Da dove proviene il salario e da dove il profitto?

Terza puntata sul tema “Il lavoro salariato”

I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perchè dalle condizioni naturali del lavoro ne consegue che l'uomo, il quale non ha altra proprietà all'infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso.

Karl Marx – Critica al programma di Gotha

Nella precedente puntata abbiamo visto e spiegato il perché nel capitalismo l'espulsione di manodopera “eccedente” diventa una necessità per il capitalista e al tempo stesso uno strumento di ricatto e di maggiore sfruttamento della manodopera residua impiegata: ossia una condanna e un incubo per il lavoratore. Da cui derivano precarietà, massima flessibilità in entrata e in uscita, massicci licenziamenti, riduzione dei salari, a fronte di un aumento di produttività e dell’intensificazione dei ritmi e dei carichi di lavoro.

Ma cerchiamo ora di capire da dove proviene il salario del lavoratore (e dunque il profitto del capitalista) e se il suo tempo di lavoro viene interamente o meno remunerato e così comprenderemo perché il “lavoro”, nel capitalismo, non può essere un “diritto” per tutti, come si ostinano a rivendicare i cosiddetti “sinistri radicali” e i populisti e moralisti “democratici” d’ogni ordine e grado.

Con quali fondi, dunque, il capitalista paga queste cosiddette "giuste" paghe del lavoratore (quando lo sono, ovviamente, perché così – fra l'altro – non è sempre)? Ma soprattutto: “giuste” rispetto a che cosa?! Chi stabilisce questo standard di “equità”?!

Naturalmente il pagamento avviene con il capitale-denaro stesso investito nel processo produttivo: con la parte che va destinata al pagamento del monte salari dell’impresa (il cosiddetto capitale variabile in Marx). Ma il capitale di per sé non produce alcun valore, neanche quando esso si incarna (materializza) in macchinari (il capitale costante in Marx) a sofisticata tecnologia, o persino robotici. Tant'è che ogni capitalista necessita, per effettuare la produzione, di acquistare forza lavoro e di gestirne il costo (salario) nel senso del suo massimo contenimento possibile e al tempo stesso massimizzandone al massimo la capacità produttiva (la famigerata “produttività del lavoro” (1): produrre di più nello stesso tempo di lavoro in modo da poter abbassare il prezzo unitario di vendita delle merci). Il che avviene sempre, anche se in maniera per così dire più sfrontata ed evidente nei tempi di crisi .

Oltre alla terra (peraltro coltivata dall’uomo), solo il lavoro umano è infatti sorgente di nuova ricchezza. Ogni altro modo di creare nuova ricchezza è solo apparente: commerciare (ossia fare da mediatore tra produzione e consumo), speculare, fare attività finanziaria (ossia mediazione tra prestatori e utilizzatori di denaro), intascare una rendita (ad es. con l’affitto di un immobile), ecc. sono attività che semplicemente fanno circolare, ossia spostare ricchezza da una tasca all’altra, ma senza produrne di nuova a livello sociale (complessivo) dunque, casomai solo a livello individuale e sempre a scapito di uno e a vantaggio di un altro.

Il capitale stesso, dunque, non è altro che il prodotto di precedente ricchezza prodotta da lavoro umano vivo (salariato) e accumulata sotto forma di impianti produttivi (capitale fisso o lavoro morto) e nuovi capitali. Di tali impianti e capitali il capitalista (e non la società) è l’unico proprietario per essersene appropriato nei precedenti cicli produttivi: egli ha cioè accumulato capitale liquido maggiore di quello prima investito e ne ha trasformato una parte in strumenti e strutture di produzione (mezzi di produzione) che a lui solo appartengono in maniera esclusiva. Ecco la cosiddetta accumulazione capitalistica. Dunque quella parte di ricchezza prodotta dal lavoro sociale (ossia collettivo) che si trasforma e conserva sotto forma di strumenti di produzione, anziché essere “proprietà” di chi l’ha prodotta col suo lavoro, è e resta proprietà esclusiva (in tal senso “privata”) di una sola parte della società: i capitalisti, i borghesi.

Ecco dunque scoperto che le paghe del lavoro salariato sono in realtà pagate dal lavoratore stesso, sono il frutto del suo stesso lavoro venduto al capitalista: originano cioè dal valore prodotto da lavoro precedente accumulato nelle mani del capitalista, perché non pagato al lavoratore. Il lavoratore viene cioè pagato (o remunerato) con il suo stesso lavoro, ma retribuito solo per una parte del lavoro da lui prestato, mentre l’altra parte finisce dritta in tasca al capitalista come guadagno (sotto forma di profitto). Il resto è dunque profitto del parassita di cui sopra.

Ed ecco sfatato il mito del capitalista come “benefattore” del lavoratore: ossia come colui che, “dando o concedendo lavoro”, dà al lavoratore la possibilità di sopravvivere. Da cui tutta la prosopopea dell’impresa (capitalistica!) come fondamentale e irrinunciabile tassello dell’organizzazione sociale: di essa non si potrebbe fare a meno, dunque, e ad essa vanno indirizzati tutti i sostegni immaginabili, specie in tempi di crisi. È casomai l’esatto contrario: è il lavoratore a consentire al suo parassita di esistere e riprodursi, e dunque ad essere il benefattore che garantisce al suo “datore di lavoro” un profitto (o, se ciò non avviene, a pagare le conseguenze perdendo la sua unica fonte di mantenimento).

Non si spiegherebbe altrimenti l'origine del profitto, ossia del guadagno consentito al capitalista dopo la vendita sul mercato del prodotto (sotto forma di “merce”) ottenuto da quel lavoro di altri da lui acquistato e utilizzato "produttivamente” per sé e non per la società: una altrui capacità di lavoro che, in virtù del contratto di compravendita tra capitalista e lavoratore: 1) resta nella piena disponibilità del capitalista e 2) fornisce al capitalista un prodotto (e dunque un valore) maggiore di quello remunerato al produttore-lavoratore.

In questo senso il lavoratore è una “merce molto speciale” davvero, perché capace di produrre – per chi la acquista (il capitalista) – molto più valore di quello che gli viene restituito come salario (2).

Ma tutto questo, secondo gli economisti al servizio del capitalismo, non sarebbe vero.

E infatti l'unica “spiegazione" avanzata dagli adulatori del capitalismo a giustificazione del profitto è quella secondo cui esso sarebbe la "giusta remunerazione del rischio (?!) d'impresa" o addirittura la "remunerazione del merito". Il merito, oh certo, già: quello derivante – diciamo noi – dal possedere (o controllare-gestire) esclusivamente gli impianti di produzione che il lavoro non pagato ha consentito al capitalista di acquisire e potenziare. Come dire che chi dispone del coltello che io gli ho costruito è più bravo di me a tagliare la bistecca rispetto a me che il coltello non lo possiedo. Banale come motivazione, non crediamo?

Ovviamente è al capitalista nella sua figura sociale che ci riferiamo (non certo alla figura del singolo imprenditore, che oggi e qui è uno, domani e altrove sarà un altro) e dunque allo sviluppo storico complessivo di quella che è la sua figura e funzione sociale. Insomma alla classe sociale borghese. Stesso discorso, ovviamente, vale per un eventuale “impresa pubblica”, in cui fosse cioè lo Stato-proprietario a gestire allo stesso modo (criterio costi-ricavi) la produzione di merci (valori di scambio) e non di “cose” utili (valori d'uso): per intenderci quanto avveniva nei cosiddetti paesi del “socialismo reale” (Urss, Cina, Cuba, ecc.), in realtà paesi a capitalismo di Stato, nei quali era lo Stato ad assolvere i compiti altrove svolti dal borghese privato.

Del resto, due sono le ipotesi possibili: o il singolo capitalista "eredita" la sua proprietà da precedenti capitalisti, oppure egli la "mette su" con proprie energie o di propria iniziativa (ad esempio attingendo al credito finanziario o ad assetti di proprietà di tipo azionario, ossia mettendo insieme i capitali di più imprenditori associati) (3).

Il che non cambia la natura e la "sostanza" del fenomeno, in quanto la sua proprietà è in ogni caso garantita (oltre che dal “sacro” Diritto, dalla legge e dal suo Stato gendarme) dalla proprietà degli strumenti di produzione, unica che consente al datore di lavoro quella costante appropriazione privatistica di ricchezza prodotta da lavoro altrui, solo parzialmente remunerato e, per l'appunto, la realizzazione di un profitto (guadagno, utile), una accumulazione di capitale e un eventuale reinvestimento di quegli utili per i successivi cicli produttivi. Senza tale guadagno, nessun capitalista avrebbe interesse ad investire, cioè ad avviare un ciclo produttivo e affrontarne i costi e rischi; senza tale accumulazione nessun capitalista sarebbe in grado di sviluppare e ingrandire la sua impresa (rendendola più produttiva e remunerativa rispetto ai suoi concorrenti) e sarebbe costretto a chiudere i battenti nel breve o medio. Insomma: chi glielo farebbe fare?!

Nessuno esclude, peraltro, la possibilità (tanto declamata in nome delle cosiddette “pari opportunità”) che un proletario – particolarmente fortunato, o capace, o meritevole … come si usa dire – possa diventare a sua volta un capitalista, avanzando così personalmente nella cosiddetta scala sociale delle opportunità: per cui basterebbe inventarsi tutti un lavoro in proprio, con la giusta dose di creatività e di fiducia in se stessi, e il gioco sarebbe fatto. Ma ciò, a ben guardare, non cambia affatto le carte in tavola. Tale possibilità, peraltro remota (dovendo questi competere con concorrenti ben più grandi, consolidati e forti di lui), non è infatti in alcun modo possibilità sociale (generale) che possa riguardare o interessare tutti i proletari (ossia i possessori di sola forza-lavoro) in quanto classe sociale, senza i quali il sistema stesso – semplicemente – non potrebbe affatto reggersi in piedi, per dirla in breve. Chi assumerebbero _come lavoratori_ i capitalisti in una società interamente composta da capitalisti?!

Maggiormente immaginabile sarebbe, piuttosto, una società nella quale tutti fossero lavoratori (ossia produttori collettivi di ricchezza sociale e gestori, sempre collettivi, della distribuzione di quest’ultima) per il tempo – ormai minimo – necessario a garantire a tutti, ma proprio tutti, un benessere completo (il quale non si identifica nel mero possesso e consumo di cose).

PF

Sul prossimo numero: Perché il “lavoro”, nel capitalismo, non può essere un diritto per tutti. Ovvero, natura del salario, origine del profitto: il produttore sociale e il suo parassita.

(1) Facendo produrre al lavoratore più pezzi nello stesso tempo di lavoro (pagato allo stesso salario precedente) il capitalista può infatti disporre di più merci, il cui costo unitario di produzione si abbassa e che potrà perciò vendere ad un prezzo più basso. Egli dunque accorcia la parte di giornata lavorativa pagata e allunga la parte non pagata dalla quale egli ricava il suo guadagno (profitto).

(2) Questo a differenza di qualsiasi sofisticato macchinario di produzione. Non c’è alcun modo, infatti, di far produrre ad un macchinario progettato per produrre 1.000 pezzi l’ora una quantità superiore, non è dunque possibile sfruttare la macchina oltre la sua capacità produttiva, così come non è possibile ridurre i suoi costi di mantenimento e usura sotto il minimo necessario previsto dalla sua casa costruttrice. Cosa invece possibile con il lavoratore, col solo limite delle 24 ore disponibili in una giornata e del “minimo” di ore per il riposo e il nutrimento.

(3) Ci si risponderà: non è vero che il capitalista accumula così i suoi capitali, egli può sempre usufruire del "credito". E noi rispondiamo: certo, ma il credito va restituito, e pure maggiorato degli interessi, cari signori. Il credito è dunque, per il capitalista, un costo di produzione tra gli altri, un costo (o debito) da ripianare, insomma. Esso può aiutarlo – certo – ad avviare un ciclo produttivo dal nulla, ma è e resta un debito che solo in virtù di un profitto realizzato è possibile saldare. Per non parlare del fatto che il credito (sia nella sua forma privata – bancaria o finanziaria in genere – che nella sua forma pubblica, sotto forma ad esempio di prestiti agevolati statali o di contributi a vario titolo erogati alle imprese private dallo Stato) origina a) o dalla raccolta di risparmi privati delle famiglie o b) dallo storno di denaro drenato dallo Stato alla collettività dei contribuenti (per la maggior parte lavoratori) tramite la tassazione. Denaro poi trasferito dallo Stato alle imprese sotto forma di incentivi, sgravi fiscali, sovvenzioni, finanziamenti pubblici a tasso agevolato o a fondo perduto, ecc.

Venerdì, May 23, 2014

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.