L'eccidio di Schio

Nel giugno 1945, nelle carceri di Schio vengono massacrati 53 fascisti repubblichini, "giustiziati" da un gruppo di partigiani penetrati durante la notte nel carcere dopo aver disarmato le sentinelle.

L'Unità del 12 luglio 1945 pubblicò immediatamente la denuncia della strage quale "provocazione trotzkista di un sedicente partito comunista internazionalista". Il nostro compagno Riccardo Salvador veniva indicato - dalla stessa Unità - come il principale protagonista del "sedicente partito" e diretto responsabile dell'eccidio.

La sporca faccenda, dopo l'assassinio di Fausto Atti e contemporaneamente a quello di Mario Acquaviva - portava alla luce il torbido ambiente politico e i metodi provocatori usati dal Pci contro chi si rendeva unicamente colpevole di mantenere la propria bussola politica fermamente orientata verso gli obiettivi e il programma del comunismo rivoluzionario.

Nel tentativo di fare del Partito Comunista Internazionalista il capro espiatorio della esecuzione sommaria di detenuti fascisti nel carcere di Schio, (si noti: "fascisti e agenti della Gestapo" - come venivano additati gli internazionalisti - che assassinavano altri fascisti!), il centrismo si muoveva su una strada a lui ben nota: la strada, cioè, della calunnia, della delazione, dell'assassinio.

La montatura inscenata a Schio contro gli internazionalisti, con infamanti insinuazioni e accuse, doveva servire a nascondere i veri responsabili di fronte all'opinione pubblica e alle forze militari d'occupazione; nello stesso tempo a sbarazzarsi dell'incomoda presenza di una sinistra comunista, possibile polo d'attrazione politica sul proletariato. Ma se un responsabile morale e politico doveva esserci, esso andava ricercato proprio tra chi sulle piazze si faceva paladino dell'ordine e della pacificazione nazionale.

Scrive G. Zaccaria nella sua ricerca su "200 comunisti italiani tra le vittime dello stalinismo":

Questi cosiddetti “provocatori”, autori dell'eccidio, che nel frattempo erano stati condannati a morte da un Tribunale militare alleato, espatriarono tutti in Yugoslavia, con l'appoggio del Pci, ed entrarono a far parte della polizia politica di Tito in quella che era allora la “Zona B” della Venezia Giulia. Ciò dimostra ampiamente come la tessera che avevano in tasca non fosse certo quella del Partito Comunista Internazionalista!

Inutile dire che alla nostra circostanziata contraccusa di delazione politica (nel caso di Schio) e di assassinio (nel caso di Acquaviva) il Pci rispondeva col silenzio, forte - come denunciammo - di "una impunità che gli proviene dalla presenza di Togliatti al Ministero della Giustizia. Vero è che il centrismo è passato alla storia come il virtuoso più sottile e perfido dell'assassinio politico, ma anche il più sollecito e astuto a nascondere la mano". (Battaglia comunista, n. 3 - 16 luglio 1945)

Era toccato in quell'occasione a Vito Pandolfi ("questo ex fascista divenuto per meriti mussoliniani redattore viaggiante dell'Unità") l'incarico di tessere contro un nostro compagno "una biografia falsa e canagliesca, moralmente degna di un agente dell'Ovra".

Scriveva sempre Battaglia comunista:

L'Unità è corresponsabile nella delazione di un compagno alle autorità giudiziarie italiane ed alleate. E questa bassa delazione si giustifica solo se da questo momento gli operai considerassero l'Unità - il giornale di Togliatti, ministro della Giustizia - come l'organo riconosciuto della regia questura d'Italia.
Una lettera aperta al "comunista" Pandolfi, immediatamente inviata dal nostro compagno Salvador, non vide la luce né sull'Unità né su altri giornali e fu perciò affissa in un manifesto murale a Schio e dintorni. Da notare che l'allora sindaco "comunista" di Schio espresse il suo disgusto per l'infame accusa e tentò invano una mediazione per “non rovinare la reputazione del Pci a Schio”.

L'Unità organo di delazione politica

Da Battaglia comunista n. 3

Invece di analizzare le ragioni di questo profondo e diffuso disagio che è la causa determinante degli episodi di violenza che affiorano qua e là nella penisola; invece di cercare di intendere marxisticamente le esigenze di quest'ora buia della nostra storia, ecco che l'Unità, morsa nelle carni dall'episodio di Schio, salta su tutte le furie, ha la vista annebbiata, si agita senza controllo e schizza veleno sol perché sente su di sé la responsabilità degli avvenimenti che, se sono in apparente clamoroso contrasto con la sua politica ufficiale, sono però la conseguenza della sua politica cieca e provocatoria. Oggi, quando i partigiani agiscono, sono conseguenti agli insegnamenti del centrismo, e il centrismo, esso solo, dovrà portarne le conseguenze. Sarebbe troppo comodo continuare la sobillazione subdola e insincera all'ombra del partito e delle sue formazioni militari, e definire poi insensate e criminali - per l'opinione pubblica e le forze militari di occupazione - le conseguenze materiali delle loro istigazioni.

Vero è che il centrismo è passato alla storia come il virtuoso più sottile e perfido dell'assassinio politico, ma anche il più sollecito e astuto a nascondere la mano; ma noi siamo in condizione di poter sbugiardare gli intriganti dell'Unità e di inchiodarli quando e come vogliamo a specifiche e provate responsabilità. Sia ben chiaro che il nostro Partito non si presterà mai a far da capro espiatorio alla doppiezza del centrismo. A Schio, come a Ferrara, come a Faenza, come ovunque, il metodo adoperato ha le stesse caratteristiche inconfondibili, e affonda le sue radici in quell'ambiente di ribellismo professionale riscaldato e nutrito dai CLN dei quali il centrismo è il riconosciuto artefice. Il trotzkismo non c'entra, men che meno noi internazionalisti, i soli che, in questa faccenda di partigiani, di epurazioni e di violenze possiamo vantare di avere le carte in regola.

Ma nell'affare specifico di Schio, questo è sicuro: l'Unità, per la penna di un suo maldestro bonzetto (a 15.000 lire mensili), ha lanciato l'accusa di provocazione contro un nostro compagno; ne ha fatto il nome, ne ha tessuto una biografia falsa e canagliesca, moralmente degna di un agente dell'Ovra.

L'Unità è corresponsabile nella delazione di un compagno alle autorità giudiziarie italiane e alleate. E questa bassa delazione si giustifica solo se da questo momento gli operai considerassero l'Unità, il giornale di Togliatti ministro della Giustizia, come l'organo riconosciuto della regia questura d'Italia.

Si fa luce sull'eccidio di Schio

Il compagno Riccardo Salvador, quello stesso che l'Unità del 13 u.s. accusava di aver provocato l'eccidio di Schio, aggiungendo all'accusa e alla delazione la calunnia, ci scrive questa lettera che, per noi, chiude definitivamente un'altra losca pagina della malafede centrista

Cari compagni,

Mi trovavo a Vicenza nella Camera del Lavoro, quando appresi dall'Unità che uno dei principali responsabili dell'eccidio ero io in persona. È stata così grossa la vergognosa accusa che non riuscivo a capacitarmi come questo animale che si chiama uomo, e per giunta comunista, potesse giungere fino a questo punto.

Tornato in serata a Schio, mi presentai alla Tenenza dei Carabinieri col giornale in mano, per mettermi a loro disposizione. Il maresciallo di servizio mi rispose che sul mio conto non c'era nessuna accusa e che potevo tornarmene a casa. Il mattino seguente mi presentai al governatore inglese col giornale, ripetendo quanto avevo detto ai carabinieri. Il governatore lesse attentamente l'articolo; lo tradusse in inglese, notò la dissonanza tra la prima e la seconda parte dell'articolo e poi mi chiese perché mi si accusava così apertamente. Gli spiegai che si tentava di colpire il sottoscritto non tanto per la mia persona, quanto per mettere in cattiva luce un movimento politico che per la sua intransigenza, e dirittura politica e morale, li poneva sempre più in imbarazzo di fronte al popolo italiano. E poi con l'intenzione di addossare a questo movimento un eccidio che politicamente è deplorevole. Gli feci inoltre osservare che il giornalista, per meglio giocare il colpo, mi ha calunniato sul mio passato politico e gli spiegai quanto aveva detto di falso nei miei confronti. Il governatore, finito il colloquio, mi rilasciò una lettera da consegnare a mano al cap. Baker (capo della Polizia alleata di Vicenza) il quale mi fece due o tre domande per dirmi soltanto che questa faccenda non sta a loro risolverla, ma alle autorità italiane.

Ritornato a casa, scrissi una Lettera Aperta al comunista Vito Pandolfi, che troverete qui acclusa, per farla pubblicare in qualche giornale locale, ma, visto che perdevo il mio tempo inutilmente, pensai, col permesso dello stesso governatore di Schio, di farla stampare in un manifesto per Schio e dintorni. E così ho fatto... Vi dirò che il Sindaco comunista di Schio, uno dei pochi onesti, venuto a conoscenza del manifesto, mi mandò a chiamare per dirmi il suo disgusto e pregarmi di sospendere l'affissione del manifesto, perché ne aveva mandato a mezzo dell'avvocato Vezzani (o Vezzolin, non ricordo bene) una copia all'Unità per una smentita. Perciò mi pregava, per non rovinare la reputazione del partito di Schio, di attendere qualche giorno. Mi riservai di dargli una risposta in giornata e, mentre vi scrivo queste righe, ho deciso che prima di sera lo farò affiggere. Primo, perché il fatto è avvenuto a Schio; secondo, perché la pugnalata è partita da Schio; terzo, perché a Schio sono conosciuto e non posso aspettare a mettere alla gogna dei delinquenti che non ci hanno pensato su due volte per colpirmi in una maniera così vergognosa,

Vostro Riccardo Salvador

Lettera aperta al "comunista" Vito Pandolfi

Da Battaglia comunista n. 4

Nell'articolo "Si fa luce sull'eccidio di Schio" voi avete pubblicato sul giornale Unità del 12 corrente un'accusa di provocazione da parte di un sedicente Partito Comunista Internazionalista, il cui principale propagandista dovrebbe essere un certo Salvatori.

Vi dico esplicitamente che non spendo una sola parola per difendermi da una calunnia così infame e stupida al tempo stesso. Credo che le indagini su questo eccidio non si faranno fuorviare da tale losca manovra. Voglio piuttosto mettere in luce la vostra malafede per ciò che avete scritto sul mio passato politico. Non mi chiamo Salvatori ma Salvador. Sono stato, è vero, arrestato nel maggio 1928 col compagno d'Onofrio e altri, fra i quali il compagno Prof. Girolamo Licausi. Essi possono far fede del mio atteggiamento dall'arresto fino al processo e alla condanna di anni 12 e mezzo.

Del mio contegno durante il periodo di prigionia possono deporre centinaia di compagni, e sfido chiunque a dimostrare che io abbia, come si dice nel vostro articolo, tenuto un atteggiamento pavido. So di certo, invece, che qualche vostro compagno di Schio non può dire altrettanto.

Poi, come dite voi, io sono stato in Francia e qui, collaborando a "Prometeo" davo elementi alla Polizia fascista per rintracciare i nostri compagni. Mi dispiace, signor Pandolfi, di non aver mai messo piede in Francia né prima né dopo la mia uscita dal carcere.

Quanto al "Prometeo", mi rincresce ancora di più non solo di non avervi mai potuto collaborare, ma di non esser mai riuscito ad averne uno tra le mani; poiché era noto fra i vecchi compagni comunisti (quelli cioè che credevano e che credono tuttora alla dignità politica e morale) che "Prometeo" rappresentava l'espressione più pura e più alta del nostro movimento rivoluzionario.

Egr. Sig. Pandolfi, il Proletariato italiano e con esso tutti i galantuomini, a qualsiasi ceto appartengano, e che voi intendete rappresentare nel campo del giornalismo, nonostante i 23 anni di silenzio fascista, non sono del tutto incretiniti, come vorreste voi, ma conservano ancora, per fortuna, un tantino d'intelligenza e di spirito critico per potervi giudicare, e con voi tutti i piccoli Machiavelli d'Italia.

Riccardo Salvador

N.d.R. - Il compagno Salvador ha fatto bene a rispondere per le rime. Ma non dia troppa importanza al signor Vito Pandolfi: è uno dei tanti piccoli intellettuali che si occupavano di teatro ai tempi dei Gufa, Gruppi universitari fascisti, e che il centrismo ha trasformato di colpo in... uomini politici! Pietà di loro: non sanno quel che si fanno.

Da Schio a Casale

Da Battaglia comunista n.5 - agosto 1945

È la più recente strada della provocazione e dell'assassinio politico scelta dal Pci per colpire il nostro Partito. A Schio si è inscenata una stupida e mostruosa montatura contro il compagno Salvador e il nostro Partito, che doveva preparare il terreno ad essere premessa psicologica e giustificazione preventiva d'ordine giuridico, politico e morale all'assassinio di uno dei nostri migliori: Mario Acquaviva. Intanto, per i fatti di Schio le cose sono andate in senso diametralmente opposto ai desideri dei centristi. L'esecuzione sommaria dei detenuti di quel carcere non è avvenuta né per opera di nostri compagni né per loro istigazione diretta o indiretta né per influenze morali e politiche del nostro Partito. Noi l'abbiamo immediatamente e luminosamente provato. E allora, a che cosa mirano e l'insinuazione e l'accusa lanciata dall'Unità contro un nostro compagno e in definitiva contro il nostro movimento? È semplice; serviva a sviare le indagini, a nascondere, più che gli esecutori, i mandanti, i moralmente e politicamente responsabili. Ma, a quanto pare, gli Alleati non si sono lasciati abbindolare.

La figura morale di Vito Pandolfi, questo ex-fascista divenuto per meriti...mussoliniani redattore viaggiante dell'Unità, che si è prestato a manipolazioni così ripugnanti, non ci riguarda più di quella dello squadrista fanatico o prezzolato, facente parte delle formazioni cosiddette volanti del Pci (già, quello dell'ordine e della pacificazione nazionale), che a Casale ha rivoltellato Acquaviva. Gli strumenti ciechi dell'esecuzione potrebbero interessare gli organi della polizia, se esistessero, ma al nostro Partito preme l'individuazione e l'esame di quel torbido ambiente politico su cui il delitto è stato pensato e reso possibile.

Quando il Pci - che a giusta ragione è ritenuto uno dei partiti più influenti del Governo Parri, per il noto cordone ombelicale che lo lega alla Russia staliniana, e il maneggione per eccellenza del CLN, il dominatore delle grandi masse - si preoccupa dell'attività aperta e leale di noi comunisti internazionalisti, segno è che teme in noi non tanto la forza e l'influenza attuali del nostro Partito, quanto la giustezza della sua linea politica. Il Pci vede oggi in noi non un antagonista pericoloso, ma il solo, autentico polo di attrazione politica verso cui il proletariato convoglierà via via le sue forze più sane e combattive.

Questo spiega perché il Pci non potendo battersi con noi sul terreno della lotta ideologica, abbia scelto il terreno assai più facile della calunnia, della delazione e dell'assassinio.

Saggezza politica vuole che non si accetti a cuor leggero il terreno di lotta offerto dall'avversario e sul quale esso è incontestabilmente maestro. Oggi il nostro Partito ha scelto come risposta il terreno politico, costringendo il Pci a rispondere...col silenzio, che è quanto dire a incassare l'accusa circostanziata di delazione e di assassinio lanciatagli di fronte al proletariato, facendosi scudo di una impunità che proviene dalla presenza di Togliatti al Ministero della Giustizia. E domani... si vedrà, possibilmente al lune di migliorati rapporti di forza.

A vent'anni di distanza dal delitto, e in clima politico diverso, è possibile oggi il processo contro gli assassini di Matteotti; a quando quello contro l'assassinio di Mario Acquaviva?

Lo scontro degli internazionalisti con lo stalinismo, e le sue vittime

Le persecuzioni e gli omicidi politici subiti dai comunisti internazionalisti: dall’assassinio di M. Acquaviva e F. Atti ai fatti di Schio e al processo di San Polo, le forze controrivoluzionarie del capitale e le armi dei sicari di Stalin contro i comunisti rivoluzionari.

Ricordando le figure di Mario Acquaviva e di Fausto Atti, additiamo il loro sacrificio eroico ai giovani proletari perché traggano da un così fulgido esempio ammonimenti e sprone per le dure battaglie che li attendono.

L'archivista di partito
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