Lo scontro sul gas tra Russia e Ucraina

Tattiche economiche e strategie imperialistiche ridisegnano il quadro nell'Europa orientale

La cronaca ci dice, per bocca del vice presidente della Gazprom, Medvedev, che il governo russo intendeva aggiornare il prezzo del gas siberiano per le forniture all’Ucraina di quasi il 500%. Il vecchio accordo, siglato nel 1993 e che scade nel 2013, prevedeva che il costo del gas fosse di 50$ per mille mc. L’intenzione di Mosca era di portarlo a 230$ per una sorta d’aggiornamento ai prezzi correnti di mercato, senza fare sconti al governo di Kiev, trattandolo alla stregua di qualsiasi altro paese, senza più facilitazioni, con al massimo un prestito di 3,6 miliardi di dollari per poter far fronte finanziariamente all’emergenza ener-getica. La risposta del presidente Yushcenko è stata altrettanto dura e stizzita. Si dichiarava disposto a trattare per un prezzo attorno ai 70$, rifiutava il finanziamento di 3,6 miliardi di dollari proponendo in cambio l’utilizzo del 15% del gas che passa attraverso il suo territorio e ridefinendo la rendita da transito che sarebbe passata da 1,09 dollari per mille mc ogni 100 chilometri, a 2,75 dollari. In più gridava allo scandalo e denunciava che il governo Putin esercitava un ricatto economico e politico nei confronti dell’Ucraina. Questa l’iniziale, nuda cronaca dai limitati contorni economico commerciali. Nei fatti la questione è più vasta e complessa con sviluppi imperialistici che si dilatano all’Europa, al cuore del continente asiatico, sino a toccare gli interessi energetici e strategici americani. In primo luogo dall’Ucraina passa il 73,5% del gas naturale che soddisfa buona parte delle necessità energetiche dei nuovi membri dell’Ue, tra cui Polonia e Ungheria. Interessa il 48,6% dei paesi candidati ad entrare in Europa, il 23,5% dell’Unione europea e il 17,6% dell’Europa dei 15. Il governo Putin, dopo aver accusato Kiev di rubare il gas a danno di questi paesi, ha immediatamente provveduto a tranquillizzare tutti i governi dei paesi fruitori, aumentando l’erogazione di gas, proponendosi come affidabile fornitore energetico, sia nella contingenza del contenzioso con l’Ucraina, sia per il futuro. Se così non avesse fatto, si sarebbe aperta la corsa alla diversificazione dell’approvvigionamento del gas da parte dei paesi europei, più di quanto non sia già in atto, con grave danno economico e d’immagine per la centralità energetica del paese produttore.

Fuori dalla contingenza economica dello scontro tra Russia e Ucraina, il significato che il governo Putin annette alla delicata vertenza, attiene a più ampi scenari. Il primo è quello interno ai paesi della Csi (Confederazione degli stati indipendenti, nata nel 1992 sulle macerie dell’Unione sovietica). L’ambizione di Mosca è quella di stabilire rapporti di dipendenza economica e di sudditanza politica con quelle repubbliche che, un tempo, dipendevano in tutto e per tutto dalle scelte del Kremlino. Una sorta di nuova egemonia grande Russia che consenta al Kremlino di rinnovare i fasti imperialistici dell’epoca staliniana, anche se con un profilo più basso, in un contesto economico e politico diverso, ma con gli stessi attori comprimari, quali la Cecenia, la Bielorussia, la Georgia e l’Ucraina. Nei progetti futuri del governo Putin, le repubbliche ex sovietiche dovranno fungere da ancelle alla ripresa economica russa, al suo rinnovato ruolo egemone nell’area, comportandosi da docili partner politici, da acquiescenti alleati commerciali, disponibili sul terreno dei rapporti economici, senza intralciare i suoi piani imperia-listici, pena la repressione militare come in Cecenia o il ricatto economico come in Ucraina. Da questa condizione di sudditanza passa la concreta possibilità di rafforzare il proprio ruolo di maggiore offerente energetico per l’Europa e dintorni, senza intralci di sorta nell’amministrazione e manutenzione dei gasdotti, nella determinazione dei costi delle servitù di passaggio, per la programmazione e costruzione di nuove linee d’approvvigionamento che dalla Siberia occidentale dovrebbero arrivare, secondo i progetti, sino al nord dell’Europa, passando da quei territori che un tempo erano feudi di Mosca e che oggi devono tornare a giocare lo stesso ruolo.

Allargando lo scenario, la Russia di Putin ha la necessità di arginare l’accer-chiamento che l’imperialismo Usa le sta da anni organizzando contro nello stesso giardino di casa, sia sulla questione energetica nell’area centro asiatica, sia su quella strategico militare, che ne è premessa e corollario. Una delle ragioni del duro atteggiamento di Mosca nei confronti di Kiev, è che il neo presidente Yushchenko si è avvicinato ai dollari e alle strategie di Washington, voltando le spalle alle aspettative del governo Putin che, in vista delle prossime elezioni in Ucraina, ha pensato bene di mettere in difficoltà economiche l’avversario politico, tacciandolo di essere un ladro di gas naturale, un personaggio inaffidabile, il vero responsabile della attuale crisi energetica, e che solo il senso di responsabilità del governo russo è in grado di evitare. Al riguardo, Putin, pur di chiudere in un angolo il governo di Kiev e di rassicurare gli utenti del gas siberiano, ha magnanimamente concesso un nuovo accordo della durata di cinque anni, ad un costo ufficiale del gas sempre a 320$, ma in realtà di 95$, grazie alla possibilità di Kiev di mescolarlo con quelli meno cari del Kazakistan e del Turkmenistan, concedendo un piccolo ritocco verso l’alto alle tasse per il passaggio in territorio ucraino, pur di continuare ad essere monopolista nella gestione energetica verso l’Europa, e per tagliare la strada alle ambizioni americane.

L’attacco russo alle pressanti ambizioni energetiche degli Usa avviene, non a caso, in un momento di particolare difficoltà dell’imperialismo americano. Le due feroci, devastanti campagne di guerra per il petrolio condotte dal governo Bush, non hanno prodotto assolutamente nulla sul piano delle acquisizioni energetiche, in compenso hanno destabilizzato due paesi, Afghanistan e Iraq, prodotto morte e devastazione, esasperato persino l’opinione pubblica interna e hanno, soprattutto, favorito l’isolamento dell’impe-rialismo americano. I tradizionali alleati iniziano a prendere le distanze da Washington, gli imperialismi concorrenti prendono fiducia e imboccano strade autonome. L’India ha sottoscritto con l’Iran la costruzione di un oleodotto che dal Golfo Persico porterà petrolio all’India, la Cina si è assicurata, con il governo del Kazakistan, il progetto di un lungo oleodotto che assicuri gli approvvigionamenti necessari al suo impetuoso sviluppo capitalistico con il petrolio del Caspio. Cina e Russia, nell’agosto 2005 hanno dato vita alle prime prove militari nell’area centro asiatica, e intimato all’imperialismo americano, con l’assenso e la firma di tutti i governi interessati, di togliere tutte le basi militari presenti nella zona da dopo l’11 settembre. Lo scontro è appena agli inizi e gli Usa, nonostante le difficoltà, o proprio a causa di queste, non staranno con le mani in mano a subire gli avvenimenti. Gli appetiti imperialistici non possono aspettare che altri imbandiscano la tavola senza nemmeno essere invitati. La crisi economica generale, di cui quella energetica è parte rilevante, accelererà tutti i fattori di scontro, guerre d’area comprese, con il risultato di produrre ancora più barbarie, morte e devastazioni. Questa è la logica del capitale, in Afghanistan come in Iraq, in Ucraina come nel Golfo della Guinea, purché in gioco ci siano profitti da salvaguardare, mercati da conquistare e interessi da perseguire.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.