Ancora guerra per il controllo del petrolio nel martoriato territorio libico

Avevamo lasciato la Libia del dopo Gheddafi in pieno caos, che le elezioni del 25 giugno scorso avrebbero dovuto definitivamente superare. Nulla di tutto questo si è verificato. Come era facile prevedere, le ragioni che hanno portato alla guerra, alla uccisione del Colonnello e al susseguente tentativo di cambiare il regime sono ancora tutte lì a far sentire il loro peso senza che, per il momento, si possa intravedere una via d'uscita. Le ragioni della guerra sono state, in rapida sintesi, quelle relative al petrolio libico e agli assetti imperialistici nel Mediterraneo. Il tutto inizia quando il governo libico penalizza la società francese Total e la obbliga a pagare una multa di 500 milioni di dollari.

Poi scatta la decisione del colonnello Gheddafi di cambiare la quota dell’Europa negli investimenti del petrolio libico, facendola passare dal 40% al 20% , spostando il differenziale a favore della Russia e della Cina.

Come se non bastasse, Gheddafi ha annullato un contratto che prevedeva l' acquisto di un centinaio di cacciabombardieri francesi, cambiandolo con un contratto a favore sempre della Russia. Era chiaro che il “nuovo” orientamento del Colonnello a favore di Russia e di Cina avrebbe modificato gli equilibri imperialistici in Libia, nel nord Africa e, di conseguenza, nel Mediterraneo a sfavore di Francia, Usa e del suo alleato inglese. Inevitabile la guerra, voluta e finanziata da questi imperialismi, che avrebbe dovuto creare l'occasione per rinnegare i contratti già stipulati a favore della Gazprom e Tefnet russi, della China National Petroleum Company cinese e, contemporaneamente, favorire la francese Total guidata dal magnate Christophe de Margerie in concorrenza all'italiana Eni

L'imperialismo, però, è molto bravo a fare le pentole ma non sempre riesce a fare i coperchi del giusto diametro. Le elezioni del giugno scorso sembravano mettere le cose a posto. Le forze laiche, schierate sul fronte dell'imperialismo occidentale, avevano avuto il sopravvento nei confronti di quelle confessionali. Il paese, dopo un anno di fibrillazioni sull'orlo della guerra civile, sembrava incamminarsi sulla “giusta” strada per gli imperialismi vittoriosi. Invece il voto, contrastato da brogli e violenze, ha partorito il suo contrario, ovvero il nascere e il consolidarsi di spezzoni di borghesia indigena, armati sino al collo, pronti a riaprire la mai sopita lotta per il controllo del petrolio, da est a ovest e da sud a nord del martoriato territorio libico.

La prima fazione è il gruppo Zintan. Possiede un piccolo esercito che comprende 23 diverse sigle, tra cui le potenti milizie Qaqaa e Sawaiq. E' finanziato dal Ministero della Difesa, e controlla diversi mezzi di comunicazione tra cui il canale satellitare al Watan.

La brigata Zintan ha stabilito uno stretto legame con il Libya national army (Lna), altra formazione paramilitare dell'ex generale di Gheddafi Khalifa Haftar, che sta letteralmente mettendo a ferro e fuoco Bengasi, con l'obiettivo di eliminare la concorrenza dei gruppi salafiti, jihadisti e di quelli legati alla Fratellanza musulmana. Le milizie di Zintan e (il loro alleato )Haftar si sono uniti a sostegno militare dei partiti laici, filo-occidentali, usciti vittoriosi dal voto di fine giugno, ma ancora incapaci di controllare a dovere il territorio e, quindi, le vie di trasporto dell'oro nero. Detto per inciso, Haftar, dopo il vecchio scontro con Gheddafi, si è rifugiato per 20 anni negli Usa, ha collaborato con la Cia e non è detto che la sua ricomparsa in territorio libico non abbia ancora dei legami con i Servizi di Obama.

La seconda per importanza è la milizia di Misurata. La brigata che ha liberato l'omonima città per poi puntare su Tripoli è la stessa che ha catturato e ucciso il Colonnello e con questo atto si è auto proclamata l'anima della rivoluzione anti regime. Ha a disposizione circa 40 mila uomini e la bellezza di 800 carri armati. Può contare anche sul sostegno degli ex ribelli della Camera dei rivoluzionari di Libia, filiazione del Ministero dell'Interno ed è ferocemente in contrasto con l'esercito di Zintan. Poi è presente anche la Brigata dei Martiri del 17 febbraio, che è un'organizzazione laica che opera nell'est della Libia. Fondata e foraggiata dallo stesso Ministero della difesa, consta di 12 divisioni che dispongono di armamento leggero e pesante.

Non deve stupire il connubio fra le bande militari e i membri del precedente governo. I secondi con i soldi dello Stato hanno finanziato i gruppi paramilitari per garantirsi la protezione fisica e la possibilità di continuare a giocare un ruolo politico. Nel futuro governo i primi hanno fiutato l'opportunità di avere una sponda politica da manovrare a loro piacimento nei momenti decisivi dello scontro. Entrambi sono convinti di vincere la battaglia sul terreno della forza per poi giocare le loro carte sul tavolo della spartizione della rendita petrolifera. Queste le tre più importanti fazioni borghesi con tanto di apparato militare. Poi c'è l'arcipelago di organizzazioni che si rifanno all'esperienza politica e militare della Fratellanza musulmana e formazioni jihadiste, tra le quali emerge Hansar al Sharia di ispirazione salafita. Quest'ultima è ritenuta responsabile dell'attacco all'ambasciata americana dell'11 settembre del 2012, con tanto di uccisione dell'ambasciatore americano.

Come detto, la posta in palio è il petrolio, il controllo delle sue vie di trasporto e di commercializzazione, il potere di gestire le commesse da dare alle grandi compagnie petrolifere internazionali, di essere cioè la fazione borghese di riferimento per gli interessi legati alla rendita petrolifera all'interno dei confini libici e, contemporaneamente, il solo interlocutore con le compagnie internazionali. Tragicamente queste lotte coinvolgono le più importanti città, ma anche piccoli paesi. Innescano faide tra gruppi etnici e tribali. Le vittime sono prevalentemente civili che rimangono stritolati all'interno degli scontri tra bande per il controllo di una postazione o di un agglomerato di case. Mentre continua la carneficina, la crisi libica, frutto immaturo dell'imperialismo occidentale, che ha favorito il crescere famelico della fazioni borghesi interne, sta mettendo a rischio quel “tesoro” per il quale tutto questo si è violentemente determinato. Prima della crisi bellica del 2011, la Libia deteneva il 2,6% di tutta la produzione mondiale di greggio, con una erogazione di 1 milione e 600 mila barili al giorno. Attualmente, dopo tre anni di guerra civile, di scontri dove le fazioni laiche e islamiste pur di non mollare l'osso, sono arrivate a occupare e a danneggiare gli impianti di estrazione e alcuni gas e oleodotti, l'esportazione di greggio è calata a 200 mila barili al giorno. Inoltre a Tripoli è in atto una catastrofe ambientale. Il 27 luglio un razzo ha colpito e distrutto un deposito di 6 milioni di litri di carburante nella parte meridionale della città. Il giorno dopo il governo ha invitato la popolazione a lasciare l'area per paura di un'esplosione e ha anche chiesto alla Comunità internazionale aiuti per tamponare una situazione che può diventare tragica. Nel frattempo quasi tutti i paesi europei e gli USA hanno dato ordine di chiudere le proprie ambasciate e invitato i propri connazionali ad abbandonare il suolo libico. Solo le grandi compagnie petrolifere come la Total e l'Eni sono rimaste sul luogo a presidiare il territorio in attesa che la bufera passi o che i rispettivi governi facciano la loro parte in termini di pressioni nei confronti del futuro governo, di quello in carica e nei confronti delle milizie combattenti. Ancora una volta nello spazio di tre anni si coniugano e si scontrano le esigenze degli spezzoni delle borghesie indigene con i grandi interessi dell'imperialismo internazionale. Con la diplomazia o con le armi, ma sempre per mettere le mani sulle fonti energetiche. Chi ci rimette, come al solito, sono le classi subalterne, la popolazione civile, chi lavora nei centri petroliferi o nelle campagne. Loro sono soltanto la carne da macello da organizzare per una “soluzione “laica o islamista della crisi. Gonfiano le fila delle bande armate borghesi, irretiti dalle loro ideologie, nella speranza di usufruire delle future magre briciole. Ma per loro, come per i proletari siriani, egiziani, palestinesi e israeliani uscire dalla barbarie delle guerre significa solo una cosa: poter uscire dal capitalismo che le genera. Significa poter iniziare a percorre assieme un cammino di autonomia nei confronti delle rispettive borghesie e contro qualsiasi interferenza imperialistica esterna. Significherebbe darsi un programma di classe, una strategia di lotta, una organizzazione rivoluzionaria che sappia coniugare il tutto verso una visione futura di emancipazione politica. Al contrario sarà sempre di più crisi, guerra, morte e fame per chi sopravvive alla quotidiana barbarie del capitalismo.

FD
Venerdì, August 1, 2014