Il vertice di Wye Mills

C’è chi sostiene che i recenti accordi tra Netanjahu e Arafath siano il frutto delle attività sessuali del presidente americano. Ovvero che lo scandalo del sex gate di cui Clinton è stato protagonista e vittima, abbia imposto un meccanismo di recupero di immagine e di credibilità sia all’interno della opinione pubblica americana che di quella internazionale. In un simile contesto un successo diplomatico nella tormentata terra di Palestina sarebbe stato quanto di più augurabile per la traballante immagine del più potente dei presidenti.

La tesi è intrigante e per certi versi di basso profilo azzeccata ma affrontare i risvolti, anche se soltanto diplomatici, di una questione come quella palestinese relegandola a conseguenza di un pettegolezzo internazionale è certamente riduttivo e un poco stupido. È indubbio che nella economia personale del presidente fosse presente la preoccupazione di recuperare la propria immagine, ma è altrettanto evidente che nella più importante economia della amministrazione democratica un forte successo diplomatico avrebbe rilanciato il bilancio di otto anni di gestione del potere, avrebbe riaperto i giochi per le future elezioni presidenziali e, non ultimo, sarebbe servito di monito agli alleati occidentali perché accettassero con rassegnazione che tutti i processi di guerra come le soluzioni di pace vedono e vedranno gli Usa quali unici artefici indipendentemente dalle vicende personali del presidente di turno. E sempre sotto questo profilo, essere riusciti a mettere attorno a un tavolo i due acerrimi nemici dopo due anni di interruzione delle trattative è di doppia rilevanza se si tiene conto del fatto che l’opposizione repubblicana ha sempre considerato una vittoria di Pirro il successo diplomatico di Clinton degli accordi di Washington dell’ormai lontano settembre “93”. La critica peraltro fondata era basata sul fatto che quell’accordo, storico più per le forme che per i contenuti, invece che creare le premesse per un processo di pace secondo i progetti e le esigenze di dominio americani, aveva esasperato gli animi degli oltranzisti, aumentato la tensione sino ad ottenere i risultati opposti alle aspettative. Con il vertice di Wye Mills l’amministrazione Clinton voleva rimettere le cose a posto tappando la bocca agli avversari politici. In realtà l’accordo è stato una farsa con la consueta tragica coda di attentati che hanno prestato il fianco, per l’ennesima volta, al governo Netanjahu di non firmare per il momento nemmeno questo ultimo compromesso.

Secondo gli accordi raggiunti ma non sottoscritti dopo l’attentato al mercato di Gerusalemme, le truppe israeliane si sarebbero ritirate entro novanta giorni dal 13,1% dei territori della Cisgiordania . In una seconda fase il 14,2% dei territori occupati, amministrata dai Palestinesi ma sotto la gestione militare israeliana, dovrebbe passare sotto il totale controllo di Arafath. Israele si impegnerebbe a liberare 750 prigionieri palestinesi, 250 al mese, con la prospettiva di un ulteriore ritiro delle truppe da tutta la Cisgiordania. In cambio il Consiglio nazionale palestinese dovrebbe abrogare definitivamente la clausola del suo statuto nella quale si fa riferimento alla distruzione dello stato di Israele quale obiettivo della guerra di liberazione nazionale. Si dovrebbe impegnare a combattere il terrorismo per rendere sicuri i confini di Israele e della sua popolazione. Nulla di nuovo. Tutti questi punti erano già presenti negli accordi di Washington i quali, oltretutto, prevedevano che entro cinque anni, ovvero entro il 1998, avvenisse la restituzione di tutti i territori e che il processo di autonomia amministrativa palestinese venisse completato.

Se ciò non è avvenuto è perché il governo Netanjahu non ha smobilitato le truppe dai territori per tempo, non ha rinunciato alla politica degli insediamenti, ha ulteriormente esasperato la tensione di Hamas che già era ferocemente contraria agli accordi ritenendoli una sorta di svendita della questione palestinese. Ha così incentivato il terrorismo e del il terrorismo ha usufruito per giustificare il non rispetto degli accordi di Washington. Ma il solito gioco di Israele, è dal giugno “68” che sistematicamente Tel Aviv ha disatteso tutte le risoluzioni Onu. La 242, la 338, gli accordi di Camp David che a diverso titolo le imponevano la restituzione dei territori con il bene placito di Washington, questa volta non ha trovato spazio alla Casa bianca. La ragione è la stessa che ha imposto a suo tempo gli accordi di Washington, il petrolio.

Subito dopo la chiusura della guerra del Golfo, con la quale gli Usa hanno definitivamente chiuso a loro vantaggio il problema del controllo e della gestione del petrolio medio orientale stabilendo una serie di alleanze che vanno dall’Egitto alla Giordania, dall’Arabia Saudita al Kuwait, due erano i problemi che dovevano essere risolti: quello dell’integralismo islamico, nazionalista anti occidentale e anti americano per definizione e la questione Israelo palestinese. Il pericolo della seconda risiedeva non tanto nella atavica conflittualità, che lo stesso imperialismo americano aveva contribuito a far nascere, ma nel rischio che il conflitto, prolungandosi senza possibilità di mediazioni, potesse uscire dai confini geografici e politici dei territori palestinesi, contaminare le popolazioni dell’area e mettere in forse la rete di alleanze legate alla gestione del petrolio faticosamente tessute nell’ultimo decennio, guerra del Golfo compresa. Non a caso, chiusasi la guerra del Golfo il governo americano ha iniziato con quella di Madrid una serie di conferenze di pace sul Medio Oriente che si sono concluse con gli accordi di Washington. Sia Bush che Clinton non potevano e non possono tollerare che le paure e le preoccupazioni territoriali dello storico alleato Israele interferiscano in qualche modo interferire sui progetti macro imperialistici dei vari governi americani. Con le buone o con le cattive sia Shamir che Rabin, Netanjahu e Sharon hanno dovuto inchinarsi alle pressioni americane. La pax americana non può ammettere deroghe anche se le conseguenze che produce all’interno dei due schieramenti oltranzisti, Hamas e Coloni, non lasciano molto spazio alla mediazione. Non sono quindi le conseguenze delle attività sessuali del Presidente americano che fanno ruotare le vicende nel Medio Oriente, ma il petrolio, il ruolo di grande potenza, di gendarme del mondo. Sono gli interessi economici e strategici che dettano le condizioni in quell’area come in quella petrolifera del mar Caspio.

Come le trame nel Kosovo, per imporre le necessità dell’estensione della Nato nei paesi dell’ex est europeo, o gli attriti con l’Europa in materia di scambi commerciali e sul rispetto degli embarghi voluti e imposti da Washington ( Iran e Libia su tutti) non tanto per punire i presunti nemici quanto per non concedere ai partner occidentali un facile, quanto autonomo accesso, alla più strategica delle materie prime. Il resto e una squallida questione di corna e di lotte scandalistiche tra il partito democratico e quello repubblicano in chiave elettoralistica e di conquista del potere.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.