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Home ›Ed è ancora guerra - Afganistan
Dopo l'Iraq e la Jugoslavia ora tocca a Kabul subire gli attacchi Usa e del loro alleato britannico
Secondo la propaganda della borghesia, questa è la guerra per la "libertà duratura". Ma nel castello di bugie costruito per coprire il suo carattere inequivocabilmente imperialista probabilmente una sola cosa è vera ed è che essa è destinata a durare a lungo e a svolgersi su più teatri.
Benché ufficialmente il nemico sia il regime talebano di Kabul e il saudita Bin Laden, un vecchio compagno di merende della famiglia Bush, a lungo finanziato dalla Cia contro i russi come a suo tempo lo fu Saddam Hussein contro l'Iran, in realtà lo scenario che si intravede è molto più ampio. Le sue radici, infatti, affondano in quella crisi del ciclo di accumulazione capitalistica in cui il sistema, fra alti e bassi, si dimena da circa trent'anni senza che ne sia venuto mai veramente a capo.
Tutti i grandi mutamenti che vanno sotto l'impreciso e generico termine di "globalizzazione", così come quelli delle politiche economiche e monetarie perseguite a partire dai primi anni Ottanta, sono riconducibili ad essa. In particolare è un suo prodotto la crescita esponenziale della sfera finanziaria quale strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore, per la compensazione dei saggi del profitto industriali divenuti nel corso del tempo sempre più esigui soprattutto nei paesi tecnologicamente più avanzati.
Gli Stati Uniti, per fronteggiarla, quando è risultato evidente che sul terreno industriale non disponevano più del primato incontrastato, hanno avviato un gigantesco processo di ristrutturazione che facendo leva sul loro potente apparato militare e sul fatto che il dollaro era, ed è tuttora, anche il più diffuso mezzo di pagamento internazionale, da un lato hanno impresso una fortissima accelerazione ai processi di unificazione dei mercati finanziari su scala internazionale e, dall'altro, hanno rafforzato il controllo sulle fonti di produzione e sul mercato del petrolio. Ne è derivato così un ampliamento della sfera di circolazione del dollaro nonostante che, gli Usa, un tempo maggiori esportatori di merci e di capitali, siano divenuti nel frattempo importatori netti. Oggi non c'è goccia di petrolio al mondo che prima di essere trasformata in uno degli innumerevoli prodotti della sua raffinazione, non implichi un passaggio mediato dalla moneta statunitense e quindi un qualche guadagno per il grande capitale finanziario espresso in dollari e per la borghesia americana in primo luogo. Tradotto in cifre tutto ciò - secondo i calcoli di alcuni economisti - significa una rendita finanziaria che supera i 500 miliardi di dollari all'anno; una vera e propria tangente che grava sull'economia mondiale in ragione direttamente proporzionale al grado di dipendenza dal dollaro di ogni specifica realtà. Nonostante ciò e gli abbaglianti successi della finanza e della cosiddetta new economy, la crisi che gli economisti borghesi ritenevano appartenesse ormai alla preistoria del capitalismo, è tornata invece prepotentemente alla ribalta; peraltro proprio quando sta per uscire dalla sua lunga fase di gestazione l'euro, la moneta unica europea progettata proprio per eliminare il dollaro almeno nella regolazione dell'interscambio interno alla Ue e comunque per ridurne l'utilizzazione al minimo indispensabile. Ma la nuova moneta pur non essendo ancora entrata in circolazione ha già travalicato i confini europei; viene inserita nei forzieri delle banche centrale fra le riserve di valuta pregiata e molti paesi produttori di petrolio cominciano ad accarezzare l'idea di quotare il loro oro nero in euro.
E poiché già da tempo sono stati messi in cantiere innumerevoli progetti da parte delle compagnie petrolifere europee, ivi compresa l'italiana Eni, per far giungere il petrolio dal Caucaso e dal Caspio direttamente alle raffinerie europee, è evidente che dal primo gennaio il progetto di un nuovo mercato del petrolio alternativo a quello in dollari potrebbe cominciare a prendere corpo e a svilupparsi, ma ciò significherebbe anche che sono state poste tutte le premesse perché il primato imperialistico statunitense, almeno sul piano economico e finanziario, possa vacillare e proprio quando a causa della crisi economica, forse la più violenta che gli Usa abbiano conosciuto in questo secondo dopo guerra, è necessario ribadirlo e rafforzarlo.
Occupare in via preventiva tutti i centri di produzione e le vie del petrolio è dunque una questione di vitale importanza. Altresì, importanza enorme assume, in chiave preventiva, l'occupazione di quelle aree che potrebbero avere, in prospettiva di un acutizzarsi del conflitto, una qualche valenza strategico - militare.
Per questa ragione e non perché l'esercito - fantasma di Bin Laden e dei suoi amici talebani possano tenere testa per un lungo periodo di tempo al più potente apparato militare esistente al mondo, questa guerra è destinata a protrarsi nel tempo e a travalicare i confini del disgraziatissimo Afganistan. Il "terrorismo", in tutte le sue varianti, è sempre cresciuto nell'alcova dei vari servizi segreti a cominciare dalla Cia e da questi è stato sempre in larga misura controllato; ora all'improvviso per debellarlo ci vuole addirittura una guerra senza confini e senza limiti di tempo. Che colossale bugia! Mai come in questa guerra la relazione con la crisi economica è stata così palese. Figlia dell'acutizzarsi della crisi del ciclo di accumulazione capitalistica, essa è pertanto destinata a rifletterne le sue alterne vicende. D'altra parte,la storia ha dimostrato ampiamente che queste crisi alla fine conducono alla guerra imperialista generalizzata e niente esclude che anche questa possa avere un simile approdo anche se la costituzione di un blocco imperialistico equivalente quello statunitense è ancora di là da venire. Il fatto è che il capitalismo non conosce altre vie di uscita dalle crisi strutturali diverse dalla guerra e più la crisi è profonda più la guerra è necessaria.
Se Bin Laden non ci fosse stato, probabilmente bisognava inventarlo. Dunque è vero: come ha detto Bush, siamo in presenza di una "sporca guerra" dalla durata e dagli esiti imprevedibili. Soprattutto per il proletariato e gli strati più deboli della società e in generale per le popolazioni civili inermi che pagheranno il prezzo più alto sia in termini di vite umane che di ulteriore degrado delle loro condizioni di vita. Ma questo e solo questo è tutto ciò che oggi il capitalismo può offrire. L'alternativa alla barbarie la può offrire solo il proletariato se saprà riprendere la lotta contro il capitalismo e per il comunismo.
GPBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
Ottobre 2001
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