Il patto costituzionale degli industriali

La confindustria chiede salari più bassi e maggiore flessibilità per rilanciare il paese

Dal 2006 la maga del capitale, la signora ‘caduta del saggio del profitto’, prevede maggior flessibilità per tutti. Dopo il patto del 1993, quello per il lavoro del 1996, il "pacchetto Treu" del 1997, il patto per lo sviluppo e l’occupazione del 1998, il libro bianco sul lavoro del 2001 seguito dalla legge Biagi del 2003, siamo alle viste di un "patto costituzionale". Questo "patto costituzionale", così lo definisce Confindustria, deve divenire il punto di partenza per l’elaborazione di nuove relazioni industriali. La Giunta di Confindustria dello scorso 22 settembre ha presentato le sue proposte in merito nel documento: "Relazioni industriali per una maggiore competitività delle imprese, lo sviluppo dell’occupazione e la crescita del paese". L’inizio è penosamente piagnone "l’industria italiana sta attraversando una delle fasi più difficili della sua storia", ma serve per rintracciarne le cause nell’alto costo del lavoro e nella bassa produttività, come per enunciare gli obiettivi comuni dell’aumento della produttività e del recupero di competitività, dai quali deriverà il "miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutti coloro che collaborano con l’impresa". Per iniziare Confindustria vuole aprire una stagione di relazioni industriali più collaborative, per coinvolgere i lavoratori sugli obiettivi delle aziende, al fine di "favorire la produzione di quel maggior valore aggiunto" per poi distribuirlo fra i fattori che l’hanno creato: "lavoro, capitale e attività imprenditoriale". Che il capitale e l’attività imprenditoriale producano valore è falso; al massimo trasferiscono il loro valore a quello del prodotto. Nemmeno il lavoro può compiere il miracolo: come può un lavoro di 8 ore creare maggior valore di quello incorporato in 8 ore, e poi qual’è il valore di 8 ore di lavoro? Si dice lavoro per non dire lavoratore, per non dire forza-lavoro. Si dice asetticamente lavoro per ridurlo ad uno dei fattori produttivi, per i borghesi non ci sono le classi sociali, e ad un fattore subordinato che non può niente senza il capitale e perciò deve essergli riconoscente. Ma qui si parla di maggior valore cioè di un valore finale che è superiore al valore iniziale. A questa differenza mira il capitalista, e questa è la differenza fra il valore della forza-lavoro ed il valore prodotto dalla forza-lavoro, è lavoro non pagato: è il plusvalore. È solo la forza-lavoro che crea valore e con esso il maggior valore, ed infatti solo questa è soggetta alle proposte confindustriali. Quel maggior valore vuol anche dire che il plusvalore estorto, o profitto, deve aumentare, non genericamente, ma in modo tale da valorizzare e remunerare il capitale impiegato, e può aumentare solo aumentando lo sfruttamento dei lavoratori, incrementandone la produttività, aumentando l’orario di lavoro, diminuendo il salario e così aumentando la parte di lavoro non pagato. Sono provvedimenti volti a contrastare la caduta del saggio del profitto. A tal fine la contrattazione collettiva deve adattare alle esigenze della competitività "i principali istituti che regolamentano la prestazione lavorativa sia in tema di orario che di struttura delle retribuzioni", stabilendo regole precise "in modo che tutto quanto concordato in sede nazionale non sia rimesso in discussione agli altri livelli previsti". Così per garantire la massima certezza al capitale occorre "rivedere ed aggiornare le regole patrizie che disciplinano la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro" (non c’è più spazio per l’innocuo delegato sindacale di base), garantire che i sindacati non promuovano azioni o rivendicazioni volte a modificare gli accordi presi, ampliare la clausola della tregua sindacale configurando ogni violazione come danno ingiusto, creare le condizioni affinché il ricorso allo sciopero nell’industria e nei servizi sia l’extrema ratio, ossia non scioperare mai se non in casi estremi. Sempre nello spirito di collaborazione le imprese hanno bisogno della flessibilità da contratto e specificatamente "la contrattazione collettiva deve assicurare alle imprese di poter fare affidamento su una maggiore quantità complessiva di ore effettive di prestazione ed anche sulla possibilità di distribuire i nastri orari nell’arco della settimana, del mese, dell’anno, secondo le esigenze del mercato; adeguare la durata media e la durata massima settimanale degli orari di lavoro alle differenti esigenze produttive, così come le misure di utilizzazione del lavoro straordinario, le deroghe in tema di pause, lavoro notturno, ecc.". Della flessibilità delle retribuzioni e cioè "il diretto collegamento delle erogazioni economiche derivanti dalla contrattazione collettiva di secondo livello sia a parametri di efficienza della prestazione che di produttività e redditività dell’impresa". Le condizioni economiche generali della singola impresa diventano il parametro per determinare le retribuzioni, e perciò il contratto di secondo livello deve accrescere il suo peso a scapito del contratto nazionale o di primo livello. Per finire i signori della Confindustria ci tengono a ribadire che il contratto collettivo nazionale deve definire i trattamenti economici minimi spiegando "che l’obiettivo mirato alla salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni non rappresenta un automatismo bensì costituisce un obiettivo da considerare unitamente alle tendenze generali dell’economia e del mercato del lavoro", dov’è finta la parte di valore aggiunto che dovrebbe andare ai lavoratori? Questa è la svalorizzazione delle retribuzioni infatti "il contratto nazionale di settore determina gli aumenti dei minimi tabellari in coerenza con i tassi di inflazione programmata" il resto è lasciato alla contrattazione di secondo livello, laddove prevista. Insomma dopo tutta questa collaborazione il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori si ridurrà nel suo opposto: nell’aumento dell’orario di lavoro, nell’aumento della produttività e così dello sfruttamento, nella riduzione dei salari in termini assoluti e relativamente al valore prodotto, nella progressiva estinzione del contratto nazionale, nell’impossibilità di svolgere la benché minima attività rivendicativa al di fuori di quanto concordato centralmente. I sindacati confederali per il momento temporeggiano, ma sicuramente non mancheranno di dare il loro aiuto ai padroni. Ne è convinto anche il presidente di Confindustria Montezemolo che, spinto dalla maga del capitale, recita il suo credo "credo in un grande dialogo, è arrivato il momento di innovare, con coraggio" ha detto, con i sindacati che "rappresentano una parte importante della classe dirigente", manca solo una leadership per governare. Più chiari di così!

mr

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.