L’Indonesia è il mondo

Gli intellettuali e gli osservatori borghesi parlano della crisi indonesiana come di un episodio locale invece...

La crisi Indonesiana, con il suo corollario di morti e feriti, è stata considerata dalla maggioranza degli osservatori, e in particolar modo dagli economisti, come un prodotto delle specifiche contraddizioni del modello di sviluppo asiatico. Con particolare puntiglio critico, rammentano i bagni di sangue in cui sono stati affogati milioni di proletari, l’incredibile corruzione che permea ogni fibra di quelle società e anche la vacuità di uno sviluppo che in molti casi sta mostrandosi più apparente che reale visto che poggia su attività in gran parte legate alla produzione di capitale fittizio e quindi alla speculazione.

La critica è talmente spregiudicata da risultare agli occhi dei più, e sicuramente a quelli dell’osservatore comune, sufficientemente convincente tanto appaiono vistose le differenze tra quel mondo e quello di casa nostra. Ma questa rappresentazione, al di là delle apparenze, è falsa. Soltanto fino a ieri, infatti, si esaltavano le tigri asiatiche come il prodotto migliore dei processi di globalizzazione dell’economia mentre oggi si tenta di accreditare l’ipotesi che tra questi e la crisi asiatica non vi sia alcuna relazione, anzi essa sarebbe il frutto del mancato rispetto dei precetti dettati dal pensiero economico dominante e che avrebbe impedito alla globalizzazione di sprigionare tutte le sue benefiche forze. Insomma, secondo gli osservatori borghesi, mentre ieri il merito del successo era da attribuire alle virtù miracolose del libero mercato, gli odierni fallimenti sono da attribuire alle limitazioni che quella medesima globalizzazione avrebbe incontrato; come se l’impero della famiglia Suharto, tutto basato sul controllo dei maggiori gruppi monopolistici indonesiani, fosse spuntato dalla sera alla mattina come un fungo dopo una copiosa pioggia e non si fosse avvalso dei capitali messi a disposizione proprio grazie ai processi di mondializzazione capitalistica.

In realtà, le esplosioni sociali indonesiane e il malessere di tutto l’Est asiatico, sono le prime avvisaglie della più grande crisi dell’economia mondiale di questo secondo dopoguerra e alla cui determinazione i fattori specifici di questa o quella realtà contribuiscono solo in minima parte. Per esempio, che si dice che una delle cause della crisi indonesiana sia la grande concentrazione della ricchezza nelle mani della famiglia di Suharto che avrebbe impedito lo sviluppo del mercato interno; ora, l’impero della famiglia del dittatore indonesiano è valutato pari a circa trentamila miliardi di lire che è sicuramente una bella sommetta; ma che non costituisce per nulla un’eccezione nel panorama dell’economia mondiale visto che la concentrazione della ricchezza in poche mani è la regola su scala planetaria. Scrive, al riguardo, Ignacio Ramonet su Le Monde Diplomatique del maggio scorso: “Negli Stati Uniti l’1% della popolazione possiede il 39% della ricchezza del paese. E su scala planetaria il patrimonio delle 358 persone più ricche (miliardarie in dollari) è superiore al reddito annuo del 45% degli abitanti più poveri, vale a dire 2,6 miliardi di persone..”.

La provincia indonesiana e l’intero Sud Est asiatico che ora si vorrebbero confinati su un pianeta appena conosciuto, sono parte integrante di quel grande casinò che è divenuta l’economia mondiale e lo stesso sviluppo di cui quest’area ha beneficiato negli ultimi venti anni è stato generato proprio dal movimento di quella massa di capitale finanziario (che oggi ammonta a circa 1.500 miliardi di dollari), che a partire dai primi anni ‘80 si aggira liberamente sul mercato mondiale alla ricerca di extra-profitto. L’Indonesia, come si rileva in altra parte di questo stesso numero di BC, è stato, fra le cosiddette tigri asiatiche, uno dei paesi più attivi nell’adeguarsi alle esigenze del grande capitale finanziario internazionale attraendolo con alti tassi di interesse e l’ancoraggio del tasso di cambio della sua moneta al dollaro. Il grande capitale finanziario, cioè, è stato attratto dai mercati asiatici solo perché lì erano garantite meglio le sue esigenze di liquidità (la liquidità è una condizione indispensabile per lo svolgimento di attività speculative) e alti rendimenti. Ma il fatto è che soltanto l’1 per cento delle transazioni poste in essere dai 1.500 miliardi di dollari che circolano sul mercato finanziario internazionale, è finalizzato alla creazione di nuove ricchezza; mentre - come scrive ancora I. Ramonet - “ il resto è di natura speculativa”. A causa di ciò anche gli investimenti esteri in Indonesia non hanno dato luogo tanto allo sviluppo di un sistema produttivo efficiente e competitivo, quanto all’esasperazione dello sfruttamento del proletariato interno costretto a subire condizioni di esistenza di manchesteriana memoria. Solo grazie a queste forme estreme di supersfruttamento infatti è stato possibile incrementare le esportazioni costituite in gran parte da merci a scarso valore aggiunto, con cui sono stati fronteggiati gli oneri di servizio del debito estero. Finché lo yen ha mantenuto quotazioni elevate rispetto al dollaro, la debolezza strutturale dell’economia indonesiana, come degli altri paesi limitrofi, è stata agevolmente compensata dal basso costo del lavoro, ma appena lo yen si è svalutato il divario di competitività tra l’industria del sol levante e delle tigri si è imposto determinando un crollo verticale delle esportazioni di queste ultime e con esse anche del sistema di finanziamento del debito.

La contraddizione fondamentale che alimenta questo meccanismo che genera supersfruttamento e miseria generalizzata è data dunque dal fatto che masse crescenti di capitale finanziario evitano la loro trasformazione in capitale industriale dando vita a un processo di accumulazione in cui è prevalente l’appropriazione di plusvalore mediante la speculazione finanziaria. La globalizzazione dei mercati voluta dai grandi centri del potere finanziario, e resa possibile dalla rivoluzione delle telecomunicazioni, facendo di ogni mercato un segmento del mercato mondiale ha inserito ogni paese, indipendentemente dal suo grado di sviluppo, nel processo generale di formazione della rendita per cui indipendentemente dal paese in cui le crisi esplodono esse sono sempre riconducibili alla più generale crisi del capitalismo tant’è che tendono a interessare di volta in volta aree sempre più grandi e a estendersi su scala planetaria. L’attuale crisi, per esempio, ha già superato i confini del continente asiatico e ora minaccia di allargarsi a macchia d’olio come finora raramente era accaduto. Nella crisi è già pienamente coinvolta la Russia, seppure in misura minore, la Cina, e il Giappone. Ma poiché dire Giappone significa dire Stati Uniti tante sono le interconnessioni finanziarie ed economiche che legano i due paesi, la crisi praticamente interessa l’intera economia mondiale. Basti pensare che il Giappone è il maggiore sottoscrittore del debito pubblico americano per capire a che cosa condurrebbe un suo eventuale ma non improbabile cedimento.

La preoccupazione degli economisti e degli osservatori borghesi di descrivere l’attuale crisi come un episodio interno alla solo area asiatica, appare, quindi del tutto giustificata.

Sta emergendo infatti con sempre maggiore chiarezza che, da un lato, la globalizzazione è una gigantesca bufala con cui la borghesia internazionale ha imbellettato l’incredibile accelerazione che è stata impressa allo sfruttamento del lavoro e, dall’altro, che la mondializzazione del capitale ( come è più esatto dire) ha raggiunto un tale espansione da dare al proletario mondiale un comune denominatore tanto che a spingere gli operai indonesiani ad assaltare i supermercati e i minatori russi a occupare le ferrovie, sono le stesse identiche ragioni che spingono i disoccupati napoletani alla guerriglia urbana e i lavoratori americani di Mc Donald a scioperare per intere settimane.

Centocinquanta anni fa Marx ed Engels, lanciando dalle pagine del Manifesto la parola d’ordine Proletari di tutti il mondo Unitevi! non avrebbero mai immaginato che un giorno il capitalismo avrebbe creato condizioni così favorevoli al suo sviluppo. L’incredibile è che ad accorgersene sono solo sparute avanguardie mentre anche chi a ogni piè sospinto si riempie la bocca di internazionalismo, continua a vivere esclusivamente del proprio passato.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.