Guerra civile e infiltrazioni imperialistiche nel Sudan del sud

Il Sudan del sud è nato nel luglio del 2011 per un'operazione complessa i cui contorni economico- politici che l'hanno posta in essere si sono complicati sino ad inscenare una guerra civile all'interno del giovane paese. I protagonisti sono l'attuale presidente Salva Kiir Mayardit, che appartiene all'etnia maggioritaria Dinka, e il suo ex vice presidente Riek Machar, appartenente all'etnia minoritaria Nuer. Il tutto parte il 15 dicembre dell'anno scorso, a causa di “banali” contrasti tra i militari del SPLM (Sudan People's Liberation Party ) e miliziani seguaci di Machar che aveva in precedenza minacciato di presentarsi alle prossime elezioni per la leadership del partito stesso e contro il suo presidente. La stampa borghese ha immediatamente bollato lo scontro, e la successiva guerra civile, come la solita guerra tra bande in uno sperduto paese dell'Africa nera, una guerra etnica come tante, tant'è che in Europa, e in Italia in particolare, non se n'è quasi parlato. In realtà le cose stanno molto diversamente. Intanto gli interpreti della guerra civile sono i rappresentanti di una borghesia parassitaria che vive e si scontra al proprio interno sulla gestione della rendita petrolifera. Non va dimenticato che il Sudan del sud è il terzo produttore di petrolio di tutto il continente africano e che, come al solito, dietro questi scenari di guerra civile si palesa l'ombra di qualche famelico imperialismo che, a sua volta, deve guardarsi le spalle dalla concorrenza di altri predatori energetici. L'impianto tribale serve solo da base operativa, da carne da macello utilizzata dalla frangia borghese di turno. Se le divisioni tribali non ci fossero, la guerra civile scoppierebbe lo stesso e con gli stessi meccanismi, perché alla base c'è l'interesse economico che crea le tensioni all'interno dei clan e non viceversa.

Poi va messo in rilievo la lunga ombra dell'imperialismo di Pechino che da anni imperversa da quelle parti. La Cina, infatti, già dalla fine degli anni novanta ha messo le mani sul petrolio sudanese, stipulando contratti che le hanno garantito il pressoché monopolio della ricerca e sfruttamento dei suoi giacimenti (prima della crisi della guerra civile la Cina importava il 70% della produzione petrolifera locale); in cambio Pechino ha garantito la costruzione di una serie di infrastrutture come strade, scuole, centri ospedalieri e tutto ciò di cui aveva bisogno la commercializzazione del greggio.

Le cose si sono sviluppate al meglio sia per l'imperialismo cinese che per la borghesia indigena al potere, sino a quando gli Usa hanno ritenuto opportuno di spezzare l'idillio energetico, aiutando una frangia della borghesia del sud a rivendicare l'autonomia nazionale e territoriale a scapito del nord. Come sempre la questione è stata presentata come lo scontro tra un nord arabo e islamico, terra di rifugio del terrorismo islamista, e un sud animista e cristiano, pacifico e dialogante con il mondo occidentale. Nei fatti lo scontro era sul petrolio e sulle vie della sua commercializzazione. Al sud ci sono i giacimenti, ma senza sbocco al mare, al nord ci sono gli oleodotti che portano il prezioso “oil” sugli attrezzati porti del Mar Rosso. La lunga trattativa, non senza pressioni politiche interne e internazionali, arriva ad un compromesso nel 2005, quando Nord e Sud si mettono d'accordo sulla secessione del Sud e sui costi di percorrenza degli oleodotti del nord, peraltro costruiti con le finanze e la tecnologia cinesi. Nel luglio 2011 i patti entrano in vigore e nasce il Sudan del sud con grande soddisfazione degli Usa e disappunto della Cina, che si è trovata a dover mediare, sin da subito, con i due paesi per mantenere la sua leadership in loco.

I due anni e mezzo che hanno portato all'attuale crisi dopo la nascita del Sudan del sud sono stati caratterizzati da reciproche rappresaglie. Il Nord ha rivendicato la necessità di aumentare il livello dei pedaggi, il Sud ha risposto minacciando una sorta di embargo, economicamente omicida e suicida, perché entrambi i paesi vivono solamene sulla rendita petrolifera e qualunque minima variazione delle estrazioni e delle commercializzazioni avrebbe come effetto immediato il reciproco crollo economico. In questa situazione si è inserita un'altra variabile, anche questa probabilmente patrocinata dalla diplomazia americana: nel sud si è aperta una guerra civile tra due componenti della borghesia dominante nella gestione della rendita petrolifera, una volta definito il contenzioso con il Nord. Il che è costato non poco alla presenza cinese che ha pagato in termini di sicurezza e agibilità economica. In qualche episodio ha dovuto evacuare i propri dipendenti e trattare con bande locali il rilascio di addetti cinesi alle attrezzature petrolifere. La Cina teme fortemente che il perdurare del conflitto possa mettere in crisi i suoi investimenti. Ancor prima della divisione del Paese, Pechino aveva investito in Sudan circa venti miliardi di dollari, e altri otto miliardi erano stati promessi al presidente Kiir nel 2012, poco prima della nascita del Sudan del Sud.

Non per niente il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, si è precipitato ad Addis Abeba per prendere parte ai colloqui di pace negli scorsi giorni. Nell'occasione, Wang Yi aveva proposto quattro punti nel tentativo ricomporre la crisi all'interno del piccolo stato del Sudan del Sud. I punti comprendono il cessate il fuoco, l'inizio di un processo negoziale tra le forze lealiste del presidente Salva Kiir e quelle ribelli dell'ex vice presidente Riek Machar, l'impegno diplomatico della Comunità internazionale e aiuti economici oltre che umanitari. Wang si è inoltre impegnato a stanziare fondi per la ricostruzione del paese, in cambio ha chiesto al governo di Juba, capitale del Sud, di salvaguardare l'incolumità e le proprietà dei cittadini cinesi che vivono in Sudan del Sud e che gli interessi della CNOOC (la più grande compagnia petrolifera cinese) rimangano saldi e possano continuare nel tempo. La stessa opera politica di mediazione l'hanno tentata anche gli Usa, ma con minore successo.

Riuscirà la fazione di Mashar ad aver il sopravvento su quella di Kiir? Riuscirà la Cina a risolvere a suo favore la guerra civile impedendo agli Usa di crearsi un varco all'interno del Sudan del Sud? Continuerà la guerra civile? I giochi sono ancora aperti. Intanto più di un migliaio di diseredati, ingaggiati dalle due fazioni borghesi e ostaggi umani degli interessi dell'imperialismo sono stati trucidati in nome dell'irrinunciabile corsa alla conquista delle risorse energetiche e della sue rendite finanziarie. Il capitalismo e la sua appendice imperialistica non cambiano mai, se non per il contesto in cui si trovano a operare e per la spinta che ricevono dalle situazioni di crisi che tutto rendono più pressante e devastante.

FD
Martedì, January 21, 2014