Libia: una guerra lunga quanto una pipeline

È dal 2011 che la Libia vive di una guerra continua tra fazioni interne, lotte tribali e l'arrogante presenza di tutte, o quasi, le più grandi potenze imperialiste europee e non solo. Gheddafi è stato tolto di mezzo essenzialmente per due ragioni.

  1. Aveva minacciato di vendere il suo petrolio e il suo gas non più in dollari ma con un paniere di divise tra le quali il rublo, il renminbi e l'euro. Gli Usa - che sopravvivono alla massa enorme di debiti che li sovrasta, grazie proprio al ruolo del dollaro quale strumento di pagamento di tutte le materie prime strategiche, petrolio compreso, e alla forza militare che li sostiene - hanno pensato di far fare al regime di Gheddafi la stessa fine di quello di Saddam Hussein.
  2. Il petrolio libico e i nuovi giacimenti di gas che la NOC (National Oil Company) libica stava per dare in appalto secondo le sue nuove strategie di alleanza, hanno innescato il bombardamento prima, la successiva morte di Gheddafi stesso e il tentativo poi di amministrare il conseguente caos politico secondo le esigenze delle potenze imperialistiche che sono state le interpreti della ennesima barbarie bellica. USA, Francia ed Inghilterra, senza nessuna copertura giuridica internazionale, sono intervenute militarmente; i primi per soddisfare le esigenze finanziarie del dollaro, le seconde, via Gheddafi, per imporre un diverso assetto petrolifero, ovvero una diversa distribuzione dell'oro nero tra le grandi compagnie petrolifere che operano nel Mediterraneo.

Il risultato è stato che il post Gheddafi non solo non ha risolto nulla sul piano delle voraci esigenze degli imperialismi, ma ha creato una situazione di completo sfacelo economico e politico-istituzionale, che è ancora presente e promette solo un peggioramento che potrebbe portare la Libia in una guerra civile simile a quella siriana.

Intanto, è in atto una guerra di tutti contro tutti. I due governi “ufficiali”. Il primo, quello di Sarraj, sorretto all'interno dalle forze jihadiste, dalla brigata Misurata e quella di Zintan con l'appoggio di un numero imprecisato di tribù locali, decise a scendere sul terreno dello scontro grazie ai lauti “aiuti” in denaro del governo centrale di Tripoli. Su scala internazionale il Governo di Tripoli gode dell'appoggio dell'Europa, degli Usa e degli organismi di diritto internazionale. Anche il governo di Tobruk, dominato dalla figura del generale Haftar, è appoggiato da alcune tribù della Cirenaica, mentre su scala internazionale può contare sull'interessato appoggio, dell'Egitto, della Russia e della Francia. Quest'ultima, poco prima dell'apertura del recente G7, che doveva affrontare “l'affaire Libia”, ha pensato di mettersi d'accordo con il generale Haftar per dare il via ad una nuova fase che avesse come obiettivo il solito petrolio. La produzione libica, nonostante la diminuzione del prezzo del greggio, va a gonfie vele.

Inoltre, nuove importanti scoperte di giacimenti con relativi progetti di esplorazione e sfruttamento delle immense riserve spingono la Noc per arrivare a 953 mila barili al giorno entro il 2021.

Nel bacino di Sirt, in Tripolitania, dove si concentra il 70% degli interessi Eni, i test esplorativi hanno individuato un giacimento con una capacità di 8.500 barili al giorno e di un imprecisato quantitativo di metri cubi di gas. E qui sta uno dei problemi. Il presidente Macron, al pari del suo predecessore Sarkozy che ha iniziato le ostilità nel 2011, vuole combattere con l'aiuto di Haftar la solita guerra contro l'ENI per una più “equa” redistribuzione della rendita petrolifera libica. Il generale Haftar, prima di lanciare l’offensiva verso la capitale con l'avallo francese, ha conquistato “manu militari” la cosiddetta Mezzaluna petrolifera nella zona del Fezzan, la regione più a sud della Libia, dove sono situati i pozzi più importanti e più grandi come il campo di Sharara gestito dalla Noc con la collaborazione della spagnola Repsol, della francese Total, dell’austriaca Omv, e come il campo di Elephant, dove la Noc è in stretta partnership con l’Eni. Contemporaneamente, la Francia lavora per ottenere una quota parte del 35% del petrolio libico che è da sempre nelle mani dell'Italia, oltre ad una diversa distribuzione del bottino. Mentre Haftar pretende almeno il 40% dei proventi dell’export dalla Noc e ambirebbe ad amministrare direttamente anche i terminal petroliferi di Ras Lanuf e Sidra, già da tempo sotto il controllo dell’Lna (Esercito nazionale libico) di Bengasi. Ci sarebbero poi i grandi giacimenti di Gadames che interessano il generale Haftar e l'ENI, sebbene ci siano interferenze dell'Algeria, che rivendica una parte di questi territori, pozzi compresi.

In conclusione, sotto il ricco ombrello del petrolio sembra esserci posto per tutti, ma alla sola condizione di inscenare l'ennesimo episodio bellico con morte, barbarie e miseria per chi ne rimane fuori. Berberi contro berberi, tribù beduine contro altre tribù beduine, Francia contro Italia, Europa e Usa contro Russia, Egitto, Arabia saudita e Francia che, per prima, ha smosso le acque. Non faccia testo la dichiarazione congiunta dei governi di Parigi e Roma che ipocritamente si sono pronunciati per una soluzione negoziale. In un periodo di crisi perenne che non cessa mai di produrre danni al mondo del lavoro, ai problemi di valorizzazione del capitale, la barbarie della guerra è sempre dietro l'angolo. Gli interessi sono grandi, la crisi economica ancora di più, le armi per combattere non mancano mai (85% delle armi in circolazione nel mondo sono prodotte e vendute dai 5 paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU). L'imperialismo ha un vocabolario di poche parole: guerra, distruzione e morte. Se non si dovesse trovare un, per altro difficile, accordo tra gli aspiranti alla rendita petrolifera del post Gheddafi, non sarebbe difficile immaginare per la la Libia, “mutatis mutandis”, la stessa fine della Siria.

FD
Lunedì, April 8, 2019