Crollano i consumi e la ripresa si allontana ancora

Anche il 2005 sarà un anno di crisi

Nella conferenza stampa di fine anno, il presidente del consiglio Berlusconi parlando dello stato di salute dell'economia italiana, ha descritto una situazione a dir poco idilliaca. Il paese è ricco - ha detto - perché possiede un patrimonio il cui valore è superiore a quello del debito e l'occupazione cresce come non accadeva da decenni. E crescerà anche, grazie alla recente riforma fiscale, il potere d'acquisto di salari, stipendi e pensioni con benefici per tutta l'economia ormai decisamente avviata verso una nuova fase di crescita. Ovviamente, da bravo imbonitore qual è, ha sorvolato sul fatto che caserme, uffici pubblici, strade, ferrovie e la maggior parte dei cespiti patrimoniali sono di fatto inalienabili e perciò indisponibili mentre i debiti sono debiti e prima o poi bisogna pagarli. Ma soprattutto ha completamente ignorato, nonostante fosse stato reso noto solo pochi giorni prima, il dato relativo all'andamento dei consumi che nello scorso mese di ottobre ha registrato un calo del 2,5 per cento su base mensile e del 2,7 su base annua, che supererebbe il cinque per cento se il calcolo tenesse conto anche del tasso d'inflazione, anche solo di quello ufficiale, pari al 2,2 per cento su base annua.

Sia per la sua entità sia perché il calo del mese di ottobre è stato il quinto consecutivo nel 2004, il dato è davvero allarmante poichéè evidente che con una domanda interna così asfittica e mentre la congiuntura internazionale si annuncia tutt'altro che favorevole, la tanto attesa ripresa economica è destinata a rimanere una chimera chissà per quanto tempo ancora.

L'opposizione parlamentare di centrosinistra imputa il crollo dei consumi alla disastrosa politica economica e fiscale del governo. Indubbiamente la politica economica, e soprattutto quella fiscale perseguite dal governo non hanno favorito salari, stipendi e pensioni letteralmente falcidiati dall'inflazione e dalla miriade di imposte, tasse e balzelli con cui gli enti locali hanno più che compensato il blocco dei trasferimenti statali che il governo centrale ha adottato per finanziare la riduzione delle aliquote Irpef a favore dei più ricchi. Ma nondimeno far discendere l'attuale stato delle cose dalla sola politica economica del governo di centro destra è quanto meno riduttivo e fuorviante. In primo luogo va rilevato che la modificazione della curva della distribuzione della ricchezza a favore dei redditi più elevati, oltre che essersi verificata su scala mondiale perdura da oltre venti anni. In secondo luogo, che la compressione del salario reale diretto e indiretto non è un fatto congiunturale ma è la conseguenza del feroce attacco che la borghesia ha scatenato contro il mondo del lavoro per fronteggiare la crisi sempre più pesante in cui si dimena il processo di accumulazione del capitale su scala internazionale da oltre trenta anni. Per far fronte alla riduzione del saggio medio del profitto industriale, grazie alle nuove tecnologie che lo hanno reso possibile, il mercato internazionale del lavoro è stato rigirato come un calzino. Il sistema della contrattazione collettiva e pluriennale è stato di fatto soppiantato dalla contrattazione individuale limitata nel tempo e senza barriere nello spazio. Inoltre la concorrenza fra i lavoratori, favorita dalla enorme crescita della disoccupazione e tutta la legislazione sull'uso flessibile della forza-lavoro hanno innescato un processo di forte svalutazione dei salari reali tanto che ormai in molte aree del pianeta non assicurano neanche la pura sopravvivenza.

La convinzione, tuttora dominante, era che ai bassi salari sarebbe corrisposto da un lato una riduzione dei prezzi delle merci e dall'altro l'accrescimento della profittabilità degli investimenti. Dalla combinazione di entrambi i fattori ci si attendeva una nuova fase espansiva che avrebbe riassorbito la disoccupazione e rilanciato sia i salari sia la domanda di merci. Ma non è andata così. Infatti, a ogni unità suppletiva di capitale investito nella produzione non ha corrisposto, se non in minima parte, un incremento del valore della forza-lavoro complessivamente occupata, ma la sua sostituzione mediante l'automazione di moltissime mansioni e/o la delocalizzazione dei cicli produttivi verso aree con un bassissimo costo del lavoro. Peraltro, sia perché la nuova occupazione ha riguardato soprattutto manodopera dequalificata sia perché per favorire gli investimenti dall'estero è stata ridotta la già scarsa protezione sociale esistente la condizione dei lavoratori anche in queste aree è quasi sempre peggiorata. Addirittura sono ricomparse forme di schiavitù e di sfruttamento del lavoro minorile che erano state proprie del capitalismo nascente. Altresì, accrescendosi la popolazione marginale e il lavoro servile anche nelle metropoli capitalistiche è cresciuto il numero dei lavoratori poveri.

Nel corso del tempo si è cioè determinata una struttura del mercato del lavoro tale per cui oggi, per esempio, il costo del lavoro per unità di prodotto in Cina è pari al 3 per cento di quello statunitense, ma è povero sia l'operaio statunitense ormai relegato a svolgere lavori marginali e dequalificati, sia quello cinese costretto a vere e proprie forme di lavoro forzato per salari bassissimi, essendo questa la condizione che consente alle merci cinesi di essere competitive sui mercati internazionali. Al di là degli interventi sulla curva della pressione fiscale e delle politiche economiche congiunturali, un simile processo non poteva che approdare alla contrazione della domanda e alla caduta dei consumi. E ciò per il capitalismo moderno, che fa leva in larga misura proprio sulla loro costante crescita, implica necessariamente la stagnazione e la crisi e, infatti, anche per il 2005 non c'è un solo osservatore che non preveda un ulteriore peggioramento della situazione economica generale e delle condizioni di vita di chi vive di salari, stipendi e pensioni.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.