Bertinotti e la crisi di Rifondazione

L’opposizione

Indipendentemente da come andranno sviluppandosi per modi e tempi le difficoltà di governo e lo scontro all’interno di Rifondazione comunista, resta da chiarire l’atteggiamento di Bertinotti e di quella parte di Rifondazione che alla sua linea politica si riferisce. I rimasugli del riformismo italiano hanno tatticamente intrapreso due strade diverse.

Uno, per intenderci il Pds, dopo aver fatte proprie le necessità del capitalismo in quanto unica forma economica possibile, è sceso sul terreno della reazione-conservazione ponendosi quale strumento di riordino del rapporto tra capitale e forza lavoro. È entrato a pieno titolo all’interno del primo governo di centro sinistra, ha fatto e continua a fare il “lavoro sporco” che di solito hanno sempre fatto le destre, cioè quello di scaricare sul proletariato tutte le politiche dei sacrifici quale condizione indispensabile per la salvezza e la perpetrazione di un sistema economico che si basa sullo sfruttamento, con la promessa di una seconda fase più favorevole ai lavoratori, che non solo viene continuamente rimandata, ma che non vedrà mai la luce.

L’altro, Rifondazione con tutte le sue anime, che si propone come unica alternativa possibile allo stato attuale delle cose continuando vergognosamente a fregiarsi dell’aggettivo comunista, che dovrebbe attestarsi sul terreno della opposizione in difesa degli interessi di classe. Beninteso una opposizione riformistica, all’interno del sistema, non antagonista ed eversiva. Bertinotti è da sempre un riformista e da lui non si può pretendere un comportamento diverso dai suoi stereotipi politici. Non è dunque su questo terreno che faremo la nostra critica, peraltro facile e scontata, ma sul suo preferito, quello della opposizione al sistema all’interno del sistema stesso. Una volta tanto non lo accuseremo di essere un socialdemocratico e riformista, un controrivoluzionario che spudoratamente si fregia di essere comunista, ma di non essere conseguente nemmeno quando dice di fare della opposizione coerente sino alle estreme conseguenze.

A prima vista la linea su cui si è mosso appare conseguente. In sintesi la logica del discorso è questa. Nostro malgrado, nei due anni e mezzo di vita del governo Prodi, abbiamo dovuto far ingoiare dei rospi alla classe operaia ( e che rospi). Questo si è reso necessario per consentire alla economia italiana di far parte dell’Euro altrimenti non ci sarebbero stati spazi politici ed economici per nessuno, nemmeno per il mondo del lavoro, ma una volta raggiunto l’obiettivo, sulla scorta peraltro di un aumento della ricchezza prodotta e di un aumento della produttività, lo stesso governo Prodi avrebbe dovuto dare segnali di inversione di tendenza in materia di occupazione e di stato sociale, cioè mostrare di andare incontro alle classi subalterne, così lui le chiama, che tanto hanno sofferto e pagato. Ma quest’ultima finanziaria non ha dato un segnale forte e chiaro, da qui il ritiro dell’appoggio a Prodi e la conseguente possibile crisi di governo.

E va bene (si fa per dire), ma la prima cosa che salta agli occhi è che quella necessità a cui Rifondazione si è inchinata chiamando ai sacrifici milioni di lavoratori era tale solo per Agnelli, Cuccia e soci. I lavoratori italiani, al pari di quelli europei hanno dovuto ingoiare rospi giganteschi non nella prospettiva di ricavarne qualche vantaggio futuro, sebbene in termini capitalistici, ma con l’unico obiettivo di consentire ai rispettivi grandi capitali finanziari e ad investimento di poter continuare a giocare un ruolo egemone, e con la sola prospettiva di pagare altre finanziarie e di fare altri sacrifici, tra cui quello della disoccupazione, per consentire loro di restare competitivi in casa e in Europa. Come al solito non era una una tantum ma una semper.

A parte l’episodio Euro, che nel quadro generale della politica di Rifondazione rimane un dettaglio, è il concetto di opposizione che si diluisce sino a scomparire. Come abbiamo detto in precedenza non è nel significato di opposizione di classe, rivoluzionaria e anti sistema che viene criticato il partito di Bertinotti, ma quello riformistico a lui tanto caro.

Fare dell’opposizione in difesa degli interessi di classe, pur all’interno del quadro politico ed istituzionale dato, avrebbe significato innanzitutto scindere le responsabilità dal governo Prodi, come da qualunque altro governo, il cui obiettivo dichiarato era quello di attaccare su tutti i fronti il mondo del lavoro. A nulla vale la giustificazione che a tanto si è stati costretti pur di non lasciare il potere in mano alle destre, quando il governo appoggiato ha fatto quello, se non di più, che le stesse destre avrebbero fatto, con l’unica differenza che con l’appoggio di Rifondazione tutto sarebbe passato, come è passato, senza l’ombra di una opposizione di classe. Creare adesso le condizioni di una crisi di governo altro non significa che rischiare di dare il potere alle destre dopo che il grosso del “lavoro sporco” è già stato fatto con buona pace di milioni di disoccupati e sotto occupati, della nascita di contratti vessatori e con l’introduzione della più selvaggia mobilità che sta trasformando l’occupazione in una sorta di stabile precariato.

Fare opposizione avrebbe dovuto significare, se non altro, porre un argine alla crescente espulsione di forza lavoro dalle fabbriche, e non invocare politiche occupazionali dopo che il fenomeno disoccupazione si è drammaticamente prodotto in termini di numero e di disagio sociale. Del pari non si può predicare la necessità della parziale reintroduzione dello stato sociale quando si è assistito pressoché immobili al suo smantellamento. Non è sufficiente invocare una più equa politica dei tikets o del diritto allo studio quando si è lasciato passare il completamento della riforma pensionistica e la logica dei tagli alla sanità e alla spesa pubblica.

Ben inteso, nessuno avrebbe potuto bloccare un processo di questo genere se non un proletariato che avesse dissotterrato l’ascia della guerra di classe, ma non ci si può definire paladini della difesa degli interessi dei lavoratori nel momento in cui, non solo non si mobilita la piazza per tentare di contenere l’attacco del capitale, ma si scende sul terreno della corresponsabilità di un governo che, oltre ad aver smantellato lo stato sociale, ha messo in atto una selva di leggi e norme che hanno avuto il compito di consegnare al capitale una forza lavoro senza più diritti e prospettive.

In soli due anni, gli ultimi, quelli del governo Prodi con l’appoggio esterno di Rifondazione, al proletariato italiano sono piovuti addosso oltre mezzo milioni di disoccupati. Si è varata la legge sul lavoro interinale, sui patti territoriali e i contratti d’area. La flessibilità in entrata è diventata una drammatica prassi e si sono create tutte le premesse perché in prospettiva ci sia anche quella in uscita. Contratti da fame, una riduzione dei salari pari al 30% nei recenti insediamenti del Mezzogiorno, e sino al 60% nelle prospettive future secondo le progettate politiche anti disoccupazione per i giovani al sud.

Ovviamente tutto ciò non è attribuibile a Rifondazione ma altrettanto ovviamente non si può sottacere sulle sue corresponsabilità nell’aver consentito che ciò avvenisse senza organizzare un minimo di resistenza sul terreno di classe limitandosi, al massimo, ad inveire in chiave pauperistica sulle disparità e sulle ingiustizie sociali. Un esempio significativo di questo atteggiamento lo si ricava da una sua recente dichiarazione in una trasmissione televisiva. Il contenzioso con l’ex alleato Marini riguardava il comportamento del governo che avrebbe avuto più attenzione nei confronti delle imprese che dei lavoratori. Un caso su tutti la Fiat e la rottamazione, mentre nella finanziaria vengono elargite solo le briciole alle classi subalterne. Quello che Bertinotti sosteneva era che si può e si deve dare al capitale tutto ciò di cui ha bisogno ( politiche dei sacrifici e finanziamenti agevolati), metterlo nelle migliori condizioni possibili sul mercato interno (rottamazione) ma con la prospettiva di procedere successivamente con una adeguata politica per una occupazione stabile e duratura. Ma come è possibile sostenere simili tesi quando:

  1. Non si è lottato contro i licenziamenti nel momento in cui il sistema economico li ha prodotti.
  2. In termini capitalistici occupazione significa sviluppo economico e a sua volta lo sviluppo economico, nella fase attuale del capitalismo, significa contratti a termine, flessibilità, bassi salari e precarietà del posto di lavoro.
  3. Si è contribuito al varo di tutte le norme che oggi regolano la precarietà e la flessibilità che sono l’esatto contrario della durata e della stabilità del posto di lavoro.

Il problema vero, non sono le contorsioni e i grandi rifiuti di Bertinotti che tanta meraviglia hanno destato nei suoi alleati borghesi e all’interno delle stessa Rifondazione, quanto il terreno riformistico sul quale pensa di poter procedere. Mai come oggi il riformismo è destinato a fallire non solo in termini prospettici ma anche per gli obiettivi a breve scadenza.

Bertinotti pensa di avere di fronte un capitalismo come quello degli anni 50 e 60, espansivo e ricco di alti saggi del profitto. Oggi le cose sono cambiate, il capitalismo è molto più travagliato da problemi di valorizzazione e ha saggi del profitto sempre più bassi. Il che ha da un lato ristretto i margini per le azioni rivendicative, mentre dall’altro sta enormemente dilatando le necessità di attacco del capitale nei confronti della forza lavoro. Se Bertinotti queste cose le sa, allora è in mala fede, se non le sa è bene che smetta i panni del comunista e di illudere quelle masse operaie che ancora credono nelle sue favole.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.