Dietro alle sceneggiate tra le due Coree

Un'altra manifestazione delle stridenti tensioni tra l'imperialismo cinese e quello americano

Verrebbe da dire tanto rumore per nulla. Le minacce di Kim Yong-un di invadere la Corea del Sud, di lanciare missili sulla base militare americana di Guam nel Pacifico, di scatenare una guerra atomica nel cuore dell’Asia sono rimaste al palo come era prevedibile. A dirla tutta, nessuno ci aveva mai creduto, tanto meno i diretti interessati, Giappone compreso, che si sono limitati ad aumentare la soglia per la sicurezza interna di un punto e ad allertare le batterie di missili anti missili già presenti sul loro territorio. Le minacce e le isteriche sceneggiate del giovane rampollo della dinastia Kim, nipote del mitico fondatore del capitalismo di stato nella Corea del Nord, Kim Il-sung, stalinista di ferro come il nipote, sembrerebbero, dunque, solo il frutto di un misto di arroganza e di inesperienza politica sullo scenario internazionale.

In realtà c’è in ballo qualcosa di più. La Corea del Nord ha reagito ad una sorta di provocazione di Usa e della Corea del sud che a gennaio hanno organizzato le loro esercitazioni navali sfiorando le sue acque territoriali. Sempre gli Usa hanno spinto perché il regime di Pyongyang venisse colpito da sanzioni internazionali per i suoi esperimenti nucleari iniziati nel 2006 coinvolgendo la stessa Cina. Mentre il rappresentante dell’Onu, Ban ki-moon, tentava una mediazione negoziale, da Washington sono arrivate pressioni per l’inasprimento delle sanzioni già comminate. Per di più in casa dell’alleato di sempre, la Cina, si sono tenute le elezioni per il nuovo presidente e il leader della Corea del nord, la cui economia e dotazione di armamenti dipendono da sempre dalla “generosità” imperialistica di Pechino, ha voluto mandare un messaggio al nuovo presidente, Xi Jinping, perché tutto rimanesse come prima. Sul fronte interno, i soliti bene informati assicurano che la spiegazione alle minacce di Kim il giovane sono in parte addebitabili alla necessità di accreditarsi come “vero” capo dell’esercito, perché scarsamente considerato dalla “casta” dei vecchi generali.

Certamente tutte queste situazioni possono aver influito sui suoi comportamenti, non ultimo quello di chiudere l’area industriale del distretto di Kaesong che ospita ben 123 aziende a prevalente capitale sud coreano e che dava lavoro (peraltro super sfruttato) a 53 mila coreani del nord, in polemica risposta al governo di Seul, reo delle provocazioni precedentemente citate.

Va detto, però, che le provocazioni nei confronti di Pyongyang con le relative tensioni in tutta l’area, avevano come primo obiettivo la Cina. Nel Pacifico, così come nell’Africa del Sahel, lo scontro tra le due potenze si fa sempre più serrato. Agli Usa non piace che Pechino si dia da fare per inserirsi produttivamente e commercialmente in un’area che da sempre le è imperialisticamente appartenuta come il Giappone e la Corea del Sud. Washington non può tollerare che l’alleato primo di Pechino nel Pacifico faccia esperimenti nucleari, si doti di armi atomiche e continui ad essere la spina nel fianco per i suoi interessi strategici.

Per di più, da qualche anno a questa parte, la crisi ha reso gli interpreti di questo scontro più aggressivi del solito. Solo apparentemente la Cina ha accettato di apporre la sua firma sulle ultime proposte americane di inasprimento della sanzioni. Nei fatti il comportamento di Pechino, sia nella versione della vecchia amministrazione che di quella nuova di Xi Jinping, non è mutato sostanzialmente nei confronti dell’alleato coreano. Ha continuato a soddisfare per il 60% il fabbisogno alimentare dell’alleato, per l’80% quello energetico e non ha mai cessato di rifornire armi e sostegno scientifico per la ricerca nucleare. In compenso, sempre a sostegno della propria penetrazione nell’area del Pacifico, ha ritenuto di dover tenere a freno le bizze del giovane alleato, facendogli pesare come il suo inutilmente aggressivo atteggiamento in termini di politica estera, si sia espresso nell’ultimo anno, proprio quando la Cina viveva la crisi degli scandali della corruzione e si stava preparando alla nomina del nuovo presidente, creando così turbolenze politiche di cui il governo di Pechino non sentiva il bisogno Detto questo, non succederà nulla che stravolga l’alleanza tra i due governi. Per la Cina l’alleanza con Pyongyang è strategicamente importante, praticamente irrinunciabile, e per la Corea del Nord nessuno strappo sarebbe possibile, ben conscia che il suo destino, se non la sua sopravvivenza, dipendono dal grande alleato e dalle sue capacità di consolidamento nel Pacifico. Ne consegue che la vera partita non è tra le due Coree ma tra Cina e Usa, anche se le due entità nazionali coreane fanno di tutto, atteggiamenti guerrieri compresi, per raccogliere le briciole lasciate per terra dai rispettivi padrini imperialistici.

Per chi è costretto a piegare la schiena nelle fabbriche di Seul, di Pyongyang o dell’ibrido polo industriale di Kaesong, al servizio dei profitti in dollari o yuan, poco cambia. Ciò che dovrebbe cambiare è l’atteggiamento di proletariati tra i più sfruttati al mondo per quanto riguarda le economie avanzate o emergenti. Non più solo passiva forza lavoro al seguito di questo o quel capitale, non più solo proletariati ingabbiati nei rispettivi nazionalismi, artefici di falsa democrazia quanto di falsissimo comunismo, ma lavoratori che inizino a riprendere nelle proprie mani il lungo cammino dello scontro di classe.

FD
Sabato, April 27, 2013