Euro - Sogno borghese e incubo proletario

Ormai è deciso, dal primo gennaio del prossimo anno, undici, degli attuali 15 paesi che compongono la Comunità economia europea, avranno una moneta comune. Comprendendo, tranne la Gran Bretagna, tutti i maggiori paesi industrializzati dell’Europa Occidentale, l’area dell’euro sarà, per numero di abitanti (300 milioni) la più grande area monetaria del mondo e, almeno per quel che riguarda la sua apertura al commercio estero, equipotente a quella del dollaro e maggiore di quella dello ien. Poiché la nuova moneta costituisce il presupposto per la trasformazione della vecchia Cee in un’area continentale integrata sia sul piano macroeconomico che politico-strategico, la nascita dell’euro è un evento destinato a imprimere una nuova grande svolta alla storia di questa fine del secolo sia per quanto riguarda il destino dei singoli Stati aderenti che per quello dell’attuale assetto degli equilibri interimperialistici.

Con la nascita della moneta unica, gli stati aderenti, non saranno più quelli di prima visto che il vecchio stato-nazione dovrà lasciare non poche delle sue prerogative alle nuove istituzioni monetarie. Il controllo dei parametri macroeconomici passerà, infatti, alla costituenda Banca Europea che per statuto godrà della più completa autonomia e avrà come compito quello di garantire la stabilità della nuova valuta. Pertanto già dal prossimo anno, gli Stati nazionali perderanno la gestione della massa monetaria e tutte le loro competenze nella determinazione dei parametri macroeconomici a essa relativi.

Con ciò essi, contrariamente a quanto affermano i teorici della globalizzazione, non cesseranno di esistere, ma in essi anche quel misero diritto - come diceva Marx - “di decidere ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel parlamento”, ne uscirà ulteriormente svuotato. Nel chiuso delle loro stanze solo i sacerdoti della nuova moneta potranno, senza rendere conto ad alcuno, in relazione alle esigenze di valorizzazione del capitale, orientare i flussi della ricchezza prodotta e la sua redistribuzione.

Si profila, insomma, uno stato articolato su due livelli, uno continentale, sottratto a ogni controllo che non sia quello esercitato, attraverso il mercato, dai grandi centri del potere economico e finanziario, e uno nazionale cui spetterà di imporre con ogni mezzo il rispetto delle decisioni assunte a livello sovranazionale. Il re non è mai stato così nudo! Il carattere dittatoriale e la natura classista dello Stato, sempre negati dal pensiero politico borghese, ora vengono sfacciatamente alla ribalta.

D’altra parte, la borghesia europea non aveva e non ha alternative. La una nuova moneta non è il prodotto di una sua scelta culturale o chissà di quale vocazione europeista e cosmopolita, ma è figlia delle contraddizioni del processo di accumulazione capitalistica in chiara fase discendente da quasi trent’anni.

In questa fase, domina chi ha maggiore potere finanziario; chi disponendo del controllo di una grande massa di capitale finanziario può appropriarsi, attraverso la rendita finanziaria, di importanti quote del plusvalore prodotto su scala planetaria. Oggi questo dominio è tutto di marca statunitense. Poiché il dollaro è valuta di riserva e mezzo di pagamento internazionalmente riconosciuto, gli Stati Uniti godono del formidabile privilegio di poter acquistare merci e servizi sul mercato mondiale con moneta di cui una parte soltanto sarà riutilizzata per acquistare merci e servizi statunitensi mentre l’altra continuerà a circolare come mezzo di pagamento internazionale. Di fatto, é come se gli Usa pagassero una parte delle merci e dei servizi importati dall’estero con assegni bancari che nessuno presenterà mai allo sportello per l’incasso. Secondo l’economista John Nueller, l’America grazie a ciò, ha potuto disporre in media di circa 500 miliardi di dollari in più rispetto a quelli incassati con le imposte. Se poi si aggiunge che questa massa di moneta funge anche da base di partenza per la produzione di gran parte del capitale fittizio che si aggira sui mercati mobiliari internazionali alla ricerca di altre quote di plusvalore, ci si rende conto che il termine privilegio non esprime appieno la posizione di comando che da esso deriva. È evidente che in un’economia di questo tipo non vi è alternativa tra l’essere sudditi o sovrani.

L’euro si è quindi imposto alla borghesia europea come una necessità vitale. Di fronte a questo imperativo era ovvio che la retorica democraticistica si sciogliesse come neve al sole e con essa tutte le fole del riformismo storico e di quello stalinista sulla possibile progressiva democratizzazione dell’economia e dello Stato.

I politici, gli intellettuali e gli economisti borghesi italiani, ebbri del traguardo raggiunto, danno a intendere che una volta che anche il debito pubblico sarà rientrato nei parametri di Maastricht (60 % del PNL) un nuovo Eldorado si presenterà dinanzi all’economia europea e finalmente tutti i guai nazionali e del vecchio continente si dissolveranno in una nuova fase di sviluppo. Il presidente del consiglio, Prodi, è andato ancora più in là ipotizzando sin d’ora un settennato di vacche grasse. Ma se le cose stanno come abbiamo visto prima, la previsione potrà risultare vera solo per i profitti e la rendita finanziaria.

L’Euro, infatti, potrà affermarsi solo in contrapposizione al dollaro e, in misura minore, allo ien. Per questa ragione, è ovvio che l’area economica che lo esprime non potrà prescindere dalle condizioni - diciamo così - operative dell’area concorrente. E l’area del dollaro non è quel che si dice un paradiso per i lavoratori. Da quando, a partire dai primi anni ‘80, nel processo di accumulazione è prevalsa l’appropriazione di plusvalore mediante l’espansione della rendita finanziaria ( vedi Prometeo n 14), per i lavoratori è andata sempre peggio. Se non fosse che la statistica può essere stiracchiata da una parte o dall’altra a seconda delle convenienze di chi se ne serve, negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione reale risulterebbe tra il 14 il 15 per cento superando quello medio europeo di qualche punto, come abbiamo più volte già ampiamente documentato. Nel 1997, i salari di chi è rimasto occupato risultavano agli stessi livelli del 1973 mentre i cosiddetti nuovi lavori, essendo quasi tutti a stipendi e salari molto bassi e non protetti da contratto collettivo, non daranno mai il diritto a una pensione e sono privi di copertura sanitaria tanto che se uno di questi lavoratori o qualcuno dei loro familiari, si dovesse ammalare rischia la rovina economica o la morte per mancanza di cure. Per i ricchi invece le cose cambiano radicalmente. Nel corso degli anni ottanta e novanta, sono diventati sempre più ricchi tanto che ormai l’83 per cento della ricchezza nazionale complessiva è posseduto dal 20 per cento delle fasce sociali superiori e il restante venti dall’80 per cento della popolazione. Se invece si prende in considerazione la sola ricchezza finanziaria essa risulta per il 92,3 per cento posseduta dal venti per cento superiore e per il 7,7 dal restante ottanta per cento della popolazione.

Se questa è la situazione che si è prodotta negli Stati Uniti non vi è ragione di supporre che quel modello, una volta generalizzatosi anche in Europa, dia frutti diversi. Anzi è facile prevedere che l’entrata in scena dell’euro, scatenando una più accentuata concorrenza fra Europa, Stati Uniti e Giappone, darà un’ulteriore spinta ai processi di polarizzazione della ricchezza e di svalutazione permanente del valore della forza-lavoro.

La verità è che un’epoca si è chiusa. Si è chiusa per sempre la fase del lavoro stabile e del Welfare State che aveva dato l’illusione che il capitalismo potesse, per via riformista, essere trasformato nel migliore dei mondi possibili; se ne è aperta un’altra in cui la lotta per il domino del mondo comporterà la costante riduzione del valore della forza-lavoro e spingerà un numero crescente di uomini nella precarietà e nella miseria esattamente come aveva previsto il marxismo rivoluzionario.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.