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Quanti sono i disoccupati, i precari, gli occupati a tempo parziale? Come incidono disoccupazione e precarietà sul tessuto sociale? Essere classificati come occupati vuol dire davvero avere un lavoro stabile, avere un salario sicuro e un orario di lavoro definito?
Sono tutte domande a cui le statistiche non sanno e non vogliono dare una risposta per miopia e per precise responsabilità politiche.
Anche noi, costretti a servirci dei dati addomesticati dalla pubblicistica borghese non possiamo fornire un quadro dettagliato ed esauriente di questo enorme cancro sociale e della sua reale incidenza, possiamo però, scavando dentro i numeri, cogliere alcuni utili elementi di riflessione politica.
Al gennaio 1997 sono stati rilevati 19.824.000 occupati mentre le persone in cerca di occupazione erano 2.809.000 di cui 1.082.000 disoccupati e 1.194.000 inoccupati. Il tasso di disoccupazione è così passato dal 12,2% del’96 al 12,4% del ’97, aumentando quindi dello 0,2% in termini sia tendenziali che congiunturali. Questi dati però danno un quadro parziale e distorto della realtà perché la griglia analitica utilizzata dalle statistiche, aggregando e disaggregando le vari componenti in modo arbitrario finisce per nascondere e sottostimare le profonde differenze esistenti tra le classi e nelle stesse classi sociali.
La borghesia per esempio è dispersa tra i coltivatori diretti, dirigenti aziendali, artigiani, commercianti, quadri e chi vive di rendita è classificato come “non attivo”, mentre all’opposto, occupati e disoccupati vengono incasellati in compartimenti rigidi, del tutto in contrasto con la flessibilità del tempo lavoro, dell’orario e del salario che si sta imponendo prepotentemente in questi anni nel mercato del lavoro.
L’ISTAT infatti classifica come occupati tutti coloro che hanno un legame formale con il proprio impiego e tutti coloro che al momento della rilevazione hanno dichiarato di aver svolto delle ore di lavoro nella settimana di riferimento. Se andiamo a scomporre questo grande aggregato, ci accorgiamo che su 19.824.000 cosiddetti occupati ce ne sono almeno 1.500.000 che sono ormai praticamente licenziati o a forte rischio di licenziamento (cassintegrati, lavoratori in mobilità, contratti di solidarietà), un numero sempre più elevato di lavoratori temporanei (contratti a termine, stagionali, carovanieri, interinali) e infine un consistente nucleo, anche questo in crescita, a regime di orario ridotto o fluttuante.
L’aggregato delle “persone in cerca di occupazione” comprende invece i disoccupati veri e propri (cioè coloro che hanno perduto una precedente occupazione alle dipendenze), le persone in cerca di prima occupazione e coloro che hanno compiuto concretamente, nel periodo dell’indagine, una ricerca attiva di occupazione. Vengono infine considerate come “non forze di lavoro” tutti coloro che hanno rinunciato a cercare un lavoro attraverso i metodi tradizionali e le liste di disoccupazione dell’ex ufficio di collocamento, senza prendere in considerazione quanto di questi comportamenti siano legati al combinarsi di necessità familiari, difficoltà oggettive ad entrare nelle graduatorie di disoccupazione e all’esistenza di una vasta area, in continua espansione di lavoro nero parallelo e complementare al mercato ufficiale di lavoro.
Rivedendo criticamente i dati ISTAT risulta evidente che la sfera della disoccupazione è sempre più chiaramente, caratterizzata da una molteplicità di figure sociali, una “sovrappopolazione relativa che si pone in relazioni diverse con il mercato del lavoro perché costretta ad adattarsi a impieghi sempre più precari e a regimi di sfruttamento sempre più alti.
La distinzione tra occupazione e disoccupazione diventa sempre più effimera a causa del progressivo smantellamento delle norme del mercato del lavoro e alla forte espansione delle imprese di ogni settore che utilizzano a piene mani precariato e lavoro nero.
L’incidenza del lavoro nero in particolare è in continua crescita, l’ISTAT stima in 3.500.000 i lavoratori irregolari, pari al 16% degli occupati
Nell’industria, il lavoro non regolare è particolarmente radicato nelle attività manifatturiere tradizionali come il tessile e l’abbigliamento, dove raggiunge, in termini di addetti, nel centro-nord un tasso pari al 13% contro il 42% nel Mezzogiorno e, soprattutto, nel settore delle costruzioni dove rappresenta circa il 20% dell’ industria nel Centro-nord ed oltre il 40% nel Mezzogiorno e nell’agroindustria dove lavoro nero e sottoccupazione arrivano all’85% dell’occupazione impiegata.
Disoccupazione cronica, sottoc-cupazione e povertà si intrecciano e si sovrappongono in una economia reale dove il reddito complessivo, la composizione familiare, l’area geografica il legame più o meno continuativo con il lavoro determinano la gravità delle condizioni di vita.
In Italia, sempre secondo i parzialissimi dati ISTAT, nel 1996, vivevano in condizione di povertà 2.079.000 famiglie pari al 10,3% del totale. Il numero dei poveri è un’informazione essenziale ma nulla dice sulla gravità della loro condizione. La valutazione statistica viene effettuata infatti contando le famiglie ed i relativi componenti le cui spese per consumi sono inferiori ad una determinata soglia, nota come “linea di povertà standard” che per una famiglia di due componenti il valore discriminante è pari a 1.190.273 lire correnti. Per sapere invece quanto incide la povertà si calcola un indicatore (indice di intensità) che misura di quanto in media la spesa delle famiglie povere è al di sotto della soglia di povertà. Con questo metodo, nel 1996 circa il 4,7% delle famiglie italiane risulta in uno stato di seria indigenza, con valori di consumo molto al di sotto della linea di povertà standard. In particolare, a fronte di una percentuale di famiglie povere del 4% e del 6% rispettivamente nel Settentrione e nel Centro del paese, si osserva nel Mezzogiorno una percentuale pari ad oltre il 20%.
L’incidenza della povertà è più elevata nelle famiglie numerose, per quelle dove la persona di riferimento è in cerca di occupazione (714.000) oppure è anziana di oltre 65 anni.
In questo contesto, si evidenzia il profondo divario tra gli allarmi sulla gravità del fenomeno e gli interventi reali che si traducono puntualmente in espedienti per ridurre i salari, allentare i vincoli del mercato del lavoro, aumentare la flessibilità.
Il blocco delle assunzioni pubbliche imposto dalle leggi finanziarie per esempio, ha avuto come risultato una contrazione fortissima dei nuovi ingressi a tempo indeterminato e una esplosione dei contratti temporanei: nel 1995 ottantamila persone sono entrate nel settore pubblico con contratto a tempo determinato, meno di 3.500 a tempo indeterminato.
La pubblica amministrazione inoltre dispone di 100 mila lavoratori socialmente utili, ai quali si aggiungeranno a breve i 100 mila lavori di pubblica utilità previsti dal pacchetto Treu. Sono lavoratori che non hanno contributi previdenziali, né mensilità aggiuntive e percepiscono una paga inferiore ai dipendenti pubblici. In pratica è come dire 200 mila lavoratori legalmente in nero, docili e utilizzati per sostituire carenze croniche di personale mai colmate.
Dietro i freddi numeri delle statistiche c’è un profondo disagio, una vasta area sociale costretta, peggio che nella favola di Alice a correre sempre più in fretta e con maggiore affanno per tentare di rallentare l’erosione continua delle proprie condizioni generali di vita, accettare salari sempre più bassi, dedicare sempre più tempo al lavoro (straordinari, spostamenti, lunghe file con la sola speranza di un posto di lavoro a tempo parziale per pochi mesi), consacrare la propria esistenza quotidiana all’incertezza e alla precarietà. Pazienza ci dicono, i sacrifici di oggi potranno garantirci un futuro più stabile. Peccato che abbiamo smesso di credere alle favole da tanto tempo e poi le chiacchiere non riempiono la pancia. Il futuro è sotto i nostri occhi, e non è certo edificante.
lpBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
Ottobre 1997
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