I consumi stagnano? Riduciamo le imposte... ai ricchi

Ma la crisi economica non si fermerà neanche nel 2004

Le previsioni degli economisti che nel 2004 ci sarebbe stata una robusta ripresa della congiuntura economica sono tutte miseramente fallite. Sulla base delle proiezioni dei dati del trimestre appena concluso, è ormai unanime la convinzione che sarà già un miracolo se si registrerà, su base annua, una crescita superiore all'1,3-1,5% del Pil a livello europeo; per l'Italia il miracolo si avrà se il dato non sarà addirittura negativo.

C'è pessimismo anche sulla tenuta della ripresa statunitense che pur facendo registrare tassi di crescita più consistenti continua a non generare nuova occupazione. Infatti, da settembre a oggi anziché di 250 mila nuovi posti di lavoro mensili attesi in media dall'amministrazione Bush, ne sono stati creati soltanto 61 mila e lo scorso febbraio invece di 135 mila a malapena 21 mila.

Questi dati costituiscono l'ennesima conferma che in realtà la crescita registrata negli Usa nell'ultimo anno è strettamente legata a quella della spesa militare per l'occupazione dell'Iraq. Si tratta, pertanto, di una ripresa drogata dall'immissione da parte della Federal riserve di liquidità nel sistema e per questa ragione destinata a esaurirsi a breve termine; insomma: l'economia langue stretta nella morsa di una domanda asfittica e dalla prolungata stagnazione degli investimenti.

Il pericolo che l'economia possa entrare in una fase di vera e propria depressione come accadrebbe, per esempio, in Italia se i dati relativi all'andamento della produzione industriale del primo trimestre dovessero essere confermati su base annua, è talmente consistente che ormai anche i liberisti più convinti non fanno altro che invocare l'intervento salvifico dello stato. Così c'è chi chiede la riduzione della pressione fiscale sui redditi da capitale per favorire il rilancio degli investimenti e chi quella su salari, pensioni e stipendi per rilanciare i consumi. Stando al dibattito che ne è scaturito, la crisi, che pure ha indotto il presidente della Confcommercio Billè a evocare per l'Italia il rischio di una deriva argentina e il neo eletto presidente della Confindustria, Luca di Montezemolo, l'immediato dopoguerra, in ultima istanza - a seconda dei rispettivi punti di vista - dipenderebbe dall'adozione o meno di questa o quella politica fiscale.

Ora, la politica fiscale influenza senza alcun dubbio l'economia e in particolar modo la struttura della domanda; ma ricondurre le cause della crisi in cui si dimena l'economia mondiale è a dir poco fuorviante. Si dimentica, per esempio, che essa si trascina seppure con alti bassi da oltre trent' anni e che, nel corso del tempo, sono state adottate politiche fiscali di sostegno sia della domanda sia dell'offerta. Anzi, queste ultime sono state adottate quando le politiche economiche keinesiane, fino ad allora ritenute il miglior antitodo contro l'andamento ciclico dell'economia, mostrandosi inadeguate a fronteggiare la crisi, furono accusate di esserne addirittura la causa in quanto comportavano un'elevata pressione fiscale. Con l'ausilio della curva di Laffer, detta così dal nome del giovane economista americano che nei primi anni settanta disse di averla scoperta, ma che in realtà la inventò visto che non ne ha mai dato alcuna dimostrazione scientifica, si sostenne che la crisi era causata dall'eccessiva pressione fiscale esercitata sui redditi da capitale che ne scoraggiava il loro impiego in investimenti produttivi. La riduzione delle aliquote per le fasce di reddito medio-alte divenne così il cavallo di battaglia della campagna elettorale di Reagan negli Stati Uniti che una volta eletto la attuò, ma il risultato fu disastroso. L'atteso effetto moltiplicatore che avrebbe dovuto assicurare il rilancio complessivo dell'economia non si verificò e così venne meno anche l'atteso incremento delle entrate totali dello stato con cui si era ipotizzato di compensare la riduzione delle aliquote. Dopo gli otto anni della presidenza Reagan, il debito pubblico triplicò passando da 789,4 a 2.190,7 miliardi di dollari per poi raggiungere nei successivi quattro anni della presidenza Bush l'astronomica cifra di 3.2448,4 miliardi di dollari nonostante che nel contempo la spesa sociale fosse letteralmente falcidiata. Furono distrutti ben tre milioni di posti di lavoro e anziché la crescita della base produttiva si ebbe quella smisurata della sfera finanziaria. Va anche detto che insieme alle politiche keinesiane finì sul banco degli imputati anche la struttura del mercato del lavoro ritenuta troppo rigida. e così, legge dopo legge, è stata legalizzata ogni sorta di nefandezza, è stato del tutto cancellato il salario indiretto e il salario reale è rimasto inchiodato ai livelli del 1973.

Il fatto è che i capitali vanno laddove i capitalisti intravedono la possibilità di realizzare adeguati profitti e da un trentennio a questa parte i profitti industriali sono tendenzialmente sempre più bassi per cui essi, e in maniera particolare quelli di più recente formazione, fuggono l'investimento produttivo e privilegiano quello speculativo.

La domanda langue perché salari, pensioni e stipendi sono bassi e l'occupazione scarseggia perché gli investimenti necessari per crearla sono insufficienti o mancano del tutto. Mancano a tal punto che gran parte del sistema produttivo è ritenuto dagli stessi imprenditori tecnologicamente arretrato quando non del tutto obsoleto; eppure il sistema delle imprese riceve dallo stato come sostegno per gli investimenti qualcosa come 30 miliardi di euro l'anno.

È evidente, dunque, che i capitali prendono strade diverse dall'investimento produttivo perché esso non dà sufficienti garanzia di profittabilità. D'altra parte non è neppure un caso che non passi giorno senza che non venga scoperta una qualche impresa, anche di grandi dimensioni, che per integrare i profitti industriali non svolga, parallelamente a quella industriale, attività speculative di dubbia legalità, semilegali o del tutto criminali. Alla luce di ciò appare evidente che la riduzione di qualche punto della pressione fiscale è un po' come il classico topolino partorito dalla montagna, tanto più che nessuno sa come finanziarla senza procedere a ulteriori tagli della spesa pubblica soprattutto quella per finanziare i servizi e più in generale quella sociale, che poi sono i tagli che maggiormente si ripercuotono su stipendi, pensioni e salari. Ma probabilmente l'obbiettivo è proprio questo: incrementare ulteriormente i trasferimenti a favore del capitale perché si sa che i ricchi, non essendo abituati alle privazioni, soffrono molto di più dei poveri i quali, invece, essendovi abituati, nel farlo possono trovare perfino la felicità.

GP

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.