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Home ›Cina: Il XV congresso all’insegna delle privatizzazioni
Il XV congresso del partito “comunista” cinese, svoltosi a Pechino lo scorso Settembre, segna umobilismo negli equilibri di potere, contrassegnati da un lento quanto inesorabile declino del sistema produttivo statale, il congresso ha scelto di recidere definitivamente i legami con il passato aprendo definitivamente la strada a forme di gestione economiche ritenute più funzionali agli attuali processi di mondializzazione dell’econo-mia.
La lunga fase di transizione politica, resa ancor più travagliata dalla lenta agonia di Deng e contrassegnata da uno scontro violentissimo tra gruppi di potere rivali presenti nel partito-stato, sembra definitivamente conclusa. Un nuovo gruppo dirigente ha preso saldamente in mano le redini del potere e ha imposto al congresso le proprie scelte tutte improntate verso la totale apertura del capitalismo cinese al mercato mondiale. Per gli ultimi nostalgici della lunga marcia, alla sconfitta politica si è aggiunta la “beffa” di non poter ascoltare dal palco centrale le note dell’Internazionale, sostituite da una vivace quanto folcloristica musichetta dal titolo “Marcia sportiva”.
Il capitalismo cinese, dopo aver incassato il successo dell’assorbimento di Hong Kong avvenuto lo scorso luglio, è pronto a giocare la carta della privatizzazione economica pur di conquistare un ruolo di primo piano negli equilibri strategici della regione. Massima potenza demografica del mondo, la Cina finora non è stata in grado di assurgere al ruolo di potenza mondiale essendo stata sempre schiacciata dallo strapotere economico del Giappone. Diventare potenza dominante dell’area, grazie anche all’importanza finanziaria di Hong Kong, è il compito principale che non tanto velatamente si è posto la classe dirigente cinese nel corso dell’ultimo congresso. Per realizzare tale progetto l’attacco che si prepara a sferrare la borghesia cinese si articola su tutto il fronte di classe, scaricando i costi sociali, economici e occupazionali sulle spalle della già martoriata classe lavoratrice.
La gestione di Deng ha lasciato in eredità un paese con innumerevoli problemi economici e con delle contraddizioni sociali pronte ad esplodere da un momento all’altro.
Nel corso degli anni ottanta la Cina ha avviato una serie di riforme economiche improntate ad un’aperta politica di liberalizzazione del sistema produttivo. Il capitalismo internazionale, sempre pronto a sfruttare l’apertura di nuovi spazi economici in cui investire capitali, non ha perso l’occasione e ha massicciamente investito sul mercato cinese. Gli ingenti capitali stranieri sono serviti in parte per finanziare l’obsoleta economia cinese. Statunitensi, giapponesi e soprattutto le tigri del sud-est asiatico hanno investito miliardi di dollari in Cina. Taiwan, che presto dovrebbe rientrare nell’orbita della Cina, rappresenta il maggior investitore straniero, finanziando l’economia di Pechino per oltre venti miliardi di dollari l’anno. Il massiccio afflusso dall’estero di capitali, interrottosi in parte nei primi anni novanta in seguito ai fatti di piazza Tienanmen, ha determinato una voragine nella bilancia dei pagamenti. Se consideriamo che anche il debito pubblico ha assunto dimensioni allarmanti, avendo superato nel corso del 1996 i cento miliardi di dollari, è facile immaginare nel breve-medio periodo una fase di instabilità finanziaria. Negli ultimi mesi, in seguito alla crisi finanziaria scoppiata in Thailandia e negli altri paesi del sud-est asiatico, la situazione finanziaria cinese si è pericolosamente deteriorata; infatti, masse considerevoli di capitali sono state dirottate verso piazze borsistiche ritenute più “tranquille” mettendo di conseguenza in pericolo il vitale afflusso di capitali stranieri verso la Cina.
Nel corso del congresso è stato approvato un piano di privatizzazione dell’economia di vastissima portata; nel volgere di pochissimi anni sarà smantellato l’enorme settore economico statale determinando un radicale cambiamento della struttura economica del paese. Le scelte di politica economica operate dal governo di Pechino agli inizi degli anni ottanta, nonostante abbiano consentito alla Cina di evitare l’implosione di cui è rimasta vittima l’impero sovietico, sono state rese vane da un apparato burocratico pronto a tutto pur di conservare i privilegi acquisiti. Dopo anni di tentennamenti sembra ormai al via la grande privatizzazione dell’economia cinese. L’uomo nuovo del partito, Zhu Rongji, nel corso del congresso ha presentato nei dettagli il piano di privatizzazione; lo stato manterrà il controllo di alcuni settori strategici come la difesa, comunicazioni, fonti energetiche, ed alcuni grandi complessi industriali, il resto sarà privatizzato.
Le conseguenze di tale selvaggia opera di privatizzazione dell’economia sul fronte occupazionale saranno devastanti. Già da qualche anno, pur non avendo privatizzato le industrie statali, la classe dominante cinese dovendo sottostare ai voleri degli organismi del capitalismo internazionale, Fondo Monetario Internazionale e Banca mondiale, per ottenere i finanziamenti ha dovuto “risanare” la disastrata economia statale. Per molte aziende che presentavano un bilancio in rosso il mancato rifinanziamento ha significato cessare l’attività dalla sera alla mattina lasciando senza lavoro milioni di operai. In questo passaggio epocale dell’economia cinese, nel quale milioni di cinesi abbandonano in massa la campagna per approdare in una realtà industriale sempre meno capace di assorbire manodopera, le contraddizioni sociali sono destinate ad acuirsi anche in virtù del rallentamento della crescita economica.
Dal 1993 al 1996 l’economia cinese ha creato solo 5 milioni di posti di lavoro (contro i quasi cento creati dal 1978 al 1993) a fronte di una disoccupazione dilagante. Nelle campagne l’eccedenza di manodopera supera i 150 milioni di persone, mentre nel settore industriale i disoccupati sono circa 40 milioni. Il tanto decantato boom economico cinese, (mentre le cifre ufficiali indicano una crescita annuale del PIL del 10%, secondo molti economisti borghesi tale cifra sarebbe solo il frutto di trucchi contabili; Lester Thurow, in un suo recente lavoro, “Il futuro del capitalismo”, contesta le cifre ufficiali ed indica nel 4% il reale tasso di crescita del Pil cinese) è destinato a sgonfiarsi nei prossimi mesi per il generale rallentamento delle economie della regione. Se consideriamo che in un quadro macroeconomico in crescita i livelli occupazionali sono rimasti negli ultimi anni stazionari è facile immaginare le conseguenze nefaste di un rallentamento della crescita del Pil. Un rapporto del ministero del lavoro cinese prevede che nel duemila ci saranno 270 milioni di disoccupati con prevedibili scontri sociali.
Il progetto di privatizzazione dell’economia cinese e la conseguente maggior integrazione nel mercato mondiale sono stati salutati dalla borghesia internazionale con molta enfasi. Pur temendo un’egemonia del gigante giallo in un’area strategicamente importante come quella asiatica, il grande capitale finanziario internazionale intravede l’opportunità di conquistare il più grande potenziale mercato economico del mondo. Ma le scelte del congresso, tracciando la strada che dovrebbe portare la Cina nel grande circuito della mondializzazione dell’economia, aprono nuove profondissime crepe nel tessuto economico-sociale del paese accentuando quei fenomeni di povertà che possono scatenare nuovi conflitti sociali e una radicalizzazione del conflitto di classe.
plBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
Ottobre 1997
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