di opposizione già operante contro il regime di Gheddafi) e brandendo, per la prima volta, la minaccia secessionista.
Di ben altra portata per il futuro assetto del paese potrebbe essere la decisione, assunta il 23 marzo a Bengasi da parte del “Congresso del Popolo della Cirenaica” , di costituire una regione unitaria federale Barqa (nome arabo della regione).
Il progetto sarebbe quello di creare una regione caratterizzata un’ampia autonomia, con un proprio parlamento, delle proprie corti di giustizia e con capitale a Bengasi; al governo centrale di Tripoli rimarrebbe di fatto solo la possibilità di continuare a rappresentare a livello internazionale gli interessi libici.
Il congresso, costituito da circa 2000 partecipanti fra i quali erano presenti i principali capi tribù ed i più importanti esponenti politici e militari della regione, ha nominato a capo del consiglio provvisorio del governo di Barqa, Ahmed al Zurabi Senussi, pronipote dell’ultimo monarca libico (re Idriss), strenuo oppositore del precedente regime (ha trascorso circa 31 anni nelle prigioni di Gheddafi) e membro anche dell’attuale Cnt.
D’altra parte l’attribuzione dei seggi nella nuova assemblea costituente (60 alle province orientali su un totale di 200 –la Tripolitania presenta comunque una popolazione più numerosa-) e l’occupazione di posti chiave dell’esecutivo a delegati del centro e delle regioni occidentali, aveva creato malumori nella classe dirigente della Cirenaica, che aveva visto profilarsi il rischio di una nuova stagione di marginalizzazione politica (come era già accaduto con il precedente regime).
La relativa debolezza del governo centrale, non in grado di controllare efficacemente il territorio, sta consentendo alle forze autonomiste borghesi della Cirenaica di portare avanti le rivendicazioni legate ad una gestione diretta delle risorse del territorio, in primo lungo degli idrocarburi.
Bisogna tenere presente che il 75% della produzione petrolifera libica prima del conflitto (circa 1,6 milioni di barili al giorno) era estratto nella Cirenaica; la regione inoltre custodisce il 50% delle riserve di gas a naturale ed importanti risorse idriche fondamentali per lo sviluppo agricolo nazionale.
Il governo provvisorio di Abdel Rahim al-Keib ha contrapposto alle richieste autonomiste un maggior “decentramento” dei poteri, con la valorizzazione della realtà municipali ma senza la creazione di nuove entità statali, seppure federate fra di loro.
Se la situazione libica appare decisamente complicata ed instabile dal punto di vista politico e militare, sul fronte della produzione del petrolio il governo di Tripoli ha invece ottenuto risultati decisamente positivi, con l’estrazione giornaliera di 1,45 milioni di barili (la produzione dovrebbe raggiungere i livelli precedenti al conflitto, se non maggiori, entro la fine dell’anno).
Come abbiamo già avuto modo di scrivere sulla nostra stampa (vedi Prometeo n.6 VII serie “La verità dietro la vittoria della NATO in Libia”), l’intervento militare in Libia da parte delle potenze occidentali presenta sicuramente delle motivazioni geopolitiche complesse, in parte finalizzate al contenimento della penetrazione cinese nel continente africano ed in parte legate al mantenimento del dollaro quale divisa di riferimento negli scambi internazionali delle materie prime (soprattutto del petrolio), sebbene il particolare interventismo di alcune potenze (in particolare della Francia e dell’Inghilterra) possa essere giustificato anche da interessi contingenti di più corto respiro, ossia dal portare a casa contratti vantaggiosi.
L’Italia, entrata nel conflitto in un secondo tempo ed animata da scarso entusiasmo, ha comunque cercato di tutelare i propri preesistenti investimenti energetici prima di concedere l’utilizzo delle basi NATO presenti nel paese, ed i cospicui finanziamenti dell’ENI al governo di Bengasi hanno ulteriormente rafforzato la posizione italiana in Libia.
I giochi per rinegoziare i nuovi accordi petroliferi sono quindi ancora aperti ed i risultati, a causa anche dell’instabile situazione politica, non del tutto scontati.
Oltre allo sfruttamento delle risorse energetiche rimane aperto il grosso affare della ricostruzione del paese, con stime che si aggirano fra i 200-400 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni.
La situazione libica, solo parzialmente e rapidamente accennata, permette di vedere come gli interessi delle diverse fazioni delle borghesia (sia nazionale che internazionale), abbiano contribuito alle dinamiche della guerra e come adesso si adoperino per la spartizione del bottino.
Per i proletari della Libia, che hanno vissuto le atrocità e le tragedie del conflitto, la situazione non è assolutamente migliorata e possono essere solo cambiati (ma neanche più di tanto) i padroni (nazionali o stranieri) che si arricchiranno dello sfruttamento del loro lavoro.
GSBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05
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