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Home ›Il governo Salvini-Di Maio e la dignità del lavoro
Il primo atto del Governo leghista-pentastellato in materia di lavoro ha fondamentalmente confermato le nostre facili previsioni: con il nuovo governo poco o nulla sarebbe cambiato per la classe lavoratrice, se non in peggio.
Quali erano le principali promesse fatte a lavoratori e disoccupati durante la campagna elettorale? Il reddito di cittadinanza, ossia uno stipendio “dignitoso” per i milioni di disoccupati; cancellare la Legge Fornero, ossia abbassare l’età pensionabile, specie per le donne; cancellare il Jobs Act, ossia fondamentalmente reintrodurre le salvaguardie dell’articolo 18.
Bisogna notare che solo negli ultimi venti anni gli attacchi alle condizioni del lavoro dipendente sono stati brutali e continui. Giusto per citare i passaggi principali passiamo in rassegna il Pacchetto Treu del 1997, il Decreto Sacconi del 2001, la Legge Biagi del 2003, la Legge 148/2011, la Riforma Fornero del 2012, il Decreto Poletti del 2014, il Jobs Act del 2015.
Durante questo periodo la piena complicità dei sindacati confederali ha fatto si che le “ore di lavoro perse per conflitti” precipitassero tra il 1996 e il 2009 anno in cui significativamente l’ISTAT ha smesso di rilevare il dato.
Negli ultimi 20 anni sono state definitivamente smantellate praticamente tutte le posizioni acquisite attraverso il grande fermento sociale degli degli anni ‘60 e ‘70, per quanto queste si collocassero su di un piano di compatibilità con gli interessi del padronato. Nello stesso periodo sono aumentate vertiginosamente la sotto-occupazione e la disoccupazione, specie tra i più giovani. Sono infatti i giovani lavoratori quelli che più hanno pagato l’ultimo ventennio di precarietà e paghe da fame, è soprattutto tra di loro che dilaga il lavoro per somministrazione, a termine, l’esplosione dei voucher, i tirocini, gli stage non retribuiti, ora anche l’alternanza scuola-lavoro per i minorenni e, spesso, l’assenza di qualsivoglia impiego o occupazione (NEET).
Nel frattempo la “frantumazione” della classe sui luoghi di lavoro l'ha fatta da padrone, spostando il baricentro dei conflitti dal piano collettivo, se non di classe almeno di categoria o aziendale, alla loro individualizzazione. È il terreno legale oggi il massimo momento del conflitto tra lavoratore e impresa.
Tutto questo processo si è concretizzato nei seguenti dati relativi all’anno 2016: circa 26 milioni di forze di lavoro attive, delle quali 3 milioni di disoccupati ufficiali, ossia in cerca di occupazione. A queste si affiancavano 13,5 milioni di inattivi che non figuravano nelle statistiche perché non avevano un lavoro e non lo cercavano più. 3,2 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni (NEET) non studiavano e non lavoravano o, più probabilmente, molti di loro lavoravano in nero. Dei 4,2 milioni di lavoratori part-time il 62% avrebbe voluto lavorare, e guadagnare, di più. In un milione di famiglie tutti i componenti erano in cerca di occupazione1. 3,3 milioni i lavoratori in nero a cui dobbiamo sommare alcuni milioni di falsi lavoratori autonomi. Questo il quadro di massima della classe lavoratrice italiana.
Specialmente al Sud, in molti, sfiduciati della possibilità di migliorare la propria condizione attraverso il conflitto, stufi di una sinistra da sempre serva del Sistema, si sono quindi rivolti ai 5 Stelle. Lo descriveva bene la cartina post elettorale con il Sud completamente colorato di giallo.
A queste persone il decreto varato in agosto avrebbe voluto dare “dignità”. Come?
Innanzitutto con la retorica: la “Buona scuola” ha nettamente peggiorato la scuola pubblica, il “Jobs Act” ha finito di precarizzare il lavoro, ha depotenziato la contrattazione collettiva e regalando soldi alle imprese a mo’ di incentivi, il “Decreto Dignità” (D.L. 87/2918) non poteva che avallare la condizione indegna in cui versa la classe lavoratrice.
Cosa prevede in pratica il Decreto?
Jobs Act: si aumentano da 24 a 36 il numero massimo di mensilità dovute al lavoratore licenziato, in cambio non viene reintrodotto l’articolo 18, non viene toccato il demansionamento e il controllo a distanza, vengono reintrodotti i bonus fiscali per i padroni che assumono con il nuovo contratto e aumenta la possibilità di impiegare lavoratori precari per una quota che passa dal 20% al 30% sul totale dei lavoratori impiegati.
Contratti a termine: ridotto da 5 a 4 il numero di rinnovi possibili e da 36 a 24 mesi la loro durata massima, con l’obbligo di causale dopo i primi dodici mesi, in cambio non vengono normate le false cooperative che di fatto svolgono la funzione di agenzie di lavoro interinale, non si tocca il lavoro nero, non vengono normate le nuove forme di lavoro della cosiddetta sharing economy (tipo riders), né si interviene sul caporalato con tante lacrime di coccodrillo per la strage del 6 agosto, precedenti e successive.
Viene bandito un concorso (del quale non si sa nulla) per assorbire nella scuola 12.500 diplomati magistrali e laureati in scienze della formazione primaria sui 50.000 che da anni sono in mobilitazione, per contro a questa minima stabilizzazione vengono reintrodotti i voucher ed estesi in termini di numero di giorni lavorabili al mese (da 3 a 10) e settori che li possono impiegare, cioè agricoltura, turismo, enti locali, avallando di fatto l’utilizzo massiccio del lavoro nero che si nasconde dietro questa nuova forma di sfruttamento.
Questo il quadro dei contenuti principali del decreto.
Qualche riflessione meritano i pochi meccanismi di tutela introdotti per i lavoratori a tempo indeterminato licenziati, ossia più soldi, e per l’utilizzo dei contratti a tempo determinato, ossia limiti e causali. I meccanismi posti in essere prevedono la difesa del lavoratore come singolo, sul piano legale, avallando la tendenza all’individualizzazione del rapporto lavorativo e la prevalenza delle vie legali.
La Camusso ha blandamente criticato il Decreto apprezzandolo nei fatti. Si tratta in effetti di un ottimo esempio di mediazione al ribasso, come piace alla CGIL: “Ti do cento, ma in cambio almeno quindici dammelo! No? Va bene, facciamo 5 e non se ne parli più”.
Ai precari e ai disoccupati non rimane che rimandare al futuro le loro aspettative per il reddito di cittadinanza promesso da Di Maio. Intanto Salvini, che non perde tempo, si prodiga al massimo per spostare il baricentro della tensione sociale verso il nemico esterno: il “negro” immigrato clandestino e pezzente, causa di ogni male in terra. Il gioco delle parti ricorda un po’ quello del poliziotto buono e di quello cattivo, in ogni caso i padroni ringraziano: la conflittualità è disinnescata, gli istinti più brutali della popolazione sono eccitati e tutto prosegue secondo il sovrano mandato della conservazione dell’ordine costituito… aggredendo ancora un po’ i lavoratori, senza che nemmeno se ne accorgano.
Noi dal canto nostro lavoriamo per una reale alternativa a tutto questo: continuando a costruire un punto di riferimento politico di classe internazionalista e rivoluzionario, certi che prima o poi dalla miseria che avanza si presenterà qualche possibilità, per quanto timida, di ripresa di lotta di classe. Ci troveremo allora al nostro posto, avendo lavorato sodo in questi tempi piatti, per far avanzare la prospettiva di un nuovo ordine sociale ed economico fondato sulla solidarietà e la condivisione, nato dal rovesciamento della logica dell’individualismo e del profitto.
Lotus(1) Cfr. M.Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, 2017.
Battaglia Comunista #09-10
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